*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 49105 *** EDMONDO DE AMICIS ALLE PORTE D'ITALIA =3.ª Impressione= _della nuova edizione del 1888 riveduta dall'Autore,_ =con l'aggiunta di due capitoli.= MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1888. Questa nuova edizione annulla le precedenti; l'autore avendola riveduta completamente, ed aggiuntovi due capitoli: _I difensori delle Alpi_ e _La scuola di cavalleria_. PROPRIETÀ LETTERARIA _Riservati i diritti di traduzione._ Tip. Fratelli Treves. ALLA CITTÀ DI PINEROLO IN SEGNO DI AFFETTO E DI REVERENZA OFFRO QUESTE PAGINE ISPIRATE DALLA BELLEZZA DEI SUOI MONTI E DALLA NOBILTÀ DELLE SUE MEMORIE. ALLE PORTE D'ITALIA PINEROLO SOTTO LUIGI XIV _Al Signor Carlo Toggia, a Torino._ Pinerolo, 22 luglio 1675. Ti ringrazio della bella lettera, la quale, dopo tanti mesi di silenzio, m'è stata cagione di vivissimo piacere. Ti porgerà questa mia il signor Pietro Osasco, procuratore di S. A. R. il duca di Savoia; il solo pinerolese al quale io possa confidare una lettera pericolosa con la speranza che i vostri riveriti padroni non gli ficchino le mani nelle tasche. Grazie delle affettuose domande intorno alla famiglia. I fratelli, le sorelle, tutti son sani come pesche. Io pure, grazie a quest'aria purissima che vien dai monti, e nonostante le molte noie della mia professione, se non schiatto dalla salute, almeno posso dire che i medici non hanno mai visto il colore del mio letto. Se anche non mi tenessero qua i miei affari, ci starei forse egualmente, perchè ci ho messo le radici, e mi pare che non potrei più trapiantarmi senza pericolo. La città mi piace infinitamente. Vista dall'alto, posta com'è all'imboccatura di due bellissime valli, ai piedi delle Alpi Cozie, davanti a una pianura vastissima, seminata di centinaia di villaggi, che paiono isole bianche in un mare verde e immobile, è la città più bella del Piemonte. Il mio povero padre soleva dire che qui, per imparar la storia di Casa Savoia, basta leggerla una volta sul tetto: guardando intorno, si possono seguire le mosse degli eserciti e le vicende delle guerre come sopra una carta geografica sterminata. Ma questo è più strano: che vi si può studiare con eguale vantaggio il Nuovo Testamento, poichè v'ha una rassomiglianza singolarissima di giacitura e di dintorni tra Pinerolo e Gerusalemme. Come la città santa, questa è fabbricata in parte sopra un'altura, e scende allargandosi al piano: il colle di San Maurizio è il Sion, l'altura della cittadella è il Golgota, il monte di Santa Brigida, monte Moria; e, non solo per sito, ma per forma, la valle del Lemina rappresenta la valle di Giosafat; ed anche Pinerolo ha dalla parte di levante un monte Oliveto, e il torrente Chisone può raffigurare il Giordano. Che te ne pare? Avrei ragione di star qui volentieri, non foss'altro che per studiare la storia patria e la storia sacra. * * * Ma lasciamo gli scherzi. Risponderò alle tue domande, minutamente, come desideri. Pur troppo, non ho cose molto liete da dirti. Tolto il piacere di ber l'aria fresca e di ammirare il paese, a Pinerolo si vive miseramente. Se anche non vi fosse l'ombra di uno straniero, la città, con questo cerchio che la strozza, di bastioni, di mezzelune e di controguardie, e con quella enorme cittadella che le rizza sopra la testa i suoi cinque torrioni di malaugurio, non potrebbe essere allegra. Mettici ancora un governatore generale, francese, un luogotenente del re e un comandante del castello, francesi, e uno stato maggiore che non finisce più, e un nuvolo d'ufficiali e di soldati di milizia mobile, francesi; e mi saprai dire come ci si campi. Essi ci detestano e noi li odiamo. Essi ci tengono come vinti e prigionieri, noi li trattiamo da invasori e da giandarmi. Essi fiutano in ogni pinerolese una spia del duca di Savoia; noi temiamo in ciascun di loro un delatore del Saint-Mars. È impossibile farsi un'idea delle angherie a cui siamo soggetti. Di città non s'esce senza un permesso del Governatore; di casa non si può uscire che a quell'ore determinate; per una celia che scappi di bocca all'osteria, si è agguantati e ingabbiati; in ogni valigia di viaggiatore italiano sospettano veleni e pugnali; in ogni pezzo di carta, vedono il disegno della fortezza. E ogni volta che credon di cogliere uno di questi traditori immaginari, è il finimondo: inchieste, minacce, corrieri a Parigi, ammonizioni a Torino, scacciati di città gli italiani che non vi hanno dimora fissa, licenziati dal servizio delle autorità i piemontesi e i savoiardi, visite e inquisizioni in tutti i canti. Puoi esser certo che non si troverebbe in tutta Pinerolo nè un moschetto nè una pistola, a pagarli a peso di rubini. Naturalmente, da parte dei cittadini, sono lagnanze e richiami continui; e, anche più naturalmente, le autorità non se ne dànno per intese. Prepotenze aperte e impunite da un lato; e dall'altro rivolte e vendette, s'intende, ogni volta che si posson fare copertamente. Duelli, ammazzamenti, furti, ripeschi amorosi che finiscono con un occhiello nel ventre, son cose d'ogni settimana. Le _gaîtés du sabre_, come le chiamano, sono oramai la nostra ricreazione abituale: viviamo sotto il materno regime della Lama. Aggiungi che i nostri buoni amici credono d'aver diritto sulle nostre donne come sui loro cavalli. Tu vedi le conseguenze. Non puoi immaginare con che superbia, con che muffa si sbacchian le spade negli stivali questi bravacci gallonati del grande Sottaniere di Versailles! È _Lui_, infatti, quello che dà il tono a tutti quanti. E son grossolani, con tutto questo, e ignoranti, da disgradarne i montanari del Talucco. Per dartene un esempio, io ce n'ho uno, alloggiato in casa mia, un luogotenente De Rivière, un gran perticone del reggimento di Navarra, che scrive con la sua bella mano inanellata: _Suivant lordre que jai recu a Pignierolle_.... Ci parliamo, nondimeno, perchè non ci possiamo scansare. Egli batte sempre sullo stesso chiodo: la slealtà della politica di Savoia. E io tiro via a ribattergli che sarebbero ameni assai un orso bianco e un orso nero, i quali, stringendosi addosso un veltro per divorarlo, tacciassero di sleali le giravolte ch'egli facesse in mezzo a loro, per tenerli a digiuno tutt'e due. * * * Noi ci troviamo qui in una condizione di cose unica al mondo. Dentro alla cinta delle fortificazioni ci sono due città. La cittadella, colle sue prigioni e con la sua compagnia franca, è separata affatto da Pinerolo. I suoi ponti levatoi, sempre alzati, non si calano che per far entrare le provvigioni da bocca e i corrieri. Il Saint-Mars che nella sua qualità di governatore del castello dovrebbe sottostare al marchese d'Herleville, governatore generale della città, se ne infischia, e fa le sue sette volontà come un sovrano. Quindi si guardano in cagnesco, fra loro, e credo anzi che ciascuno tenga una spia alle costole dell'altro, e che il Louvois, da Parigi, li faccia spiare tutti e due. Ne segue che la cittadella è un piccolo mondo a parte, oggetto di preoccupazione continua non meno per la guarnigione che per i pinerolesi. Gli ufficiali, i viaggiatori, i cittadini girano intorno a quelle alte muraglie impenetrabili, divorati dalla curiosità, fantasticando, poichè non posson far altro, sui prigionieri misteriosi e sugli strani avvenimenti che vi si debbon nascondere; tanto che finiscono col ragionare delle cose immaginate come di cose reali. Chi ci sia dentro ora, non si sa con certezza, fatta eccezione dell'intendente Fouquet, del suo servo, il famoso Eustache Dauger, del più famoso conte di Lauzun, e di due ufficiali di artiglieria, francesi, dei quali non s'è ancora riusciti a scoprire nè il delitto nè il nome. Ma si crede che i prigionieri sian molti. Ogni tanto ne arriva uno, di notte, scortato da un drappello della compagnia franca, e lo conducono nella cittadella senza attraversar la città, facendolo passare per la porta segreta di San Giacomo, a cui si giunge per un sentiero sinistro che serpeggia tra la lunetta di Santa Brigida e quella di Sault. Presentemente si fa ancora un gran discorrere intorno a uno sconosciuto, portato lassù nell'aprile dell'anno scorso, con grandissima segretezza, una notte di pioggia, in mezzo a uno stuolo di cavalieri, comandati dal luogotenente Saint-Martin; e rinchiuso, dicono, nella torre chiamata _torre bassa_, che è quella di mezzo del castello, e la più tetra delle cinque. Raccontano che fu portato in lettiga, che veniva da Lione, che aveva sul viso una _maschera di ferro_. Chi crede che sia il conte di Beaufort, chi vuole che sia figlio di Cromwell. I soliti almanacchi. Per me, quando penso ai molti birbaccioni volgari che passaron per grandi personaggi perchè furon portati quassù, chiusi in gabbie, come tigri ircane, o in bussole, come principesse rapite, larvati, imbacuccati e tappati come se lo scoprimento della loro persona dovesse sconvolgere il mondo; mi pare cosa molto probabile che anche questo nuovo venuto non sia che un malfattore di dozzina, come chi dicesse il capo d'una delle cento congiure che si vanno scoprendo di continuo, o un avvelenatore di Corte, od anco un galantuomo qualsiasi, che ha detto quattro crude verità in faccia a Sua Maestà il Re di Francia. * * * Comunque sia, tutti gli sguardi e tutti i pensieri son rivolti al Castello. Su dieci pinerolesi io credo che sette lo sognino tutte le notti. Chi sia il nuovo confessore concesso dal Re ai prigionieri, quanto abbia speso il Governo nel mese scorso per la mensa del Fouquet, che secreti si sia lasciato cascare dalle labbra, nel suo ultimo viaggio, quel grand'uomo del D'Artagnan, e che cosa sia venuto ad armeggiare il personaggio sconosciuto che fu visto uscire due giorni addietro dalla casa del Governatore, sono argomenti di chiacchiere interminabili, indovinelli meravigliosi, su cui centinaia di persone si scervellano dalla mattina alla sera, non avendo altro da fare. La curiosità è così smaniosa che la stessa marchesa d'Herleville s'è inimicata con la signora Saint-Mars (una delle più belle e delle più sciocche creature che si sian mai viste con due occhi) per il dispetto di non aver potuto visitare il Castello come voleva. Il Saint-Mars è affollato di tante domande indiscrete e supplichevoli intorno ai suoi ospiti, e in special modo alla _maschera di ferro_, che ha preso il partito di raccontare a ciascuno una fandonia diversa, la prima e la più strampalata che gli passa pel capo, con la speranza che, mettendole poi a confronto e riconoscendosi corbellati, i curiosi si sdiano dall'interrogare. Questo Saint-Mars, antico moschettiere, soldataccio di ventura, affamato d'oro come un usurario, che si becca la bagatella di centocinquantamila lire francesi all'anno, oltre a quello che raspa nell'amministrazione; piccolo, brutto, con un muso di bertuccia, sempre rannuvolato come il cattivo tempo, irascibile e bestemmiatore come un vetturale, tutto carne e pelle col Louvois per via della sorella di sua moglie; è il tipo nato del ferro di polizia e del carceriere aguzzino, che Dio gli mandi il malanno. Non si assenta un giorno all'anno dalla sua bicocca, veglia sulle sentinelle dalla finestra, fruga i panni dei prigionieri mentre dormono, è capace di passar la notte sopra un albero per scoprire che cosa fa nella cella un disgraziato che gli dà sospetto. Questa specie di porco spino, circondato di mistero e di paura, non è l'ultima delle cagioni per cui a Parigi e alla Corte si parla come d'un recesso strano e quasi fantastico, di questa fortezza solitaria, posta all'ultimo confine dello Stato, ai piedi della quale vengono dalle sale splendide di Versailles i sospiri, i saluti e l'oro di tante belle, a cercare gli amici o gli amanti. Ma chi può farla al Saint-Mars? Ai prigionieri più gelosi porta egli stesso il mangiare una volta al giorno; due sentinelle girano dì e notte intorno alle torri; nella stanza che sta sopra a ogni cella, dorme con gli occhi aperti un ufficiale; ai reclusi non è permesso di confessarsi che una volta l'anno: assistono alla messa da un finestrino obliquo che li nasconde; e quando si cambia la gente del presidio, il cambio è regolato per modo che gli ufficiali e i soldati che vengono non possano barattare una parola con gli ufficiali e coi soldati che se ne vanno. Che delitto avran commesso la maggior parte di quegli infelici? Un libello, una canzonetta impertinente, uno scherzo mordace, che fece ridere furtivamente dieci cortigiani e dieci dame. La collera d'una amante del Re o di un ministro bastò a farli sprofondare in quel sepolcro, dove alcuni muoiono in capo a pochi anni; e quando la notizia della loro morte giunge a Parigi, accade non di rado che chi li ha fatti seppellire non si ricordi più nè del loro nome nè della loro colpa. Ah! la giustizia non ha la mano leggera di qua dal confine, te lo assicuro io. A quando a quando, sulla cima del colle di San Maurizio, si sentono gli urli dei prigionieri indocili, ai quali “dànno la disciplina.„ Giorni fa, dalle carceri basse, si son viste uscire barcollando, soffocate dai singhiozzi, istupidite dal terrore e dalla vergogna, tre meretrici della città, ancora giovani, alle quali, non so per che colpa, avevan raso i capelli e lacerato la schiena a sferzate. Io ricorderò per tutta la vita, rabbrividendo, quegli orribili crani nudi e quei miseri cenci bagnati di pianto e di sangue. * * * Riguardo al Fouquet, me ne duole, non mi trovo in grado di soddisfare la tua giusta curiosità: so questo soltanto, che in dieci anni da che è qui, tutto occupato a far la digestione, un po' laboriosa, dei trentasei milioni del castello di Vaux, non gli è ancora stato concesso di riveder la moglie e i figliuoli. Si sa per altro che può, quando vuole, stare in compagnia del Lauzun e degli ufficiali della cittadella, e che al Saint-Mars è permesso dal Re d'invitarlo a pranzo, e di fargli gustare, oltre ai suoi piatti, le scioccherie della sua signora. Pare che sia rassegnato e tranquillo. Ti posso dire qualcosa di più del conte di Lauzun, che è confitto qui da quattro anni, e che ci starà un altro bel pezzo, se Dio m'esaudisce. Dopo ch'è venuto lui, il Saint-Mars non ha più un'ora di bene. Gli dà più da fare questo rompicollo di dragone, che tutti gli altri prigionieri insieme. Superbo, furioso, scontento di tutto, manesco come un facchino, schiamazzone come un banditore d'incanti, è riuscito a ordire intrighi amorosi dentro e fuori della cittadella, e a far più chiasso a Pinerolo di quello che ne facesse a Versailles. Le sue ultime due amanti, la _Grande demoiselle_ e la bella La Motte, damigella d'onore della Regina, hanno profuso i denari a palate per fargli prendere il volo. Di tempo in tempo si vedono per la città delle facce nuove; si dice: chi sono? chi non sono? Tutt'a un tratto spariscono come spettri. È un tentativo di fuga andato a male. Già una volta una sentinella e non so chi altri avevano preso l'imbeccata; una lettera era arrivata fino al conte; tutto era disposto per la fuga. Ma quel satanasso di Saint-Mars stava all'erta. Un messo della damigella, scoperto, si tagliò le vene; parecchi altri furon messi sotto chiave; e il dragone amato rimase a contare i travicelli. Figurati il chiacchierìo che se ne fece a Pinerolo. Per molto tempo fu un vero furore di curiosità. Questa lamaccia di De Lauzun, dopo averne fatte di tutte le tinte, cortigiano ipocrita, cacciatore di grasse doti, giocatore sospetto, crapulone, maldicente, invidioso, villano con le donne e insolente col suo Re, è ancora riuscito a farsi un piccolo paradiso in prigione, dove le sole spese del suo installamento, a quello che si dice, raggiunsero la somma di diecimila lire francesi. Ha vitto di principe, stoviglie d'argento, camicie di trina, letto di piume, due servitori, e grandi dame che lo adorano a duecento leghe di lontananza. Si chiama nascer fortunati. Si dice che stia nella medesima torre del Fouquet, che è quella accanto al quartiere del Saint-Mars. Ma per quanto sia lasciato libero, le belle signore di Pinerolo, che girano intorno alla cittadella con gli occhi fuori del capo, non sono ancora riuscite a vedere neanche il contorno della sua bellissima faccia di ferro fuso. * * * La vita intellettuale di Pinerolo, insomma, consiste in gran parte nel commentare i fatti e le gesta di quei signori, dei _merles_, come li chiama benignamente il Governatore; tanto più dopo che è finito il divertimento di veder lavorare alle fortificazioni, che furon rifatte con grandi spese in seguito alla visita che ci venne a fare segretamente il Vauban, anni sono, in compagnia, credo, dell'onnipotente Louvois. Le famiglie pinerolesi si mescolan poco con gli ufficiali del presidio. C'è un po' di passeggiata la sera in piazza San Donato; ma non ci va quasi nessuno, perchè danno ai nervi quei grandi baffi impertinenti dei soldati della compagnia d'onore, che fan la guardia al palazzo del Governatorato, e le famiglie dei commissari e degli altri impiegati francesi che fanno dei nastri per la piazza col naso per aria, dicendo corna della città (_une tanière_) ad alta voce. Gli ufficiali della cittadella, alloggiati nel loro vasto gabbione, non scendon quasi mai; il Saint-Mars se li tiene a portata della mano per timore che quei di sotto glieli corrompano. E infatti, non si dà mai il caso che mandino a prendere o ad accompagnar fuori un prigioniero dai soldati e dai sergenti del presidio, da tanto che se ne fidano! Non ce n'è uno — è scappato detto allo stesso governatore, — che mandato fuor delle mura, non pianterebbe il prigioniero in mezzo ai campi per disertare. Così è fedele l'esercito del gran Re! Per conseguenza, quando la città non è scossa dall'arrivo d'un ufficiale dei moschettieri, nelle ore in cui le truppe riposano, dopo mezzogiorno, Pinerolo ha tutta l'aria di una necropoli. Fra le alte caserme e i grandi conventi silenziosi, dalla porta di Torino alla porta di Francia, non si vede passare che qualche cappuccino o qualche penitente della Concezione, e non si sentono che i rumori cupi della Fonderia e dell'Arsenale, che lavorano ai nostri danni. Si direbbe che quel maledetto castellaccio, con quei cinque ricettacoli di dolori, che si alza come una gigantesca macchina di tortura a contaminare l'azzurro, e si vede da tutte le parti della città e da tutti gli angoli dei bastioni, getti per le vie e nelle piazze l'uggia dei suoi cortili grigi e la tristezza delle sue celle nefande. O piuttosto, non è il castellaccio. È quella faccia malaugurosa del Saint-Mars che si vede spuntar a tutte le cantonate e a tutte le finestre. È lui che empie la città del suo umor nero di birro sospettoso, e che batte la misura alla vita di Pinerolo con lo stridor cadenzato dei suoi chiavistelli. Lo stesso governatore d'Herleville ne sente l'influsso funereo, e scappa a Torino ogni volta che può, con la sua graziosa marchesa; — un amore; — la sola cosa bella ch'io abbia trovato finora nella dominazione francese. * * * Oh splendido e caro passato, già tanto lontano! Ci pensi mai, tu, amico Toggia? Dire che siamo stati la città capitale del Piemonte per il corso di più d'un secolo, accarezzati, colmati di privilegi; che qua i nostri principi nascevano e venivan sepolti; che fra noi si festeggiavano re e imperatrici; che contavamo una popolazione di grande città, con quattordicimila operai, con una brava milizia nostra, che le mura turrite si estendevan per varie miglia da monte Oliveto oltre all'Abbadia, che mandavamo le nostre lane fino in Oriente, che accoglievamo gli ambasciatori di Napoli, di Milano, di Venezia, di Ungheria, di Vienna, del Papa, i deputati di tutte le città del Piemonte, i cortei dei marchesi di Saluzzo e di Monferrato, e le visite festose dei conti di Savoia, e i ritorni trionfali dei principi d'Acaja, e che su per queste vie salivano a cavallo le belle spose bionde vestite di broccato d'oro, sotto i baldacchini di raso bianco, in mezzo ai baroni vassalli scintillanti di ferro e ai signori del Consiglio vestiti di mantelline purpuree, sopra un terreno coperto di mirti e di rose! Ed ora abbiamo il Saint-Mars. Io l'ho col Saint-Mars. Che rotolone, ingiusto cielo! * * * Se voglio vivere, caro mio, non bisogna ch'io pensi che questo dura da quarantaquattr'anni. Dall'anno in cui son nato, nè più nè meno; poichè io venni al mondo qui nell'anno medesimo che quel baccellone del conte di Scalenghe, dopo due giorni di tremarella, cedeva Pinerolo al cardinale Richelieu, facendo abbassare le armi a quattrocento Vallesiani e a trecento uomini di milizia che avrebber potuto salvare il Piemonte. Ah se risuscitasse Emanuele Filiberto, brava anima sua! — Il re ha bisogno di tenere un piede di qua dalle Alpi, — bada a ripetermi questo squassapennacchi del luogotenente Rivière. Ebbene, ci vorrebbe un duca di Savoia che rispondesse al re, come rispose quel lestofante: — Son d'accordo, purchè quel piede sia io. — Ma che possiamo sperare da Carlo Emanuele II, che si lascia pestare i calli ogni giorno dagli ambasciatori di Francia per il posto al banchetto o per il palco al teatro? Egli tira ai dominii di Ginevra, del Vaud, di Friburgo, di Losanna, limosina dei pezzi di terra a tutte le Corti di Europa, manda dei reggimenti a lasciar le ossa per il Re nelle Fiandre, attacca lite con Genova per far quella bella figura che sappiamo, s'intesta di bucare il colle di Tenda; e non pensa a liberar Pinerolo, che è il morso col quale la Francia terrà sempre Casa Savoia in sua balìa. Facesse almeno dei bei versi come suo nonno! Oramai noi non speriamo più che in una specie di diluvio universale, in una vastissima e terribile guerra che metta sottosopra l'Europa, sconquassando questa mostruosa baracca dorata della Monarchia francese. Comunque debba finir la cosa, peraltro, possiamo esser certi che le prime batoste, ossia le bombe, le mine, le devastazioni e la fame, saranno per noi. È stato sempre il nostro destino. Abbiamo l'onore di esser la chiave della valle del Chisone, una delle porte d'Italia; e tu vedi dove ce l'han confitta, questa chiave. Povera Pinerolo! Dalla seconda guerra punica in poi, chi abitò da queste parti non ebbe mai dieci anni di santa pace. Romani e Cartaginesi, Galli e Saraceni, Goti e Ostrogoti, Longobardi e Svizzeri, Tedeschi, Spagnuoli, Francesi e Valdesi e marchesi e anticristi si sono scatenati sui nostri quattro campi e sui nostri quattro sassi come se questo fosse un circo stato fatto apposta da domenedio perchè tutti i popoli della terra vi si venissero a pestar la cappa del cranio. Per tutto dove si scava, vengon fuori stinchi, caschi rotti e dagacce arrugginite. Che spettacolo, perdio, se saltassero su vivi per i campi e per i colli tutti i soldati che li calpestarono in venti secoli, dai numidi di Annibale agli alabardieri di Francesco I! Sarebbe la benedetta volta che vedremmo il Saint-Mars, spaventato e senza parrucca, precipitarsi dalla Torre del Diavolo nel fossato della cittadella. * * * Ciò non ostante, come t'ho già detto, io trovo modo di vivere serenamente, grazie alle molte faccende e alla molta lettura. La mia più bella ricreazione è una passeggiata che faccio ogni sera, verso il tramonto, con le poesie del Chiabrera tra le mani; un esemplare prezioso, annotato nei margini, che fu regalato dal poeta stesso al marchese di Caluso, quando fu alla corte del primo Carlo Emanuele. Me ne parto di vicino alla Polveriera, dove sto di casa, attraverso la città bassa; risalgo lento lento per i bastioni di Villeroy e di Richelieu, svolto dal bastione della Corte, e vado a fare, regolarmente, una piccola visita al castello dei nostri principi. Che cosa vuoi? Quel povero castello, unico avanzo delle nostre glorie, imprigionato là fra le casipole, coi suoi merli cadenti e le sue porte sbarrate, che par compreso dal sentimento della sua miseria, mi mette pietà e tenerezza insieme! Il suo silenzio triste mi fa ripensare alle feste e agli amori che lo animarono un tempo, alle ambizioni smisurate che si spennaron le ali fra le sue mura come aquile prigioniere, alle belle principesse d'Acaja che vi folleggiarono, vi piansero e vi morirono. Dopo un quarto d'ora che son là, mi par di sentire i passi concitati dell'altera Isabella di Villehardouin che ridomanda il suo principato perduto; vedo Caterina di Vienna, coi suoi grandi occhi celesti rivolti alle vette bianche dei monti; la sventurata Sibilla del Balzo, che spira benedicendo il suo povero Filippo, predestinato al lago d'Avigliana; e quel bel demonio biondo di Margherita di Beaujeu che susurra all'orecchio di Giacomo le parole che sconvolgono la ragione, e Caterina di Ginevra con la sua vita sottile di vergine e il suo adorabile neo sulla guancia, e Bona di Savoia che smorza sotto alle lunghe palpebre la fiamma de' suoi occhi pieni d'amore. Oh se s'affacciassero tutte insieme a quelle finestre arcate e vedessero sventolare sulla cittadella la bandiera di Versailles, come si farebbero tutte vermiglie di sdegno dalla gorgiera al diadema, e come spezzerebbero sui davanzali i loro ventagli imperlati! E dopo essermi beato in questo sogno vado su verso le vecchie caserme, tiro un'occhiataccia al castello, e per San Maurizio e per il bastione di Schomberg, chinando il capo sul Chiabrera quando vedo di lontano il cappello a tre punte d'un tagliacantoni _francesco_, me ne ritorno a casa placidamente, consolato dal pensiero che un altro giorno della dominazione straniera è passato. Quel ceffo di mandrillo del Saint-Mars ha disteso un lenzuolo di piombo su Pinerolo; ma non è ancora riuscito a oscurarle la bellezza impareggiabile delle sue notti di luna. Per questo, rientrando in casa mia, salgo quasi sempre all'abbaino per godere la vista dei dintorni. Le case che biancheggiano sulla collina, tutte quelle torri nere che s'intagliano nel cielo limpido e profondo, la città di Saluzzo che appare come una macchia lattea di là dalla striscia luccicante del Po, e la rocca di Cavour, che s'alza solitaria nel piano come un frammento colossale d'asteroide precipitato dal cielo, e le cime delle Alpi inargentate; questo spettacolo immenso e quieto, in cui si sente la voce sonora del Lemina che parla delle glorie morte, mi tiene inchiodato un'ora con la bocca aperta. E se qualche volta mi piglia un senso di tristezza a veder lì a pochi passi quella gola spalancata della valle di Fenestrelle, che ci ha vomitato addosso tanto ferro e tante sventure, allora mi rivolgo dalla parte di Torino, dove brilla la speranza d'un avvenire migliore del passato e del presente, e il mio cuore si riconforta. ..... È sonata la mezzanotte. Sento che passa la ronda per la strada e riconosco al chiarore della luna il profilo rodomontesco di quel lanternone del Rivière. Siccome abbiamo leticato ieri sopra la quistione di Casale, è capace, vedendo il lume acceso, di venirmi ad aggranfiare la lettera. Caro mio, non voglio maschere di ferro. Ti mando un saluto dal cuore e chiudo la lettera in furia. Il tuo * * * I PRINCIPI D'ACAJA Pinerolo, agosto 1883. Era un pezzo che desideravo di visitare quel vecchio palazzo, il quale mi mostra tutti i giorni i suoi merli rossi di là dai pini e dai cedri del giardino della bella marchesa Durazzo. Uno strano edifizio, veramente, d'una forma che non riuscivo da nessuna parte ad afferrar intera con lo sguardo; coronato di certi merli bizzarri da castello di palcoscenico; carico di secoli, e pure colorito di fresco, e triste a vedersi come un cadavere imbellettato: e poi, nascosto là in un canto solitario di Pinerolo, in mezzo a casette misere e a vicoli in salita, irti di sassi enormi e corsi da larghi rigagnoli sonori. Non ci avevo mai visto intorno che ragazzi scalzi e processioni di pulcini, e qualche vecchio sonnacchioso, accucciato davanti a una porta, il quale non sapeva certamente chi avesse abitato una volta tra quei muri, più che non lo sapessero l'erbe che gli verdeggiavan tra i piedi. — Che diavolo ci ha da esser là dentro? — mi domandavo. Una mattina, passando sotto quelle finestre misteriose, m'era parso di sentire un bisbiglio di voci lamentevoli, come una preghiera di anime in pena, e una sera, affacciandomi al terrazzo d'una villa vicina, avevo visto giù nel giardino oscuro del palazzo una bella monaca che fuggiva come uno spettro in mezzo alle piante: — l'immagine d'un quadretto del Boccaccio. Ce n'era più del bisogno per eccitare la curiosità di qualunque più ostinato odiatore di rovine illustri. * * * Sarebbe stato ingiustizia, peraltro, se quella curiosità non fosse nata anche in parte da un sentimento di simpatia per i Principi d'Acaja. Dico simpatia, non entusiasmo. Grandi non furono, nè forse potevano essere. La parte principale, in quel fortunato lavorìo diplomatico e guerresco della casa di Savoia, toccava naturalmente ai Conti, loro signori, più forti d'armi e piantati in domini assai più sicuri che non le terre dei principi. Tolto anche il conte Verde e il conte Rosso, che vissero al tempo loro, sarebbe bastata ad oscurar gli Acaja la gloria di Amedeo il Grande che li precedette e la fama d'Amedeo VIII che li seguì. Ma non furono indegni d'ammirazione. Accampati sopra un territorio di dubbie frontiere, circondato da Comuni turbolenti e da Signori il cui unico pensiero era la conquista; posti in una condizione, rispetto ai Conti savoiardi, la quale, se li assicurava d'un valido sostegno nei grandi cimenti, vincolava però in mille modi la loro libertà politica; costretti sempre a destreggiarsi fra nemici spesso più potenti di loro, con alleanze ed accordi continuamente rotti, ripresi, falsati e violati; condannati a combattere quasi senza riposo coi Marchesi di Saluzzo e di Monferrato, cogli Angioini e coi Visconti, in un paese impoverito dalla sfrenatezza della soldataglia mercenaria; inceppati nel governo dalle mille difficoltà e dai mille disordini che nascevan dalla mancanza d'un Codice generale di leggi, e dall'imperfezione degli Statuti di ciascun Comune; essi riuscirono non di meno, a furia di sagacia e di costanza, parte coi matrimoni accorti, parte con gli ardimenti opportuni, e molto col valor personale, gli uni ad accrescere, gli altri a consolidare la propria potenza, e a preparar largamente la via alle conquiste avvenire della casa sabauda; ci riuscirono, — questa è la loro gloria maggiore, — conservando quanta fama di lealtà era possibile meritare allora, tra quei nemici: non macchiandosi di efferatezze famose in un tempo in cui pochi Principi avevan le mani nette di sangue; non opprimendo smodatamente i loro sudditi, liberando anzi i Comuni dalla maggior parte degli incagli dei diritti feudali; governando anche fra i torbidi e le guerre in maniera da legare a poco a poco al loro nome, nella mente del popolo devoto non per timore, una certa idea di magnanimità e di giustizia, che era forza nei pericoli e conforto nella miseria. Eccettuato Giacomo, non malvagio, ma debole, e imprudente e pauroso a vicenda davanti ad Amedeo VI, gli altri, educati tutti nella Corte di Savoia, e compagni d'armi dei Conti nei loro primi anni, lasciarono un nome illustre ed amato: Filippo fu politico sapiente e capitano ardito; Amedeo non meno saggio principe che soldato valoroso; Ludovico, gentile d'animo, non inetto alla guerra, protettore e fautore degli studi, quanto era concesso al tempo suo. E ci destano anche un sentimento particolare di simpatia e di curiosità per il fatto di essere passati così, quasi perduti nella gloria dei loro parenti, quattro soli nel corso di più d'un secolo, in un'età tanto remota, in una terra presso che barbara allora appetto a molte altre d'Italia, non celebrati da scrittori nè cantati da poeti, non lasciando di sè che pochi documenti scritti in rozzo latino, e nessun vivo ricordo personale, e nemmeno le pietre e la polvere delle loro tombe; oltre a non so che di strano e di romanzesco che aggiunge al nome loro quel titolo d'un principato lontano, non posseduto mai e ambito sempre, che brillò per cent'anni nei loro sogni come la promessa allettatrice d'un paese fatato. * * * Fu quindi una festa per tutta la comitiva quando si vide davanti alla porta spalancata del palazzo, pronto a riceverci, il cortese e còlto canonico Chiabrandi, direttore dell'Ospizio dei Catecumeni. Poichè è da sapersi che il palazzo degli Acaja, dopo essere stato un pezzo proprietà privata, e poi ospedale, serve ora di ricovero e di scuola ai giovani valdesi delle valli vicine, maschi e femmine, che vogliono convertirsi al cattolicismo... o passare un inverno al coperto. Ma, ahimè! appena si fu nel cortile, si provò un amaro disinganno. Nessuna parola può dare un'idea della devastazione, che, sotto il nome di restauro, fu fatta di quella povera casa. Lo sciupìo è tale che desta per primo sentimento il desiderio di vedersi davanti tutti coloro che fecero o lasciaron fare, ci fosse anche in mezzo qualche Duca impennacchiato, per dare a tutti quanti, in nome della storia, dell'arte, della poesia e della patria, una di quelle lavate di capo che fanno perder la via di tornare a casa. Il palazzo, fondato nel 1318, ha sei secoli, e può dimostrar benissimo sei anni. Qui fu distrutto, là rifatto; parti nuove vennero aggiunte, con imitazione infelice delle antiche; tutti i muri dipinti d'un color rosso arrabbiato di pomodoro, coi mattoni segnati a contorno bianco, come i piccoli castelli dei giardini di cattivo gusto; dentro, tutto rotto e sformato per fare spazio alle nuove scale; le logge alte, tappate; le sale, tramezzate; le pareti ch'eran dipinte, intonacate; la torre, che si alzava d'un buon tratto sopra i tetti, tagliata via; una rovina senza nome. Le ombre degli spodestati Marchesi subalpini ci debbono venire a ridere una volta al mese. Il palazzo ha press'a poco la forma d'un bidente rettilineo con l'apertura volta verso il Monviso, un piccolo cortile nel mezzo, un piccolo giardino davanti. I tre corpi dell'edifizio son disuguali d'altezza. L'unica cosa che si riconosca d'antico, a primo aspetto, è nel corpo più basso: uno stretto porticato a tre archi schiacciati, il quale sostiene una loggetta, sul cui parapetto s'alzano delle colonnine leggere che sorreggono un tetto a larga gronda, congiunte fra loro da grandi persiane claustrali. Ma chi può dire quale fosse la forma e l'ampiezza del palazzo nel secolo decimoquarto? Per quanto si sappia che vivevano pigiati, ed anco ammesso che facesse parte del palazzo un piccolo edifizio che gli si alza accanto, le cui finestre conservano il disegno e le incorniciature del tempo, è difficile credere che tutta la famiglia dei Principi, e gli ufficiali, e i servi, e gli ospiti principeschi che eran frequenti, vi capissero. Non vi si potevan rigirare. Un'angusta stanza sotterranea che si apre sulla strada e che pare fosse una scuderia, non conteneva certo tutti i cavalli della corte. Ci dovevano essere intorno altri edifizi. Un grosso muro scalcinato che sorge da un lato d'un cortiluccio esterno, dove rimane ancora un antico pozzo da streghe, era forse il muro maestro d'un annesso considerevole del palazzo. Comunque sia, ciò che resta dà l'immagine d'un edifizio meschino, incomodo, troppo stretto per la sua altezza, un che di mezzo tra il monastero, la carcere e una casa da appigionare non terminata. Ma come! vien fatto di dire entrando: di qui fu governato per cent'anni il Piemonte? qui si ricevettero i legati del Pontefice e gli ambasciatori dell'Impero? Qui si ospitò la sposa di Andronico Paleologo, imperatore d'Oriente? Oh! tristissima delusione! * * * Si stette un poco nel cortiletto a guardare in alto, scontenti, con un leggero sentimento di pietà per gli antichi Principi; poi s'andò su per le scale. Anche l'interno del palazzo ha un aspetto uggioso di convento e d'ospedale, che gli vien dall'ammattonato rosso vivo, dai muri bianchi e dai crocifissi neri, appesi in fondo agli anditi nudi; nei quali il sole gettava qua e là dei grandi rettangoli di luce d'oro, reticolati di fili d'ombra dalle grate delle finestre. C'era un silenzio di Trappa. Il sacro ospizio non ha presentemente che tre convertiti; la stagione è così bella! Si sentiva sfogliettare un libro su al terzo piano, e di tratto in tratto, intorno a noi, un fruscìo discreto di sottane monacali invisibili. Dalle alpi veniva diritta in viso un'arietta deliziosa.... Ci affacciammo a uno stanzone a dare un'occhiata alla travatura antica del soffitto, dove rimane quale mensola rozzamente scolpita e imbiancata. Era forse la camera nuziale dove dormirono il sonno più dolcemente stanco della vita le sette spose della casa di Acaja. Chi può provare di no? Ora ci sono due lunghe file di letti da infermeria, con le coperte di cotone a quadretti bianchi e turchini; e ci dormon le monache e le catecumene, quando ce ne sono. Un altro stanzone del primo piano è convertito in cappella, con un altare da chiesuola di campagna. Non rimane il menomo indizio dell'uso al quale potessero servire le altre stanze. Un principe d'Acaja redivivo non ci si raccapezzerebbe più, sicuramente. Un luccichìo che intravedemmo per uno spiraglio, ci fece accorrere con la speranza di ritrovar delle antiche armature: erano le casseruole della cucina. Mi prese la stizza. Era così penoso quel contrasto fra la curiosità stimolata da mille memorie, fra l'avidità impaziente di vedere, di riconoscere, di scoprire, di capire, e la nudità muta, la stupida ignoranza di quei muri freschi e di quelle scale rifatte! Avrei voluto afferrare un raschiatoio e un piccone, e lavorar come un dannato a scrostar pareti, a sfondar tramezzi, a metter tutto in un monte, per ritrovare un segreto, una immagine viva, una parola almeno del passato! Perchè debbono averne visto quelle vecchie pietre nascoste, e furori d'ambizioni disperate, e scoppi di pianto geloso, e tripudi di vincitori, e audacie insensate di paggi, e secreti d'amore e forse di sangue! * * * Girammo lentamente di stanza in stanza, vedendo ogni tanto per certi finestrini ad arco acuto degli squarci luminosi di paesaggio lontano: la cosa che è meno mutata attorno al palazzo, credo io. E mi tornava continuamente in capo questa domanda: — Come vivevano? In che maniera avranno ammazzato le loro giornate, qua dentro, nei tempi ordinari? E m'immaginavo, non so bene perchè, delle ore interminabili di noia in mezzo al grande silenzio di Pinerolo, addormentata sotto il sole di luglio, e delle eterne giornate scure d'autunno, in cui il rumor della pioggia nel piccolo cortile doveva empire il palazzo d'una tristezza da far piangere. Le ricreazioni intellettuali dovevano essere scarse in un paese dove non era traccia d'arte, nè di letteratura, e in cui pochi legisti, qualche monaco e qualche notaro formavano tutto il ceto erudito. Il tema più frequente dei discorsi saranno stati gli amori e i pettegolezzi delle Corti vicine, specie di Savoia e dei marchesati, e i matrimoni e le avventure dei nobili vassalli, sparpagliati da Perosa a Torino. Avranno pure ragionato, in famiglia, degli argomenti spesso delicati o stravaganti delle moltissime liti, per le quali si ricorreva ai Principi contro le sentenze dei giudici dei Comuni. Le udienze accordate ai castellani e ai vicari, l'arrivo dei corrieri di Chambéry, la comparsa di un capitano di ventura che veniva a offrire la sua spada o a fissare i patti per la sua compagnia, saranno stati avvenimenti graditi, e oggetto di molte parole. Tutta quella politica minuta e intralciata di piccoli Stati, quelle contese senza fine per una ròcca, per un mulino, o per un palmo di terra, avranno dato luogo naturalmente a infinite conversazioni del pari intricate e sottili, nelle quali si ripetevano forse mille volte le medesime cose. Un gran discorrere l'avranno fatto pure, prima e dopo, delle corse e delle giostre con le quali festeggiavano gli sponsali e le paci, e di quegli strani banchetti in cui servivano i porci dorati, col fuoco nella bocca, e i vitelli tutti d'un pezzo, con un giardino sul dorso. Anche avranno molto pregato, e discorso molto di cavalli e di cani. Eran più giovanili di noi; avranno sfogliato più assiduamente il libro dell'immaginazione. E davano una parte maggiore alla vita fisica. Il palazzo si sarà assopito di buon'ora dopo i ritorni stanchi delle cavalcate festose, le sere che i pinerolesi vedevan passare in un nembo di polvere dorata dal sole, dietro al viso infiammato d'Isabella d'Acaja, un'onda di cavalli, di levrieri e di paggi. Che diversa vita, peraltro, che violente commozioni dovevan provare in tempo di guerra, quando cento vedette esploravan la pianura dall'alto delle torri e dei campanili, e tutta la città si rimescolava ad un cenno e ad un grido! Dalle finestre del loro palazzo, come dalle logge d'un torneo, le principesse vedevano le milizie uscir dalle porte, e allungarsi in colonne pei campi, e coronar le colline di stendardi e di spade. Quando Filippo assediava Savigliano col fiore della nobiltà sabauda, e allorchè il Principe Giacomo stringeva Saluzzo con Manfredo e col Siniscalco del Balzo, e Facino Cane dava il sacco ad Osasco e Ludovico assaliva Pancalieri, esse vedevano i fuochi notturni degli accampamenti, e i bagliori degl'incendi, e i nuvoli bianchi sollevati dal galoppo degli squadroni. Dovevan martellare gagliardamente i cuori! Era ben altro che ricever le notizie dal bollettino del telegrafo. Respiravano l'aria della battaglia, sentivan passare il soffio della morte. Si capisce come crescessero col petto forte quei Principini e quelle future spose di Principi, che assistevano ai ritorni notturni dalle mischie feroci, tra le lance insanguinate e le fiaccole, in mezzo alle imprecazioni dei prigionieri e agli urli dei mutilati. * * * Covando questi pensieri, arrivammo al secondo piano. Qui, finalmente, si ritrovò qualche resto notevole: uno stanzone, che si dice fosse la sala dei grandi ricevimenti, nel quale rimangono qua e là sulle pareti alcuni affreschi a chiaroscuro. Il buon gusto di non so chi li aveva non solamente imbiancati, ma coperti di calce, delicatamente; ed è il direttore dei catecumeni che li rimise alla luce del sole. Occupano un terzo circa dei muri. Il rimanente dev'essere stato raschiato senza pietà dalla zampa d'un asino di cui vorrei essere padrone per ventiquattr'ore. Dalla rozzezza infantile del disegno si giudicherebbero questi affreschi più antichi; ma non si può ammettere che siano, almeno in parte, anteriori alla seconda metà del quindicesimo secolo, rappresentando uno di essi Amedeo IX di Savoia, che tiene in mano una cartella, sulla quale è scritto un suo motto diventato celebre. Ora, essendosi estinta la famiglia degli Acaja nel 1418, tocca agli eruditi a dirci se i Duchi di Savoia hanno abitato per qualche tempo, da Amedeo IX in poi, il palazzo dei Principi, e sotto quale Duca quei dipinti sono stati fatti. Son curiosi saggi dell'infanzia dell'arte, e si direbbe dell'artista, quelli vicini all'uscio, particolarmente: un cavaliere testardo che vuol entrare a tutti i costi, ritto sotto a un baldacchino di trionfo, dentro a una porta di città per cui non potrebbe passar che carponi; drappelli di guerrieri, con facce da tiranni delle marionette, piantati sulla cima di certi colli a pan di zucchero, come spilloni confitti a caso in un cuscinetto, accanto a pini o cipressi tascabili, che arieggiano gli spazzolini da lumi a petrolio; e un ballottìo di case da presepio, d'una prospettiva miracolosa, che dan l'idea d'un villaggio colto colla fotografia istantanea nell'atto d'un terremoto che non lascerà pietra su pietra. Altri dipinti rappresentano Conti o Duchi di Savoia, di pessimo umore. Questa sala è convertita ora in dormitorio dei piccoli catecumeni, i quali riposano così placidamente in mezzo alle immagini minacciose dei persecutori dei loro padri. Null'altro rimane d'antico nell'interno del palazzo. Nulla; nemmeno tre piccoli scalini, a cui si possa domandare, come il Musset alle famose _marches de marbre rose_, di quale delle belle donne che li premettero avesse il piede più piccolo e il passo più leggero. Nulla. Le povere Principesse ginevrine, viennesi, siciliane, savoiarde, francesi, scomparvero senza lasciare un ricordo, un'immagine neanche contestata delle loro sembianze. Ah! se i cronachisti d'allora avessero descritto le donne con quella minuziosità delicata da mercanti di schiave con cui le mostrano in piazza i romanzieri moderni, quanti preziosi ritratti non avremmo al presente! Come dovevano esser belle e superbe, coi loro alti cappelli conici e con le loro pellegrine d'ermellino, quando si slanciavano a braccia aperte giù per le scale, e schiacciavano rudemente il loro seno bianco contro le maglie polverose dei vincitori di Monasterolo, di Sommariva e di Tegerone! Non avendo altro appiglio, la fantasia s'aiuta col suono dei nomi, il quale dà delle immagini. Non è vero che quel largo nome sonoro di Beatrice di Ferrara, prima sposa di Giacomo, fa vedere dei grandi occhi neri e una grande bocca purpurea, e udire una di quelle voci profonde e calde che rimescolan l'anima? Che arcana cosa son queste simpatie vive per un fantasma del passato a cui abbiamo dato forma noi stessi! Io la vedevo, discorrendo col buon canonico (mi perdoni); inseguivo il lungo strascico della sua veste azzurra che spariva in fondo ai corridoi, e mentre stavo per raggiungerla nel cortile, essa appariva sur una loggia del terzo piano, e quando ero arrivato ansando sulla loggia, la vedevo passare lentamente giù nel giardino. Povera buona Beatrice, uscita dal palazzo dentro la bara, coi fiori ancor freschi delle nozze, morta senza bambini, così giovane, e dimenticata così presto da tutti; Avrà molto sofferto? In che stanza sarà morta? Aveva una amica, almeno, in questa Corte? E Caterina di Vienna, la suocera, l'avrà amata? E come avrà parlato? Il suo dialetto ferrarese? Come doveva esser dolce e triste la sua voce, quando invocava sua madre lontana, stringendosi il crocifisso sul cuore! * * * Il mio buon amico F^i, esattore, gastronomo e antiquario, s'ostinava a cercar la cucina, e voleva a tutti i costi che il canonico gliene dicesse qualche cosa. Egli aveva trovato nel Regesto degli Acaja, edito dal bravo conte Saraceno, che la cucina era attigua al parlatorio, _camera parlatorii_, del Principe: il che dà un'idea della strana maniera in cui doveva essere scompartito il palazzo. E ci divertiva molto, trattenendoci a tutti gli usci, per darci dei ragguagli culinari ricavati dal latino spaventevole dei conti di tesoreria. Nei loro giri per il Piemonte, ch'eran frequenti, i Principi ricevevan regali da abati, da nobili, ed anche da gente del popolo, e da poveri diavoli: cinquanta staia di avena, un moggio di vino, dodici montoni, un bove, quattro porci: non sdegnavano nulla. Tornavano pure a casa con _caponibus pinguibus et grossis_, e qualche volta con un cesto di tartufi, _triffolarum_, dei migliori, probabilmente, di quei bianchi, delle terre di Monferrato. Pare che avessero una predilezione per i pesci, perchè tenevano assai ai molti laghi pescosi, che eran loro proprietà esclusiva; e di questi laghi, e dei regali di pesci che ricevevano, in specie dai marchesi di Saluzzo, è fatto cenno frequentemente nel Regesto. Andavano spesso a desinare fuor di casa, con tutta la famiglia, da prelati e da signori; e qualche volta dai frati minori di San Francesco, pagando loro tutto il pranzo, eccettuati i porri e l'insalata, che i frati mettevan di proprio, si crede anche col condimento. Soventissimo pure invitavano al palazzo capitani, nobili, preti, ambasciatori di piccoli stati, cittadini ragguardevoli. Trattavano i loro sudditi, si capisce, molto familiarmente; conoscevano tutti; davano udienza al primo venuto; vivevano con semplicità casalinga, senza misteri. Non pare che facessero grandi spese di lusso. Non si trovan registrate che pochissime spese per lavori di pittura che si facevan fare su pergamene, bibbie e salterii, e nelle stanze dove ricevevano. Erano anche di facile contentatura in fatto di medici: si facevan curare sovente dai veterinari, qualche volta di malattie cutanee poco pulite, e salassare, _flebotomare_, come dice elegantemente il chierico registratore, da _quibusdam barbitonsoribus_. Non profondevano quattrini che in giocolieri e menestrelli. Questo era il loro debole. È interminabile la lista dei regali e delle mance date a giullari, a cantastorie, a strimpellatori di chitarra, a tiratori di scherma, ad ammaestratori di cani, ad acrobati che facevano il _saltum periculosum_, qualche volta in pubblico, ma spesso anche nelle sale del palazzo. Ospitavano essi pure dei Goliardi. Tenevano in casa delle scimmie. Ci ebbero per un tempo un leopardo, col collarino d'argento, e col relativo _magistro_: oggetto, a quel che pare, di tenerissime cure. Del resto, si trovavano di frequente nelle strettezze, costretti a vendere gli ori e le gioie che avevan ricevuto in dono dai principi. Ricchissimi non potevano essere certamente, a malgrado di tutti i tributi che ricevevano e di tutti i loro diritti su pascoli e su acque, poichè nè la terra nè il popolo, desolati da una ladronaia di soldati che facevan della guerra un brigantaggio, potevano dar loro gran cosa; nè essi medesimi calcavano troppo la mano. — S'ingegnavano, peraltro, diceva l'esattore, con un sorriso d'uomo esperto della materia. Il principe, per esempio, non prestava mica gratis il suo ufficio di giudice supremo: il vincitore della lite gli faceva spontaneamente, per meglio dire, con spontaneità obbligatoria, un regalo in contanti, e, si sottintende, salato. E poi, anche la giustizia criminale era una vera fontana di bezzi. I capi scarichi e i birbaccioni formavano una rendita per la Corte. Chi era preso a passeggiar per Pinarolium, o Pignerolium, o Pineyrolum, senza lume, dopo il suono dell'ultima campana; chi giocava a giochi proibiti, _ad taxillos_, per esempio; chi portava coltelli non di misura; chi faceva cader la gragnuola sulla città _per arte di negromanzia_; chi aveva o tentava di _habere rem cum quadam filia_ di età troppo verde, e chi disertava le bandiere, e anche chi ammazzava il prossimo, scampavano facilmente alla prigione, e al boia, vuotando la borsa, se l'avevano, nelle tasche dell'amato sovrano. E in questi casi, naturalmente, chi più n'aveva, peggio stava. Un infelice canonico di San Donato, più danaroso che continente, per aver tentato appunto di _habere rem_ con una parrocchianetta troppo acerba, solamente tentato, era ridotto addirittura sul lastrico; e per contro, un falegname che aveva spacciato un cristiano, se la cavava rifacendo il tetto a spese proprie a una torre del castello di Moncalieri. — Costava caro, come vedete, concludeva l'esattore, abbassando la voce, era un affar serio _habere rem_.... sotto i principi d'Acaja. * * * Eravamo rimasti al secondo piano, mi pare.... Al terzo non c'è da vedere che la stanzina di studio del direttore, il quale, senz'avere una grande biblioteca, possiede senza dubbio molti più libri di quanti n'abbiano mai letto tutti insieme in cento e vent'anni i quattro Principi della casa d'Acaja. Tutt'in giro a quest'ultimo piano pare che ricorresse una loggia, sulla quale forse si drizzava una merlatura simile a quella degli altri muri. Le Principesse, probabilmente, stavano qui la sera a godere l'aria dei monti, con le figliuole; e qui forse trapunsero le prime ciarpe da torneamenti, fantasticando sul proprio avvenire, Margheritina, la piccola greca, figliola d'Isabella, e la bimba Eleonora, e Alasia ricciuta, e Melchide sposa futura dell'Elettor di Baviera. Da questa grande altezza, quasi librate nell'azzurro, vedevan lì sotto, a pochi passi, la bella chiesa di San Francesco, dove riposavano i loro padri e i loro fratelli, e di cui non esiste più traccia; e tutt'intorno, Pinerolo con le sue mura merlate e coi suoi ponti a levatoio, e il viavai delle sentinelle sugli spaldi delle torri, rispecchiate dall'acque immobili dei fossi. E con un solo giro dello sguardo potevano abbracciare quasi intero il Piemonte, centinaia di borghi e di rocche soggette a loro, od amiche, o nemiche, o malfide; che videro ventiquattro guerre durante il regno di quattro Principi; una pianura meravigliosa, nella quale miriadi di miriadi di alberi salgono in lunghissime file verso i santuari biancheggianti come cubi di neve sulla cima dei colli, si serrano, come eserciti, in masse profonde, si schierano in vasti quadrati attorno a campi color di malachite chiarissimo, convergono in processioni sterminate verso le città, serpeggiano a mille a mille lungo i fiumi e i torrenti, precipitano a legioni giù dalle chine, e incrociano le loro fughe in tutte le direzioni ed empiono gli avvallamenti lontani di vaste moltitudine confuse, presentando innumerevoli sfumature e contrasti di verdi fortissimi e dolci, fin dove il colore della vegetazione si cangia in un azzurro poderoso, e poi digrada in un azzurro gentile, tagliato da una linea immensa e diritta come l'orizzonte del mare. * * * Discendemmo adagio adagio, come se a furia di ficcare gli occhi per tutti i buchi si fosse dovuto scoprire almeno qualche annosissimo servo incartapecorito, dimenticato dalla morte, dal quale si sarebbe potuto saper qualche cosa. Ciascuno metteva coll'immaginazione i suoi personaggi prediletti della casa d'Acaja negli angoli del palazzo, e negli atteggiamenti che gli parevan più propri a dar vita alla sua larva. Un mio amico, invece, si stillava il cervello per capire dove avessero potuto “alloggiare„ Ludovica del Villars nel dicembre del 1362, mentre c'era già in casa la terza sposa di Giacomo; gravissimo quesito per uno storico e per un direttore di albergo. I ragazzi si seccavano. Uno di essi domandò timidamente: — Ma.... dove sono questi Principi d'Acaja? — La più eccitata era una signorina, la quale pensava con un sentimento vivo di tenerezza che il povero Filippo, il diseredato, doveva aver passeggiato per molte e molte ore sotto quel portico, col capo basso e le braccia incrociate, nei giorni che cominciava a presentire le sua disgrazia. Filippo era la sua simpatia. — È una brutta cosa, diceva con calore, che nessuno storico di Casa Savoia abbia detto una parola ardita e generosa in sua difesa. — Andiamo! le rispose l'amico dell'“alloggio,„ ha fatto la guerra da bandito. — La signorina scattò: — Chi n'aveva fatto un bandito? — No veramente, non era giusto. Non era soltanto la coscienza del suo diritto di primogenito che gli rendeva intollerabile di veder destinato il retaggio del padre Giacomo al figliuolo della matrigna; era pure, e più forse, il ricordo di essere stato investito a sette anni di tutti i dominii che gli spettavano, _de omnibus civitatibus et burgis_, e d'aver ricevuto l'omaggio solenne de' suoi futuri vassalli, _in logiam sumiarum_, vicino alla grande torre rotonda del castro di Pinerolo. Erano quindici anni ch'egli si teneva sicuro di succedere al padre, quando vide entrare in casa la bella Margherita di Beaujeu, e nascere un bambino in cui l'indole ambiziosa e imperiosa della madre gli fece sospettare fin dalle prime un rivale. La signorìa che la bella donna va pigliando ogni dì più sul marito debole e innamorato, lo afferma a grado a grado nel suo sospetto. L'animo suo s'inasprisce. Crescendo la diffidenza, scema il rispetto, e la freddezza del padre risentito fa peggio. Allora egli parla dei suoi diritti, facendo sonare il passo irato nelle sale del palazzo non più suo, e guarda con gli occhi pieni d'odio quella donna astuta e intrigante il cui unico pensiero è la sua rovina. Egli non ne dubita più oramai. A lui sarà gettata l'elemosina di quattro case e di quattro campi perchè pieghi la fronte di vassallo dinanzi al figliuolo dell'amor senile di suo padre. E il solo che lo potrebbe proteggere, Amedeo di Savoia, lo condanna, e vuole che sacrifichi tutte le speranze della sua vita alla concordia della famiglia! Eppure, sì, quando egli è al cospetto del Conte Verde, quel viso di prode lo soggioga, quella parola nobile e ferma lo persuade: due volte, commosso da lui, egli rinunzia generosamente ai propri diritti. Ma quando torna alla casa paterna, quando rivede l'occhio azzurro e freddo di quella madre egoista, e risente la voce di quel bimbo, nato per la sua sventura e per la sua vergogna, e ha sentore del testamento che lo spoglia per sempre dell'aver suo, anche in caso di morte dell'usurpatore, l'ingiustizia allora gli risolleva l'odio nel cuore, l'ira gli risale per le arterie in ondate di fuoco e gli mette la bandiera della rivolta nel pugno. Amedeo è salpato per l'Oriente; il popolo, sciolto dal timore di lui, i vassalli memori del loro antico giuramento, si leveranno in favore del diseredato. Ebbene, se tutto gli fosse andato a seconda, mancandogli così ogni occasione alla violenza e alla vendetta, la storia avrebbe detto di lui: — Aveva ragione. — Ma non un braccio si leva dalle sue terre, non una voce risponde al suo grido fra quella gente cocciuta, in cui la consuetudine dell'ubbidienza brutale è più forte che il sentimento della giustizia. Esasperato dal disinganno, egli s'indraca allora contro i sostenitori senza coscienza, contro i complici paurosi di quella ladra di principati, che coll'amplesso lascivo ha soffocato nell'anima di suo padre il sentimento dei primi affetti e il rispetto delle solenni promesse. Sanguini, urli dunque sotto le spade e in mezzo alle faci incendiarie dei suoi inglesi e dei suoi alemanni prezzolati, quello stupido pecorame di popolo, poichè è sordo alla voce del diritto e della ragione. Da Barge a Chieri, da Costigliole a Torino, egli passa come un uragano, furioso, accecato, delirante, ma non colpevole di tutte le violenze della sua turba feroce e forse straziato dentro e atterrito dell'opera propria. Il suo cuore non è impietrato. Quando Giacomo fugge a Pavia, una speranza, forse un pentimento lo risospinge verso di lui: corre a Pavia, chiede perdono, riconduce il padre alla sua città, lo circonda di affetto e di cure. Ma il padre muore senza esaudirlo. Una nuova speranza gli brilla al ritorno d'Amedeo da Costantinopoli. Ma il Conte di Savoia proclama solennemente la successione del fanciullo e la reggenza della matrigna. Tutto è finito, dunque. Abbandonato dai Principi a cui ricorre, respinto dai suoi popoli, malsicuro dei suoi mercenari, a che pro raccoglierebbe il guanto di sfida che gli getta l'implacabile Amedeo, chiamandolo traditore e bugiardo, perchè giochi la vita con lui davanti alla Corte dell'Imperatore? Non è il solo pensiero della vanità della prova, forse, quello che gli trattiene la spada: è un resto della riverenza antica per il capo della sua stirpe, è un senso nuovo di ammirazione per l'eroe dell'Oriente, salutato dal plauso del mondo. La lotta non è più possibile. Stretto in Fossano, viene a patti. Con un salvacondotto del vincitore cavalleresco, si reca a Rivoli senza timore. Un Consiglio di giurisperiti deciderà fra lui e Margherita. Forse tutto non è perduto. Ma che! A Rivoli, dinanzi al Conte di Savoia, egli si trova in faccia alla matrigna odiata, che lo accusa delle devastazioni e del sangue. Invano egli invoca il salvacondotto. Mentre il Consiglio delibera sulla successione, un altro Consiglio gli forma processo criminale. Egli non può sbugiardare le accuse, deve pur confessare che s'è ribellato, che ha incendiato, che ha fatto sangue.... Allora, nello sguardo del Conte di Savoia, nell'accento dei Commissari, nell'atteggiamento de' suoi custodi, indovina forse una sentenza tremenda; un misto di rimorso e di pietà di sè stesso gli opprime l'anima, si sente venir meno il coraggio, invoca la misericordia del suo signore.... Che cosa avvenne di quel disgraziato? Il giorno 13 ottobre del 1368 fu ancora interrogato una volta dai suoi giudici nelle prigioni di Avigliana. Poi non se ne seppe più nulla. Fu ucciso? Ma non c'è indizio d'una condanna di morte che sia stata pronunciata contro di lui. Si uccise? Ma perchè non si seppe? Delle due supposizioni, è più ragionevole la prima pur troppo. Ah! ma è doloroso.... ripugna il mettere una macchia vermiglia sulla gloriosa assisa verde d'Amedeo! * * * Queste cose, o presso a poco, doveva dire tra sè la signorina, mentre scendevamo nel giardino, poichè i suoi begli occhi verdi luccicavano come due smeraldi inumiditi e le sue narici sottili vibravano come due alette rosate di farfalla. Il giardino lungo e stretto, chiuso tra quattro muri, è un giardinuccio malinconico di chiostro, fatto piuttosto per dirvi degli atti di contrizione, che per commettervi dei peccati. È incredibile che quello fosse tutto il giardino della Corte: doveva risalire o discendere il colle a scaglioni e a gradinate, e stendersi molto più in là verso le mura. Non di meno, visto di lì sotto, il palazzo antico degli Acaja, così alto, nell'ampio azzurro, coi suoi merli, con le sue finestre arcate, con le sue logge aperte, con la sua torre rotonda e leggera, doveva offrire un aspetto gradevole, o, se non altro, curioso. Ed anche nel giardino ci tenne dietro Filippo, il protagonista della giornata. Non ci fu rimedio. La poetica signorina si commoveva da capo, pensando ai suoi amori di fanciullo. Ah! un idillio gentile davvero che raccomando al mio buon Marenco, per la piccola Cuniberti. Quale argomento più grazioso che le avventure di due sposi di sett'anni? Filippo forse non li aveva ancora quando suo padre Giacomo, collo scopo d'amicarsi il Conte di Ginevra, il quale, come tutore d'Amedeo VI, poteva giovargli presso la Corte di Savoia, concertò il matrimonio del principino con Maria, figliuola del Conte, nata da Matilde di Bologna. Sciolto il ragazzo, col consenso del papa, dai vincoli dell'autorità paterna e proclamato erede dei dominii di Giacomo, si stipulò il matrimonio in forma solenne, al cospetto di molti personaggi ecclesiastici e secolari, fissandosi una dote di quindicimila fiorini d'oro; alla quale parve che il fidanzato si mostrasse affatto indifferente. Le promesse vennero fatte nel 1346. L'anno seguente scese in Italia la sposa. Filippo aveva compito il settennio; la sposa poteva avere otto o dieci anni. Essa portava con sè uno scrigno pieno di gioielli, che suo padre affidò all'abate di San Michele della Chiusa, perchè lo rimettesse agli sposi quando il matrimonio fosse consumato, o lo restituisse alla famiglia quando il matrimonio andasse a monte. Gli sposini non essendo ancora in età di consumar altro che dei confetti, furono celebrati intanto gli sponsali; e la bimba rimase alla Corte degli Acaja ad aspettare gli anni dell'amore. Come avranno passato quel tempo i due ragazzi? Senza molta impazienza, si può credere. E nessuno gli avrà vigilati, di certo. Si saranno rincorsi mille volte per i viali di questo giardino. Essa avrà parlato del cofanetto miracoloso dell'Abate, egli dei bei puledri che avrebbero fatto caracollare insieme per le vie di Pinerolo, tra pochi anni. Sibilla del Balzo, che era ancor giovane, avrà fatto da mamma alla piccola nuora. Qualche bacio innocente nel collo alla sua ginevrina, Filippo ce l'avrà stampato, qualche volta, in mezzo ai roseti. Si saranno posti affetto l'un l'altro? Si saran bisticciati? Quanti lieti pronostici avran fatto i vassalli striscianti e le dame adulatrici! Ah poveri pronostici d'amore! Amedeo VI cresceva; nel 1347 usciva di pupillo. A che poteva giovare il Conte di Ginevra, scadendo dal suo ufficio di tutore? E allora, perchè il matrimonio? Con un tratto di penna, tutto fu sciolto. La povera sposina fu liberata dalle promesse. Le fecero un involtino delle sue bricciche, le rimisero in mano la scatoletta dei suoi gingilli, e la rimandarono al babbo e alla mamma... com'era venuta. Le cronache non dicono se i due ragazzi abbian singhiozzato separandosi, e maledetto “l'iniqua ragion di Stato.„ Si separaron forse con un sorriso. Ma chi sa che molti anni dopo, quando era sposa di Giovanni di Chalon, signore d'Arlay, udendo la miseranda fine di Filippo d'Acaja, la giovine signora non abbia pensato con tenerezza al suo piccolo fidanzato d'un tempo e lasciato cader una lagrima su quella memoria gentile! * * * Avevamo visto tutto, e stavamo per uscire, quando s'accese una discussione vivace tra la signorina e l'esattore intorno alla “mitezza„ dei principi d'Acaja. L'esattore peraltro ci metteva una puntina di malignità, e faceva un po' per chiasso. — Infine, saranno stati miti, diceva; ma fatto sta che nel registro dei loro conti c'è segnata di tratto in tratto una somma per l'acquisto d'una corda nuova, _pro magna corda de nouo_, che non serviva certamente a far all'altalena. Sì, perdonavano molti delitti.... per denaro. Ma quando i colpevoli erano spiantati, facevano torturare e impiccare _de bon cuer_, come scrive il mite Amedeo, con ortografia principesca. Uno aveva l'_auriculam incisam_, l'altro il naso _deputatum_, un terzo la fronte rabescata col _ferro calido_, un quarto, gli _oculos decrepatos_; una donna era _combusta_, nientemeno; un vecchio annegato come un cane; un altro _rabellatus_, trascinato alla forca per una corda attaccata alla coda d'un'asina comprata da un'ebrea. E per _parua furta_ si contentavano di sbrindellare le cuoia a vergate. Le pare che sia mitezza, signorina? E quell'altra birbonata di tenere sepolti gli ostaggi in una torre, per anni e anni, dei poveri ragazzi astigiani, che ne uscivan mezzo morti? Perchè non facevano l'inferno per liberarli, quelle dolci principesse? — Ebbene, la signorina l'avrebbe fatto l'inferno, ne potevamo andar sicuri; ma quella di dar carico ai Principi dell'atrocità della giustizia punitiva, che era mostruosamente atroce da per tutto, in quel tempo, le faceva alzare le spalle (ammirabili). Conosceva anch'essa il famoso regesto, e sapeva che la mitezza degli Acaja si poteva dimostrare con altre prove. Bisognava vedere, per esempio, in qual maniera punivano le colpe che offendevano soltanto le loro persone. Un Barnabò non si sarebbe contentato di far pagare una piccola multa a chi avesse parlato in pubblico _contro il suo onore_; Galeazzo avrebbe levato qualcosa di più che pochi fiorini ad una donna che avesse bruciato in chiesa il banco d'una principessa, la vigilia del suo onomastico; nè altri Principi d'allora pagavano alla povera gente, come usavano gli Acaja, i danni fatti dai loro cani e dai loro falconi; no sicuramente. — Andiamo, le concedo questo, — rispose l'esattore; — ma non potrà negare che quella di far dormire le principesse sulla paglia era una vera barbarie. — Tutti gli diedero sulla voce: era un calunniatore. Ma egli addusse la prova, una somma registrata nei conti _pro precio unius charrate palearum pro lectis faciendis pro adventu domicelle Bone_; Bona principessina, figliuola d'Amedeo.... — Ci avranno dormito tutti sulla paglia, — osservò la signorina. Che! Che! — rispose l'altro trionfante, il _dominus_ dormiva sulla lana. C'è registrato. _Lanam materacii ad opus domini_. Che mi viene a contare! — E allora tutti risero, e la discussione finì in quella maniera, sul morbido, come non sogliono finire le discussioni con gli esattori. * * * A forza di ricordare e d'immaginare, insomma, uscimmo tutti dal palazzo con la gradita illusione d'aver visto mille meraviglie. Gran bel dono, proprio, quello dell'allucinazione volontaria! Per questo, io potrei dare dei punti a quel caro signor Joyeuse del _Nabab_, il quale, andando la mattina all'ufficio, si rappresentava così al vivo l'atto del direttore che gli dava una gratificazione di mille lire, e vedeva così nettamente il suo biglietto bianco e i suoi colleghi verdi, che arrivato alla banca, rimaneva ogni mattina stupito e avvilito di non ricever la croce d'un quattrino. Io pure, ritornando verso la villa Accusani, mi raffigurai, e posso dire d'aver visto davvero una stranissima cosa. Mi trovavo sopra un alto ballatoio del palazzo degli Acaja, e vidi sorgere tutt'a un tratto accanto a me i quattro Principi morti, diritti stecchiti nelle loro armature corrose, coi visi consunti e con gli occhi orribilmente infossati sotto le fronti che mostravan l'osso nudo. Si fregaron le palpebre cadenti come destandosi da un altissimo sonno, e s'atteggiarono a un'espressione di stupore indescrivibile, riconoscendo a poco a poco la pianura immensa e i luoghi vicini e lontani dove avevan combattuto durante la loro vita mortale. E si vedevan passare nel loro sguardo lento e girante mille curiosità e mille inquietudini, come se domandassero affollatamente a sè stessi: — Che fu del nostro sangue? Dove sono i nostri nemici? Che cosa avvenne dei Marchesi di Saluzzo e di Monferrato? E le repubbliche d'Asti e di Chieri? E i re di Sicilia? E i Signori di Milano? — Principi! — io gridai allora; e i quattro teschi si voltarono. — Non c'è più Marchesi di Saluzzo, non c'è più Marchesi di Monferrato, non c'è più repubbliche d'Asti e di Chieri, non c'è più dominii piemontesi nè di Re di Sicilia nè di Visconti: fin dove arriva il vostro sguardo, sventola l'insegna della vostra famiglia, splende la croce bianca di Pietro II, vostro progenitore di Savoia. — I loro occhi cavernosi mandarono un lampo, dilatandosi, e si fissarono profondamente ne' miei. — Principi! — ripresi, — quello che appena avreste osato ambire in segreto, nei più audaci sogni della vostra giovinezza, tutta la bella riviera di ponente, e le terre dei Gonzaga, e i possedimenti degli Scaligeri, e i domini degli Estensi, e le quarantadue città di Gian Galeazzo, son raccolte sotto lo scettro dei vostri nipoti, e glorificano il nome della vostra stirpe.... Ascoltatemi! — gridai, frenando col cenno un movimento impetuoso con cui si traevano indietro. — Ciò che non avete mai sognato un istante, nemmeno nei più febbrili delirii della vostra ambizione, nei giorni di battaglia e di trionfo, la città poderosa e superba, che portava il terrore tra i Saraceni, e che voi salutavate con riverenza salpando pel mar di Liguria a tentar la conquista del vostro principato di Grecia; e quella più formidabile e più bella, signora del mar dell'Adria, che avrebbe potuto coprire i vostri domini con le vele distese dei suoi navigli; e quell'altra piena d'oro e di gloria che ammiravate di lontano come un immenso chiarore all'orizzonte, e da cui vi giunsero come echi di un nuovo mondo i nomi immortali di Giotto e di Dante, sono unite sotto il regno del vostro sangue, e portano nella stessa bandiera la croce della vostra Casa!... Ascoltatemi ancora! — gridai con tutte le forze del mio petto, soffocando un'altissima voce che stava per prorompere dalle quattro bocche spalancate e convulse. — Immaginate avverato il sogno d'un pazzo, incominciata l'età dei prodigi, le leggi del mondo sconvolte: tutte le terre soggette ai vicarii di Cristo, da Radicofani a Ceprano, l'Emilia, i possedimenti della duchessa Matilde, Spoleto, tutto quanto è mai stato donato da Re o da popoli a San Pietro e ai suoi successori; e tutto il vasto paradiso sul quale ondeggiò per tant'anni il vessillo temuto di Casa d'Angiò; e tutta la terra splendida e favolosa che sottostette alla spada d'Aragona; tutto, tutto, da un estremo all'altro della penisola enorme, popolata di mille città e armata d'un milione di spade, tutto riconosce e inchina un Re solo, un Umberto di Savoia! — A queste ultime parole i quattro Principi d'Acaja rimasero un momento immobili e muti, girando intorno i loro grandi occhi insensati; poi barcollarono come percossi da una mazza ferrata sul cranio, e stramazzarono riversi tutti insieme nell'oscurità del sepolcro. IL FORTE DI SANTA BRIGIDA Pinerolo, agosto 83. Ho ricevuto una gran visita graditissima, giorni sono, qui sul colle di San Maurizio, nella villa Accusani. Mi portan su una lettera e un biglietto di visita, dicendomi: — C'è un signore forestiere. — Guardo il biglietto. C'era scritto: _Commandant Emile de Beaulieu, 20me régiment d'artillerie_. — De Beaulieu! dissi tra me. Questo nome non mi è nuovo. Mi pareva d'averlo inteso o letto pochi giorni avanti; ma non ricordavo nè dove nè a qual proposito. Sapendo che i parroci delle chiese antiche di Pinerolo ricevono qualche volta delle lettere di francesi sconosciuti, i quali li pregano di far ricerche intorno alle loro famiglie nei registri parrocchiali del tempo della dominazione di Francia, pensai che quel maggiore de Beaulieu fosse venuto a Pinerolo con uno scopo simile, e che si presentasse a me con la raccomandazione d'un amico perchè io lo presentassi al parroco di San Maurizio. E non la sbagliavo di molto. Ma ero ben lontano dall'immaginare la buona fortuna che m'annunziava la lettera, d'un mio amico di Parigi. Il maggiore De Beaulieu era discendente in diretta linea di quel valoroso De Beaulieu che aveva governato e difeso il forte di Santa Brigida durante l'assedio famoso di Pinerolo del 1693. Io n'avevo letto e ammirato le gesta la settimana prima. — Il maggiore, diceva la lettera, passando di Torino per tornare in Francia, si reca a Pinerolo a visitare i luoghi dove combattè il suo antenato. — Figuratevi! ruzzolai le scale. E mi trovai davanti un bell'uomo sui trentacinque anni, biondissimo, d'una corporatura asciutta di cavallerizzo, vestito da viaggiatore, con eleganza. La voce me lo rese immediatamente simpatico. Aveva combattuto a Sédan, luogotenente d'artiglieria, nel corpo del generale Wimpffen; era stato due anni in Africa; non parlava, ma capiva l'italiano. — _Mais, c'est très beau ici!_ — disse dopo le prime parole, accennando i monti. — Intendo assai bene ora come il conte di Tessé si sia difeso accanitamente. Doveva rincrescer molto a lui e a tutti i Francesi di sloggiare di qua. — Aveva già fatto un giro per Pinerolo, col piano della città forte fra le mani, ed era contento d'aver ritrovato fin dai primi passi l'edifizio dell'antico arsenale. — Dunque io vi debbo fare da cicerone? — gli dissi. — Badate che non sono in grado d'insegnarvi altro che la strada. Non gli occorreva altro. Aveva letto le relazioni militari del tempo, specialmente la storia del marchese di Quincy, brigadiere di Luigi XIV; nessun particolare dell'assedio gli era sconosciuto. — Ci aiuteremo a vicenda — mi disse; e poco dopo pigliammo la via del monte di Santa Brigida. * * * Ma prima d'arrivar sul terreno dell'assedio, credetti opportuno di fargli un'osservazione conciliativa. Bisognava regolare i conti del nostro orgoglio nazionale. E la cosa, per un caso assai raro, era mirabilmente facile. Avevamo l'uno e l'altro una parte eguale di soddisfazione nei ricordi dell'assedio di Pinerolo, perchè è vero che gli italiani e i loro alleati avevano espugnato il forte di Santa Brigida; ma non eran riusciti a impadronirsi della città: la gloria dei conquistatori del forte lasciava intera e netta quella dei difensori della cittadella. Gli alleati, d'altra parte, non avevan levato l'assedio per disperazione di vincere, ma perchè minacciati alle spalle dal Catinat. Le partite eran pari, dunque. Potevamo visitare il campo col cuore in pace. — _Tapez!_ — egli rispose con un sorriso, stendendomi la mano. * * * Arrivati ai piedi del colle, dove sorgeva la cittadella, ci soffermammo a guardar la pianura sottoposta. — Che stupendo scacchiere! — esclamò il maggiore; — degno veramente della partita che vi giocarono! — Ah sì! La partita era terribile. Si trattava di strappar di mano al gran Re la libertà dell'Europa. Ci formicolavano cinque eserciti, su queste belle colline; piemontesi, inglesi, olandesi, tedeschi dell'impero e degli elettorati, valdesi e protestanti di Francia, Vittorio Amedeo II ed Eugenio di Savoia, uno stuolo di generali d'ogni paese, il fiore della nobiltà francese e savoiarda, trentamila soldati che avevan visto il fuoco di venti battaglie. E con che animo c'eran venuti! I francesi, incrudeliti nelle persecuzioni degli ugonotti e nelle atrocità del Palatinato; i piemontesi, furiosi di vendicare il macello di Cavour e gli orrori d'una guerra devastatrice fatta ad un tempo con la spada e con la forca; gli anglo-olandesi infiammati dall'ira di Guglielmo III; quasi tutti i principi morsi nel cuore dal ricordo di un'offesa personale del re Luigi; e gli uni eccitati dal pensiero che qui era il lato vulnerabile della Francia, il solo punto in cui si potesse assalirla con vantaggio per irrompere nel Delfinato e nella Provenza; gli altri inanimiti dagli eccitamenti del loro Re, che teneva a Pinerolo come al proprio sangue, e che giocava sulle sue mura l'onnipotenza e la gloria della monarchia.... Che meraviglia di spettacolo, per San Giorgio! degno proprio d'aver a spettatrici le montagne da cui scese la vendetta di Annibale e irruppe la furia di Carlomagno. * * * Un po' più innanzi, uscendo di fra i muri di cinta delle ville, il maggiore si fermò ad ammirare quel monte di Santa Brigida, che protende con una curva così graziosa il suo largo fianco nella pianura. I giardini, le pergole, le siepi, i gruppi d'alberi sono così fitti dalla cima alle falde, e la vegetazione così rigogliosa, che le case vi paion tuffate dentro come in un bosco; e son sparpagliate così pittorescamente per tutta la china, fattorie bianche, cascine rosse, casette svizzere, torri, nidi nascosti da innamorati, villette raccolte insieme come un crocchio d'amiche, palazzine pensierose nella solitudine, file di case poste l'una sotto l'altra a scalinata, e villini variopinti buttati via a caso per il verde come una grembialata di camelie e di rose, che lo sguardo v'è attirato in mille punti ad un tempo, e la fantasia assalita da mille capricci di poeta, e il cuore punto da mille invidie di comunista. * * * Oltrepassata la villa Vagnone, il De Beaulieu cominciò a cercare il sito dei ridotti in terra, che il conte di Tessé, comandante di Pinerolo, aveva fatti costruire per legar la cittadella al forte di Santa Brigida: tre ridotti, scaglionati lungo la china del monte, a difesa dei quali eran stati posti cinque battaglioni di fanteria discesi da Roccia Coltello, dove stava a campo il Catinat con gli avanzi dell'esercito. — Qui doveva passar la strada sotterranea, mi disse. — Voleva dire la strada sotterranea, lunga almeno un miglio di Piemonte, che metteva in comunicazione il forte con la cittadella. — È probabile che seguitasse i serpeggiamenti della strada scoperta, — soggiunse. Ci doveva parer l'inferno là sotto, durante i combattimenti, quando vi s'incrociavano e vi si urtavano, al chiarore delle lanterne, i feriti portati giù dalla cima del monte, le compagnie di rinforzo che salivano di corsa, gli aiutanti di campo che recavan gli ordini del governatore, i cannoni trascinati a salvamento, i difensori dei ridotti soverchiati, che precipitavan dentro per le buche travolgendo i prigionieri esterrefatti, mentre le vôlte del sotterraneo tremavano sotto la pesta degli assalitori e il fischio rabbioso delle granate. D'una cosa non sapeva rendersi ragione il maggiore, del perchè i francesi non avessero pensato molto tempo prima a costruire un forte sulla cima di quel monte che dominava così terribilmente Pinerolo; perchè è certo che del forte di Santa Brigida non c'era ancora segno nell'aprile del 1692, e che i lavori non eran nemmeno terminati al cominciar dell'assedio. — Ecco San Pietro! — esclamò tutt'a un tratto, accennando giù nella valle del Lemina il bel villaggio mezzo nascosto nella verzura. — Là seguì il primo combattimento, il 24 di luglio. C'era il capitano Affs, del reggimento d'Auvergne, quando il duca Amedeo gli piombò addosso dai colli con due colonne convergenti, dopo aver spazzato gli altri posti francesi. Se non accorrevano a liberarlo i granatieri della cittadella, era spacciato. Deve aver passato un brutto quarto d'ora. — E seguitando a parlar così, con quella familiarità di linguaggio e con quei particolari e vocaboli tecnici che ravvicinano tanto gli avvenimenti lontani, mi dava la gradita illusione di visitare quei luoghi pochi mesi dopo la pace del 30 maggio del 96, in compagnia d'un aiutante di campo del generale di Tessé. * * * Continuammo a salire in mezzo alle cascine, alle fattorie, alle ville. Tutte quelle case, durante l'investimento del forte, erano convertite in altrettanti ridotti, continuamente presi e perduti dagli assedianti e dagli assediati, rovinati dagli uni, riattati in furia dagli altri. Di lì bisognava ad ogni costo che gli alleati snidassero i francesi se volevan tagliare le comunicazioni del forte con la piazza. Colonne enormi di tedeschi, di spagnuoli, di savoiardi si precipitavano su quei fortilizi improvvisati, di giorno e di notte, e attaccavano mischie orrende tra le siepi, sulle aie, nelle stanze, dove combattevan con le pistole, con le sciabole, con le baionette, coi calci dei moschetti, urlando come anime dannate in sei lingue diverse, non rendendosi prigionieri se non crivellati di ferite, e lasciando il terreno sparso di tronconi d'armi, di brani di giustacuori, di ciocche di capelli, di chiazze di sangue. I nobili piemontesi, il conte di Massel, i marchesi di Parella, di Caraglio, di Bernezzo, facevano sfolgorare le loro lunghe spade tra i primi. Ogni più breve tratto di trincea che si aprisse, costava decine di vite di guastatori e di soldati. Ogni più piccolo avanzamento di batteria scatenava una tempesta di ferro e di fuoco dai bastioni. Le sortite disperate del presidio portavan tutt'intorno la rovina e l'incendio come le eruzioni d'un vulcano. Sterratori, ingegneri, giovani volontari ugonotti, brillanti capitani cresciuti nelle Corti, veterani canuti di dieci guerre, vecchi gentiluomini luccicanti d'oro e di seta, stramazzavano a capo riverso nei fossi delle parallele, sfracellati il petto e la fronte. Tremila uomini si dice che perdessero gli assedianti soltanto nei primi quindici giorni. E non si stava molto meglio dentro al forte. Le bombe vi grandinavano da tre parti, qualche volta trecento in una notte. Il presidio, formato da principio di quattrocento cinquanta soldati, scelti tra i migliori nei dodici battaglioni di Pinerolo, con venti sergenti e venti ufficiali eletti, comandati dal colonnello Sestribe e dal governatore De Beaulieu, doveva essere rinfrescato senza posa. I bastioni costrutti di recente, e guasti dalle grandi piogge, oltre che danneggiati dalle stesse artiglierie della cittadella che li proteggevano, richiedevano un lavoro continuo e precipitoso di riparazione. E con tutto questo, il forte tenne duro contro quattro eserciti per quasi un mese. * * * Ma via via che si saliva, e che il terreno s'andava facendo più ripido e più rotto, il maggiore pareva sempre più disposto ad ammirare gli assedianti. — Caspita! diceva, soffermandosi per guardare intorno, — era una dura impresa (_une rude affaire_). Bombardati dal forte, bersagliati dalla cittadella, tempestati dai ridotti, fulminati dalle batterie mobili del Tessé.... ci volevan dei petti di bronzo e dei fegati d'acciaio per tener le trincee. Eppure, chi sa! avrebbero piantato ogni cosa, forse, se non era la presenza dei due principi savoiardi. Quelli eran due campioni, sacro dio! Feci un sorriso modesto in nome dei due principi. Con uno straniero, vien qualche volta naturale anche all'ultimo dei cittadini, di imitare quel vecchio sergente francese il quale diceva: — _L'empereur et moi, ça ne fait qu'un._ — E poichè m'aveva detto una cosa gradita, io gli dissi alla mia volta, per rendergli la gentilezza, che ammiravo cordialmente, come un bell'esempio del come si possa accordare l'orgoglio del soldato col rispetto dovuto a un nemico glorioso, la nobile risposta che il governator De Beaulieu aveva dato al principe Eugenio quando questi era venuto in persona a intimargli la resa, affermandogli che le comunicazioni tra il forte e la cittadella eran rotte. Invece di scimmiottare il _Roi soleil_ con una risposta spavalda da eroe di teatro, egli s'era contentato di accennare al Principe la strada sotterranea ancor libera, il fosso sgombro e la breccia richiusa, rispondendo rispettosamente: — Vostra Altezza vede. Un soldato d'onore non può ancora render la spada. — Non poteva ispirare che una risposta nobile la parola del Principe Eugenio, — rispose il maggiore. Ah! l'_Abatino_! Egli l'ammirava con entusiasmo quella simpatica e strana figura, quell'eroe gobbetto, che non aveva mai lasciato vedere il suo scrigno ai nemici, piccolo, gracile, terribile, con quegli occhi da Napoleone del Meissonnier, chiari come due diamanti, con quel nasino voltato in su, con quella bocca sempre aperta come per esser più pronta a gettare il grido dell'assalto. Ci doveva mettere il diavolo in corpo ai suoi reggimenti quando passava di galoppo con la bella coccarda azzurra sulla corazza, e apostrofava i soldati in quattro lingue, dissimulando con un sorriso il tormento della sua vecchia ferita di Belgrado. Era una mirabile natura, audace, tenace, impetuosa, gioviale. Nulla lo definiva meglio della scommessa di cento doppie che aveva fatta la sera del primo sabato d'agosto con Vittorio Amedeo: di fargli sentir la messa nel forte di Santa Brigida all'alba del giorno dopo. * * * Arrivati sulla cima del monte, il maggiore De Beaulieu riconobbe il terreno con un'occhiata. — Qua eran piantate le batterie dei tedeschi, comandati dal maggior generale Scheveim; là ci doveva esser la trincea dei mille e settecento inglesi, comandati dallo Schomberg; laggiù gli spagnuoli col generale de Las Torres. Dov'è il Pilone della Morta? mi domandò. — Gli indicai il piccolo gruppo di case dove rimangon gli avanzi d'un pilone sul quale era anticamente raffigurata una donna, morta là una notte per terrore degli spiriti. — Fino a quelle case, disse il maggiore, si spinsero il 27 luglio, incalzando i francesi cacciati da Frossasco, cinquemila soldati del duca di Savoia. Il forte era formato da quattro bastioni e sfolgorava tutto quello spazio d'attorno palmo per palmo. Ma doveva essere terribilmente tragica la condizione del forte negli ultimi giorni, quando già erano stati costretti a levar via la più parte dei cannoni, e i fossi erano colmi di ruderi, i bastioni squarciati, la via sotterranea in pericolo, la palizzata minata per far saltare la controscarpa del fosso; e gli assediati si vedevan dintorno, a pochi passi, le gole nere di tutti quei mostri di bronzo venuti su come strisciando col favor delle tenebre, e tutti quei visi arsi di soldati d'ogni paese, inferociti da cento assalti e smaniosi dell'ultima strage, che li divoravan con gli occhi iniettati di sangue, mostrando le baionette. A quel punto, ogni resistenza era inutile. All'alba del quattordici, in fatti, gli alleati, cannoneggiando furiosamente i bastioni già cadenti, si avanzano per tentare l'ultimo assalto. Uno scoppio tremendo li arresta per un momento: le porte e il ponte del forte erano andati per aria. Credono d'aver appiccato il fuoco al magazzino delle polveri, ricominciano a fulminare con la frenesia della vittoria. Ma che è? Dai bastioni non si risponde. Si avvicinano titubanti, irrompono dentro come un torrente.... Non c'è più anima viva. Il forte è un mucchio di rovine. Non ci trovano che pochi cenci sanguinosi e un cannone con l'arma di Savoia, inchiodato. Fin dallo spuntare dell'alba, il governatore De Beaulieu, per ordine del comandante di Pinerolo, dopo aver fatto minare le cortine della porta principale e delle porte di soccorso, era sparito col presidio per la via sotterranea, non lasciando che pochi soldati coll'incarico di dar fuoco alle mine all'ultimo momento. Che formidabile moccolo deve aver attaccato Vittorio Amedeo! Avvicinandosi alla villa solitaria del signor Todros, che copre lo spazio già occupato dal forte, il maggiore si fermò ad osservare due piccole piramidi di bombe che s'alzano sui due pilastri della porta del giardino: bombe che furon trovate nella terra, con qualche pezzo d'armatura e poche monete ossidate, scavando là presso. Chi sa che non fosse proprio una di quelle, la bomba che aveva fracassato le gambe al povero Montour, maggiore del presidio. — Due bei piatti di patate di Savoia, — soggiunse il De Beaulieu, fissandole con gli occhi sorridenti d'un buongustaio. Lassù v'è uno spianato ampio, come non s'immagina guardando la cima del monte da San Maurizio: bei vigneti; tratti di terreno coperti d'erba altissima, ombreggiati da gruppi di quercioli, di eriche, di pini selvatici, e tutti tempestati di rosolacci, d'ombrellifere bianche, di ranuncoli, di giunchiglie, di fiori di smirnio, di pervinche, folti come i fiori di una aiuola, e frammisti a una quantità di pianticelle odorose che, toccate passando, spandono aromi acuti lungo i sentieri. Sedemmo per pochi minuti in mezzo agli alberi, e riposando là in quell'ombra quieta, in mezzo a quei profumi, refrigerati da un bicchiere d'acqua ghiaccia bevuta al pozzo d'una fattoria vicina, accarezzati da un'aria fresca e morbida che ci entrava tra i panni e ci girava intorno alla vita e alle braccia, pensammo tutti e due a quei poveri soldati che in quei medesimi giorni di agosto, a quella stessa ora, cento ottantasei anni addietro, attraversavano correndo quello stesso spazio di terreno, allora nudo come un deserto, arroventati dal sole, trafelati, sfiniti, stravolti, inciampando nei cadaveri sbudellati dei loro compagni, sotto una grandine di palle francesi, mezzi morti di fame e di sete; là, a centinaia e centinaia di miglia dai proprii paesi e dalle proprie famiglie, di cui non avevan notizia da molti mesi, e che non avrebbero saputo nulla della loro morte; poveri strumenti ciechi di grandi ambizioni che non capivano, povera carne da mortai, sospinta a marce forzate da un capo all'altro d'Europa, frustata, macellata e dimenticata! Povere creature umane! — Ma perchè non avete messo un ricordo quassù? — mi domandò il bravo maggiore: — una pietra con quattro parole almeno? * * * Grazie alla cortesia del signor Todros, potemmo entrare nel giardino, e salire sulla torre della villa. Lassù il De Beaulieu mise fuori una di quelle voci lente e prolungate di stupore con le quali si suole accompagnare il volo circolare dello sguardo lungo gli orizzonti d'un panorama meraviglioso. Subito lo colpì quella bella conca ridente di Cumiana, che vien fuori inaspettata dalla parte sinistra, col suo semicerchio di monti boscosi, coi suoi poggi coronati di chiesuole, colle sue borgate che fan capolino fra le macchie. — Dove sono i boschi della Volvera? — mi domandò. — Ah, so quel che cerchi! — pensai. Ma non ebbi il tempo di fargli l'indicazione. Egli conosceva meglio di me tutto quel vastissimo teatro del grande attore Catinat. — _Voilà Piossasco, je crois_, — esclamò, accennando giusto. Là era la chiave della battaglia di Marsaglia, il monte San Giorgio, a cui aveva appoggiata l'ala destra il generale francese, facendo fronte al principe di Commercy, che fu poi il primo sbaragliato. Eugenio era nel centro, Vittorio Amedeo nei boschi di Volvera; tutti furono sfondati e travolti. Una miseranda giornata, mondo ladro. Il maggiore non disse parola; ma vidi che, richiamato senza dubbio dall'analogia dei ricordi, cercava dall'altra parte la città di Saluzzo, e quindi la pianura di Staffarda. — Cercate il campo delle vostre vittorie, — gli dissi. E lui, pronto, da vero gentiluomo francese: — Osservate però che non ho ancora osato guardare dalla parte di Superga. — Era un'allusione alla difesa vittoriosa di Torino, una risposta gentile alla botta scherzosa. — Touché, — gli dovetti rispondere, facendo il saluto da schermitore. * * * Per un pezzo non lo potei levare di lassù. Egli non si stancava mai di contemplare quello sterminato tappeto verde, picchiettato di vermiglio dai villaggi, rigato di bianco dalle strade, strisciato d'argento dai corsi d'acqua, orlato d'azzurro all'orizzonte, e tutto ricamato a rilievo e come trapunto dalla vegetazione, da mettere la voglia di passarci sopra la mano; e reso più bello anche da un cielo limpidissimo, striato di lunghissime nuvole sottili ed accese, simili a immense pennellate color di rosa, che tingevano del loro riflesso delicato le acque immobili del giardino della villa. — No, — diceva, dondolando il capo, e guardando giù per il fianco del monte, come se parlasse per sè solo; — dopo la presa di Santa Brigida, se non sopravveniva il Catinat, Pinerolo non poteva più reggere. Col rinforzo di seimila spagnuoli e coi dodici nuovi cannoni di grosso calibro che aveva ricevuti, il Duca di Savoia era sicuro del fatto suo. La piazza non era approvvigionata che per tre mesi. Egli aveva alla mano più di cento pezzi d'artiglieria. Con la batteria di mortai che piantò qua sotto, e con l'altre due che aveva fatto drizzare dalla parte opposta, sulla pianura, avrebbe ben presto avuto ragione del Tessé, nonostante il fuoco d'inferno della cittadella. La torre maestra, bersagliata notte e giorno da ventiquattro bocche di bronzo, era ridotta in pessimo stato, al primo d'ottobre.... Ma sapete che era originale, e dura molto, la condizione di quei poveri abitanti di Pinerolo, bombardati per dieci giorni di seguito dal loro Duca, e costretti a desiderare con tutto il cuore che tirasse avanti! No, davvero, dopo due mesi e mezzo di quella dannata vita, e dopo sessantatrè anni di dominazione straniera, essi avrebbero meritato la soddisfazione di veder l'entrata trionfale di Vittorio Amedeo. Non era giusto che la dovessero sospirare altri tre anni. Il conte di Tessé non sperava certamente di cavarsela così a buon mercato. * * * Parve molto curioso al De Beaulieu un particolare che gli richiamai alla mente riguardo al Duca di Savoia. Uno degli edifizi di Pinerolo, visibile di lassù, che era stato malconcio più degli altri dal bombardamento, era il monastero della Visitazione. Che cosa avrebbe detto Vittorio Amedeo II, se mentre tirava a palle infocate sul monastero, gli avessero profetato che sotto a quel tetto, fra quelle mura fulminate, sarebbe morta settantasei anni dopo, quasi nonagenaria, la più cara delle sue amanti, quella marchesa di Spigno e di San Sebastiano che fu poi sua sposa, che si raccolse con lui a Chambéry dopo l'abdicazione, e che lo spinse, si dice, a metter sottosopra lo Stato per ritogliere il trono al figliuolo? — _Une femme charmante_, non è vero? — disse il maggiore. Quel diavolo di francese la conosceva personalmente. Andando la mattina a comprare la _Guida delle Alpi Cozie_ nella libreria del caro Mascarelli, ci aveva visto la fotografia della marchesa, presa da un ritratto a olio che si conserva ancora nel monastero; e quella testina ravvolta in un ampio velo come dentro a una nuvola bianca, quei begli occhi languidi, quella bocca voluttuosa e maligna, l'avevano stregato, lui pure. — Bel tipo anche quell'Amedeo! — soggiunse, con una certa espressione d'invidia. _On n'en fait plus_. Inchiodato sul cavallo da un'alba all'altra, con quella enorme parrucca bionda che gli cascava di sotto al piccolo cappello a tre punte fin sopra le spalle, con quegli occhi azzurri mobilissimi, con quel naso forcuto, butterato dal vaiolo preso nella campagna del Delfinato, vestito alla diavola, spoglio fin anche del collare dell'Annunziata, che aveva fatto a pezzi l'anno innanzi per darlo ai poveri di Carmagnola, celione coi soldati e burbero coi pezzi grossi, e libero di lingua come un caporale, che stupendo soggetto per la “fotografia aneddotica„ d'un corrispondente di giornale che avesse potuto seguirlo da vicino! E a me pareva di vederlo, là su quella vetta, accompagnare ogni colpo di cannone con un pugno sulla sella, sagrando a mezza voce coi denti stretti: — Ah, io sono la bestia nera di Louvois! Ah, io sono il paggio del re di Francia! Ah, non mi è permesso di fare un viaggio a Venezia! Ah, _maniga d'baloss_! Pigliatevi queste, per ora. * * * — Con tutto questo, riprese il maggiore, quasi seguitando il filo del mio pensiero, — quando non s'ammazzavano, si usavano mille cortesie delicatissime. Che ne dite del duca di Savoia che lascia libera ai francesi la corrispondenza postale fra la città assediata e Casale, e che manda il suo fido conte di Groppello, travestito da bifolco, a consigliare al Tessé di far scendere il Catinat dalle montagne, per dare a lui, Amedeo, un pretesto onorevole di non bombardare Pinerolo? — La più bella, per altro, la più grandiosa, la più buffa io non la sapevo: una lettera del Tessé al San Tommaso, prima che Amedeo arrivasse al campo: Sento che Sua Altezza reale deve giungere. Vorrei far qualche cosa per il suo ricevimento. Suggeritemi voi. Vi offro intanto tutto quello che posso. Sua Altezza vorrà passeggiare, passare in rivista il suo esercito. Ditemi da che parte andrà: abbiamo molti cannoni appostati; ordinerò che non tirino da quella parte, nè cannoni, nè archibugi, perchè l'Altezza Sua non abbia la minima noia. Sta bene? Si può essere più amabili? — Che maravigliosi burloni! — conchiuse ridendo il maggiore, e si sarebbero squartati coi denti. * * * Infine, si dovette scendere. Ma che indimenticabile spettacolo aveva goduto di là il signor De Beaulieu! pensavamo tutti e due, uscendo dalla villa. Nelle brevi ore di tregua, affacciandosi al parapetto dei bastioni, egli vedeva il rimescolìo dei soldati dentro ai fortini giù per la china del monte, le mezzelune di Pinerolo brulicanti di moschetti, le torri della cittadella coronate d'ufficiali alla vedetta; e da ogni parte, per i vigneti rasi, fra le case diroccate, per gli orti sconvolti dagli scavi delle trincee e pesti dai cavalli e dalle ruote, sui campi sparsi di gabbioni rotti, di travi fumanti, di sacchi di lana sventrati, tutt'intorno alla città, migliaia di tende e di padiglioni d'ogni colore, villaggi di baracche preparate per il blocco invernale, e più lontano vasti parchi di carriaggi e armenti enormi addensati, e masse ondeggianti di cavalleria che foraggiavano per la campagna dalle parti di San Secondo e del Belvedere; e nelle ore di battaglia, quando rombavano insieme le artiglierie del forte, della cittadella, della piazza, dei ridotti, delle batterie di pianura, facendo una corona densa di fumo e di fuoco in giro a Pinerolo, quelle larghe onde furiose di soldati che venivan su per il monte, i battaglioni biondi d'Inghilterra, le fanterie brune di Spagna, le larghe facce sbiancate degli olandesi, gli alti dragoni di Savoia, le colonne pesanti e serrate dei tedeschi, una marea montante di carne umana, variopinta di cappelli piumati e di larghe tracolle, lampeggiante di baionette e di scuri, irta di fascine, di scale, di bandiere lacere, di spade brandite di colonnelli, ubbriacata dalle proprie grida e da un clamore infernale di tamburi, di pifferi e di timballi.... E appunto in quel momento, giù per la vasta pianura florida e tranquilla, facevano un vivo contrasto con le nostre tumultuose immaginazioni i bei pennacchi di fumo dei treni di Torino e di Torre Pellice, e dei tranvai di Perosa e di Saluzzo, immagini di pace e di lavoro, che trascorrevano rapidamente fra gli alberi, come lunghissimi veli candidi di amazzoni gigantesche lanciate a corsa gioiosa per la campagna. * * * Stava per cadere il sole. Ci soffermammo ancora un momento a guardare la cima del Freydour e i Tre Denti, che ci sorgevano proprio di faccia, come bastioni verticali d'una fortezza prodigiosa, davanti alla quale i combattimenti di Santa Brigida non sarebbero stati che lotte di formiche; ed erano maravigliose, a quell'ora, quelle montagne di nuda roccia, di cui si vedono nettissimamente tutti i rilievi, tutte le incavature, tutte le crespe, che parevan fatte col cesello, e tinte di color di ferro, di grigio perla, d'amaranto, di viola, di sfumature di corallo e di rosa. E ammirammo anche la valle del Lemina, così verde e raccolta, che pare una valle chiusa ai profani, la quale appartenga tutta a un convento. Era una bella sera di domenica. Si vedeva tutt'intorno quella vasta pace sorridente dei dì di festa, che s'indovina, in campagna, anche quando non si mostra per alcun segno visibile. Sotto i pergolati delle ville passeggiavano coppie di signore a braccetto; dalle casette lungo la strada uscivano suoni di bicchieri urtati e di voci allegre; incontravamo dei bimbi paffuti, delle belle ragazze e dei vecchi arzilli che ridevano. Quando tutt'a un tratto, vicino alla villa Vagnone, udimmo un canto graziosissimo di due voci di tenore, non educate, ma d'un metallo insolito da queste parti; e poco dopo vedemmo spuntare di fra gli alberi due soldati di cavalleria della Scuola, con le loro belle mostre color d'arancio. — Non son mica piemontesi quei due soldati, — disse il De Beaulieu. — Son romani, — risposi. — Da che li riconoscete? — mi domandò curiosamente. — Dalla pronunzia, dall'intonazione del canto, dalle parole stesse della canzone. E son romani di Roma, se non m'inganno. — Soldati volontari, forse? — Ma no; soldati di leva. Son più di dieci anni che abbiamo nell'esercito i soldati di Roma. Si soffermò, e si voltò a guardar quei soldati. La mia risposta aveva riportato d'un colpo la sua immaginazione dal Piemonte di Vittorio Amedeo all'Italia con Roma capitale, e dietro a quei due giovani egli vedeva confusamente, con una specie di stupore, gli archi gloriosi e i colonnati carichi di secoli della città immortale. E me lo disse. Quanta poesia spandevan su per il monte di Santa Brigida le voci armoniose di quei due ragazzi! Che favolosa mutazione s'era compiuta! Eppure, il sangue sparso dai soldati di Vittorio Amedeo su quella vetta aveva giovato anch'esso al compimento del miracolo che la presenza di quei due figliuoli di Roma significava. Certo, quei soldati del diciassettesimo secolo non avevan creduto di battersi per l'Italia; s'eran battuti per devozione al loro principe, per l'onore delle armi, per amore della propria provincia. Ma eran quelli i sentimenti e quelle le tradizioni da cui nasceva due secoli dopo, fecondata dalle nuove idee, l'audacia patriottica del Piemonte e la popolarità italiana di casa Savoia. La forza nazionale di Torino del 48 e del 59 derivava in gran parte dalla coscienza di quel passato. Santa Brigida era anch'essa un'avanguardia lontana di San Martino. Il sangue sparso al Pilone della Morta si univa per una sterminata striscia vermiglia al sangue versato a Porta Pia. Non mi si destavano quelli stessi pensieri all'udir la voce di Roma sul campo di battaglia di Amedeo? Sì, gli stessi pensieri mi si destavano. Ma pensavo pure, arrivando sul colle di San Maurizio e osservando lo sguardo quasi di gratitudine che girava il maggiore sui dintorni, pensavo alla efficacia grande e benefica del valore, che ingentilisce e innalza ogni cosa. Era la memoria d'un valoroso che, dopo due secoli, rendeva simpatico a me uno straniero, e faceva amare a lui una città sconosciuta, e metteva sulla bocca all'uno delle parole nobili e onorevoli per la patria dell'altro, e suscitava da questi sentimenti, in poche ore, un'amicizia gentile. La quale, dopo molti altri discorsi sull'assedio, fu poi suggellata a tavola con una vecchia bottiglia di Campiglione. — Al governatore De Beaulieu! — dissi, alzando il bicchiere. E il maggiore, balzando in piedi subito, con voce vibrata e cordiale: — Agli espugnatori di Santa Brigida! IL FORTE DI FENESTRELLE Pinerolo, settembre 1883 Il vetturino schioccò la frusta, e i cavalli partirono allegramente, stimolati dalla brezzolina dell'alba, che inargentava il Monviso. Una gita da Pinerolo a Fenestrelle, con quella bella giornata ariosa e limpida, in compagnia di mio fratello Giacosa, era uno di quei gusti.... l'unico che potesse farmi levar più presto del sole. La campagna si svegliava appena, e gli illustri abati e il buon Francesco di Sales dormivano ancora fra i muri severi dell'Abbadia d'Adelaide. Più su, il ponte di Napoleone era deserto; intorno a Turina, dove combattè il bravo Caprara, tutto taceva, e fra le belle cave del Malanaggio, che Dio ci liberi, non c'era anima viva. Cominciammo a vedere alcune contadine valdesi, con le loro cuffiette bianche da vecchierelle, tutte pulite, vicino al villaggio di San Germano, in mezzo a quei monti graziosi, coperti di vigneti alle falde, vestiti d'eriche e di faggi più in alto, dove si arrampicano allo spuntar del giorno, coi libretti sotto il braccio, i piccoli “barbetti„ per andar alla scuola del maestro girovago, nei casali romiti delle vette. E da quel punto in su trovammo la valle animata da quei cento rumori sparsi e lenti, di carri, d'armenti, di sonagliere, d'officine solitarie, che accarezzano l'orecchio e acquietano il cuore come il canto pacato d'una buona madre che lavora. Ecco Villar-Perosa, ospite di Re, che mostra in mezzo al verde la sua piccola copia candida della basilica di Superga; ecco le praterie floride di Pinasca, dove si raccolse gettando sangue dalla bocca, col petto attraversato da una palla cattolica, Janavel, l'eroe dei Valdesi, scampato ai macelli di Val d'Angrogna.... Ma, veramente, la vista di quei luoghi, invece delle antiche battaglie, mi richiamava alla mente i discorsi che avevo intesi l'anno prima il giorno della festa d'inaugurazione del tranvai, discorsi di sindaci campagnuoli, d'industriali e di maestri, sonatine originali di rettorica alpestre, interrotte da scappate intempestive di bande musicali, o da sincopi improvvise di paura; e mi pareva di risentire quelle voci tremanti, e di rivedere quei visi pallidi, in mezzo ai contadini vestiti da festa e alle villanelle infiorate, che facevan corona alla larga figura dittatoria del senatore Bertea. Mentre la carrozza correva, tutte quelle frasi mi venivano incontro, come una folata di quei piccioni tinti che fan volare per le piazze i venditori di numeri buoni; e mi mettevano in fuga i ricordi storici. Ma era meglio così, perchè non bisogna pedanteggiare con la natura: essa si vendica sempre in qualche modo dei descrittori di passeggiate che appiccicano una data a ogni albero e un nome a ogni sasso. E poi la valle del Chisone è così bella in quel tratto. Passato Pinasca, si ristringe, si infosca, alza da una parte dei grandi macigni nerastri, strisciati di licheni, e piglia quell'aspetto particolare di tristezza delle valli anguste e quiete, dove sembra che la natura prepari in silenzio qualche sorpresa; e i viaggiatori si raccolgono e tacciono senz'avvedersene, guardando davanti a sè, con un sentimento vago di aspettazione. La sorpresa è là vicina, in fatti. La valle si riapre a poco a poco, la vegetazione s'addensa, poggi ameni si elevano, le case spesseggiano, sbucan ragazzi da ogni parte, ed ecco un'ampia conca, circondata di rocce ardite e di coltivazioni ridenti, popolata di opifici, di giardinetti e di ville, nella quale biancheggia e fuma Perosa; e là in fondo, si schiude da una parte la valle profonda di Fenestrelle, e dall'altra la valle solitaria di San Martino, guardata all'imboccatura dal villaggio di Pomaretto, che pare un mucchio di case ruzzolate giù dalle alture. Oh, il bel luogo fresco e gentile per venirci a nascondere un amore o a ponzare un romanzo! _Un rincon de paraiso entre los Alpes_, dice un poeta spagnuolo che vi combattè co' suoi connazionali nel 1693. Qui ci avevano un castello di confine i principi d'Acaja. Qui passarono, s'accamparono, e scaramucciarono cento eserciti, dai romani della repubblica ai francesi dell'impero. Qui si fabbricano dei dolci liquori, delle buone sete, delle belle ragazze, dei saldi soldati. — Animo, sforniamo un sonetto, mentre i cavalli rifiatano, — mi disse il Giacosa. Ma dopo aver buttate fuori undici sillabe ciascuno, sperando che venisse via il resto con la solita furia, dovemmo smettere; era troppo presto; le ruote della macchina poetica intaccavano ancora, arrugginite dai vapori notturni; e bisognò rassegnarsi, e continuare a discorrere in prosa come il signor Jourdain del Molière. Ma non ci parve che le montagne se ne mostrassero afflitte. * * * Da Perosa in su, i monti si serrano di tratto in tratto, in maniera che la valle par chiusa, e c'è da credere in vari punti di dover voltare indietro i cavalli. La strada serpeggia, si stringe al torrente, guizza sotto le rocce, passa in mezzo a casipole schiacciate e mute, che dànno l'immagine di una vita di tristezza e di stenti, attraversa dei recessi oscuri, di aspetto sinistro, che fan pensare a viaggiatori spogliati e sgozzati, fiancheggia dei mulini di steatite mossi da larghe vene d'acqua, percorre dei tratti ombreggiati da una vegetazione superba, dove fioriscono dei gerani, dei sedii, dei cespugli di rose selvatiche, che hanno la sventura di strapparci finalmente di bocca le prime quartine. Poco lontano da Perosa, passiamo accanto alla roccia enorme di Bec-Dauphin, che segnò già il confine tra Francia e Savoia, e che per un momento ci pende quasi tutta sul capo coll'aria di dire: — Se mi salta il grillo! — e poi entriamo da capo nel verde, in mezzo a grandi noci e a grandi castagni, che ci immergono in un'ombra cupa di grotta, risollevando tra me e il mio amico una vecchia disputa sulla bellezza comparata del castagno e della palma. Ecco il villaggio pensieroso di Meano, ecco i primi frassini, ecco i monti erti e brulli, dalle alte cime coniche, dalle bricche rotte e bitorzolute, dalle sottili guglie cesellate, che s'alzano snelle e recise per l'aria, colorite di viola, e svariate d'ombre nette e vigorose, sopra un tratto di paese quasi vergine, dove si ritrovano voci ed usanze romane, che noi vituperiamo di nuove strofe. Gli aspetti propri della montagna vengon pigliando forma e colori sempre più visibili. I castagni spariscono, le piccole conifere s'affollano, i sassi e i petroni si ammucchiano, il Chisone rimpiccolito saltella fra i grandi macigni, accavalciato da ponticelli rustici, che ricordano i modelli scolastici del paesaggio montano, il fondo della valle si colora d'un verde più unito e più vivo; e ci bisogna torcere il collo sempre di più, per arrivare con lo sguardo alle cime altissime, sparse di casette appena visibili, somiglianti a romitori d'anacoreti, e di piccoli quadrati di neve, rimasugli bianchi di valanghe, che paion tovaglie dimenticate di colazioni d'alpinisti. Siamo finalmente nella montagna “vera„ come dice il Giacosa, che mi rimprovera sempre di non aver mai visto che montagne “false.„ L'aria gagliarda, la sonorità dell'acqua, i fiori di color vivissimo, i profumi della _lavandula spica_ e della _nepeta nepetella_ ce lo annunziano. Fiancheggiamo ancora Mentoulles, a cui domandiamo, passando, se ha dormito bene Francesco I, e vediamo di là dal torrente la selva di Chambon, la più bella delle Alpi Cozie, vasta, fittissima e bruna, come una moltitudine innumerata di giganti, affollati sui colli e pei fianchi delle montagne, che aspettino un comando misterioso per scendere, e inondare la valle e irrompere nel Piemonte. * * * Ma già di lontano avevamo visto uno dei più straordinari edifizi che possa aver mai immaginato un pittore di paesaggi fantastici: una sorta di gradinata titanica, come una cascata enorme di muraglie a scaglioni, che dalla cima d'un monte alto quasi duemila metri vien giù fin nella valle, presentando il contorno d'uno di quei bizzarri colossi architettonici che vedeva Gustavo Doré coi suoi grandi occhi di mago: l'immagine di un vastissimo chiostro medievale, d'un tempio smisurato di Cheope, d'una immane reggia babilonese; che so io? un ammasso gigantesco e triste di costruzioni, che offre non so che aspetto misto di sacro e di barbarico, come una necropoli guerresca o una rocca mostruosa, innalzata per arrestare un'invasione di popoli, o per contener col terrore milioni di ribelli. Una cosa strana, grande, bella davvero. Era la fortezza di Fenestrelle. E fu anche più gradevole l'impressione quando arrivammo ai piedi del monte, e ci trovammo davanti al forte di Carlo Alberto, piantato là sul Chisone, a traverso alla strada, come un castello antico che intercetti il cammino, con la sua poderosa saracinesca sospesa sul ponte levatoio, tutto bucato di feritoie, da ciascuna delle quali pare che debba uscire una voce minacciosa per domandare “le carte.„ Il Giacosa si sentì risonar dentro tutti gli echi armoniosi del suo medioevo. Si direbbe che l'ha disegnato e messo là un poeta, quel forte; non un colonnello del genio: il soldato di fanteria che faceva sentinella al portone, stonava tra quei muri come una frase di regolamento in mezzo a una ottava dell'Ariosto. La carrozza passò sul ponte, che brontolò cupamente, come risentito d'un'offesa, e tirò via verso Fenestrelle. E per un buon tratto di strada, voltandoci indietro, vedemmo tutta la vasta fortezza che si alzava maestosamente sopra di noi, un disordine grandioso di edifizi nudi e foschi, sorgenti l'uno sul capo dell'altro, tortuosamente, come se rampicassero su per la montagna, dandosi di spalla a vicenda; alti muri rivolti in cento direzioni, dei quali non si capisce a primo aspetto lo scopo; tetti sormontati da tetti, imprigionati fra i bastioni, rocce che sporgono al di sopra degli spalti, fortini che alzan la testa al di sopra delle rocce, irti di parafulmini, forati di cannoniere, fiancheggiati di scale, congiunti come dalle ramificazioni d'un labirinto di pietra, tutto angoli acuti e saliscendi e rigiri; una fortezza non mai veduta, infine, che sembra composta di tante fortezze sovrapposte e legate a caso, costrutte tumultuariamente, nella furia del pericolo, in mille occasioni diverse, o intricate a quel modo, senza legge, di deliberato proposito, per confonder la testa agli assalitori. Una veduta, creda chi non c'è stato, da far nascer la voglia di comporre un ballo storico fenestrelliano, unicamente per metterci in fondo quella scena, che farebbe la fortuna di un impresario. * * * Pregustando con l'immaginazione il piacere di penetrare dentro a quei misteri terribili, arrivammo alla piccola e giovane città di Fenestrelle. Ero curioso molto di vederla, quella cittadina solitaria, dopo averla intesa rammentare tante volte da impiegati e da ufficiali freddolosi, che lamentavano con voce lugubre i suoi inverni di nove mesi, e la descrivevano come un villaggio perduto della Groenlandia. Ebbene, rimasi tutto meravigliato percorrendo quell'unica via stretta e tortuosa, lungo la quale si schierano le sue piccole case. Ha l'aria di un villaggio olandese, tanto è dipinta gaiamente da ogni parte. Da ogni davanzale sporgon dei fiori, e muri, terrazzi, imposte, contorni di finestre, battenti di porte, tutto è tinto di colori vistosi e freschi, come se là pure, come in Olanda, cercassero di consolarsi della tristezza del clima con le allegrie del pennello. Perchè la somiglianza ci apparisse meglio, scendemmo in un curiosissimo albergo della _Rosa rossa_, che ha daccanto all'entrata una specie di loggetta, o teatro di burattini, tappezzata di mille colori e ornata di mille gingilli, e sotto il portone un quissimile di lanterna chinese, e nel cortile, tutto intorno ai quattro muri, i ritratti dei grandi italiani, e teste d'angelo sotto i terrazzi, e vasi decorativi sopra le porte, e pitture intorno alle finestre, e automi messi in moto dalle fontane, e ogni sorta d'ornamenti da baracca carnovalesca, d'un gusto perverso e amenissimo, che paiono immaginati da un ragazzo o da un matto; e per giunta due gatti bianchi come la neve, con due paia d'occhi d'un azzurro così meraviglioso, da far sospettare che abbiano in corpo gli spiriti cabalistici di due streghine delle Alpi Cozie. Del resto, ci si trova delle trote da monsignori, un sugo di pergola squisito, e un liquore dei _fiori del prato di Catinat_, che farebbe digerire una bomba lessa. Tutta la città è curiosa a quel modo; variopinta e gaia a primo aspetto; ma come ristretta in sè, per tenersi calda, e aduggita, impaurita quasi dai monti altissimi che la dominano d'ogni lato. A ogni passo ci s'incontrano soldati in vestito di tela, visi abbronzati d'alpinisti, facce rosate di montanari; e i due soliti carabinieri che vi ficcan negli occhi uno sguardo insolitamente profondo, uno sguardo da _servizio di frontiera_. * * * Spacciate le trote, salimmo verso il forte di San Carlo, per il quale s'entra nel recinto della fortezza. Passammo sopra un altro ponte levatoio, in mezzo a muri enormi, a bastioni petrosi: tutto grigio, freddo, arcigno, spaurevole. — Si vede che nulla di tutto questo, diceva il Giacosa, è stato costrutto con un'intenzione benevola. — Entrati, vedemmo di sfuggita il quartiere degli ufficiali, la cappella, l'ospedale, le prigioni, la casa del Governatore, un gruppo di edifizi di malumore, che ci guardarono poco benignamente a traverso alle palpebre socchiuse delle loro finestre; e ci disponemmo a far l'ascensione della formidabile scala di quattromila scalini, intagliata nella roccia, e coperta da una vòlta a prova di bomba, che va su dal forte di San Carlo fino alla cima del monte. Un simpatico sergente d'artiglieria, che l'ottimo Comandante ci diede per scorta, mosso a pietà delle nostre gravi persone, ci domandò cortesemente se volevamo salire per la scala coperta, o per la via esterna, che è meno faticosa. Ma noi rispondemmo con l'incauta baldanza di chi s'è levato allora da tavola: — Per la scala coperta. — Sta bene, rispose il sergente, con un certo risolino che voleva dire: — Se n'accorgeranno a suo tempo; — e infilò un androne oscuro, facendoci cenno di tenergli dietro. * * * Salimmo una prima scala di pietra, col passo allegro di chi va su a un terzo piano, a fare una visita galante. — Arriveremo in cima senza avvedercene, dicevamo. — Ma quando a quella prima scala succedette la seconda, e a questa la terza, e alla terza la quarta, di cento scalini ciascuna, allora si cominciò a tirare un poco indietro le corna dell'orgoglio, _come face la lumacia_. — O dio, si disse, nessuno ci fa fretta, possiamo salire con comodo: intanto si discorre. — In quel momento appunto ci si presentava davanti una scala lunghissima, di più di cento e cinquanta scalini, grigi, rigidi, affilati, che pareva dicessero: — Ci assaggerete. — Si spronò le scarpe, e su, di buon animo. Le barzellette ci aiutavano. Ci divertivamo a inventare dei supplizi atroci per certi critici, amici nostri; uno dei quali fu condannato a guadagnarsi la vita facendo da cameriere in un albergo immaginario che aveva la cucina nel forte di Carlo Alberto, e le sale da mangiare sulla vetta, affollate d'avventori impazienti. Ma la conversazione a getto continuo durò ben poco. Le scale sono uggiose, sempre eguali, rischiarate scarsamente, a intervalli, dalle feritoie altissime e strettissime; scale di convento o di carcere, per le quali uno s'aspetta ogni momento di incontrare dei frati stecchiti, o dei prigionieri di Stato in catene. Passando accanto alle feritoie, vedevamo di sfuggita il forte sottoposto, altre feritoie, altri muri grigi, dei cortili tristi, e di là i monti vicinissimi, neri di pini, che coprivano il cielo. Qualche gocciola birbona, che cominciava a filarci giù dalle tempie, ci preannunziava una camiciata memoranda. Il Giacosa, per distrarsi, prese a contar gli scalini; ma dopo averne contati meno di trecento, sconsolato dal pensiero che ne rimanevano ancora più di tremila, si mise a cercare un altro divertimento. — Andiamo, andiamo, ci dicevamo a vicenda, tutto ha una fine, su questa terra. — E giusto allora, a uno svolto, ci si allungava davanti un'altra così formidabile scala erta e sinistra, che ci guardammo l'un l'altro con quella particolare espressione del viso, che si potrebbe chiamare: il sorriso del terrore. Ma il sergente che ci andava dinanzi snello, salendo gli scalini a due, a tre alla volta, come una creatura indipendente dalla legge di gravità, asciutto in viso che pareva arrivato allora con la funicolare, ci tirava su per il gancio dell'amor proprio. Certi tratti di scala eran più chiari, e ci si saliva con piacere; altri, oscuri come gallerie di strada ferrata, pareva che entrassero nelle viscere della montagna, e ci obbligavano a tastare il muro con le mani. L'aspetto singolare del luogo ci attirava: la luce fioca, il colore delle pareti e delle vòlte, la solitudine, la tristezza, mi richiamavano alla mente l'Escuriale. A ogni pianerottolo, soffermandoci a pigliar respiro, vedevamo da una parte una scala interminabile che ci si sprofondava sotto i piedi, perdendosi nel buio, e dalla parte opposta un'altra scala senza fine di cui la vòlta nascondeva la sommità, alla quale pareva che non si potesse arrivar che strisciando. E sali, e sali. Agli scalini rettangolari succedono gli scalini inclinati, alle branche a scala, le branche piane, poi ricominciano gli scalini, poi tornano da capo gli anditi lisci che salgono dolcemente, con gli scalini appena segnati da liste di pietre. In uno di questi tratti ci soffermammo, assaliti da un orrendo sospetto. — Contano nei quattromila, domandammo al sergente, questi scalini senza rilievo? — Oh no, signori! — rispose con uno spietato sorriso il bravo giovanotto. — Ma allora non li facciamo! — noi gridammo. — Siamo truffati! Non eran nei patti questi altri! — Ma un'umile rassegnazione succedette subito a quell'impeto vano di sdegno e ci rimettemmo la inesorabile scala tra i piedi. Trasudavamo come due girasoli e soffiavamo come due mantici. Dalle feritoie ci venivano nelle costole dei soffi d'aria gelata, che ci facevan correre dei brividi maledetti sotto la pelle. Di tanto in tanto ci sentivamo sonar sotto i piedi il tavolato d'un ponte levatoio, messo là per tagliar la via agli assalitori nel caso di una difesa disperata all'interno. Sul nostro capo, lungo la vòlta, correva il filo del telefono che trasmette gli ordini del comandante ai presidii dei forti superiori. A destra e a sinistra, c'eran degli enormi anelli di ferro, confitti nei muri giganteschi, per farci passar le corde con le quali si tirano su i cannoni, anche i più grossi, rapidamente. Ma noi non badavamo gran fatto a tutto questo, occupati come eravamo a regolare sapientemente la nostra non soave respirazione. Avevamo una palla da cannone da dodici attaccata ai piedi, e le ginocchia ci ballavano sotto, con dei movimenti curiosissimi da cerniera di schiaccianoci, nei quali non aveva la ben che minima parte la nostra facoltà volitiva. In molti punti la scala era disfatta per lunghi tratti e il suolo tutto ingombro di calcinacci e di sassi, e ripido da doverci posare i piedi ben pari, per non fare uno sdrucciolone che ci avrebbe levato la penna di mano per un trimestre. Qua e là pareva che la scala s'impietosisse, gli scalini si schiacciavano, si saliva per qualche minuto cristianamente; ma poi, a una giravolta, ricominciava una scalinata da patibolo, che ci rompeva le articolazioni delle cosce. Ci eran delle branche di scala che sarebbero arrivate in linea retta dal pian terreno ai tetti di uno dei più alti casoni di Napoli, e delle branche corte, ma disagevoli in compenso, rotte, buie, maligne, che riuscivan più lunghe delle altre. E com'era tutto ingegnosamente combinato per far dell'ascensione un supplizio! Avremmo voluto riposarci un poco, di tempo in tempo; ma le feritoie eran così fitte, che in qualunque punto ci soffermassimo, subito ci veniva addosso uno spiffero, una frecciata di vento autunnale, che ci mormorava all'orecchio: Che cosa desidera? Una flussione ai denti? Un reuma alle reni? Una polmonite? Un accidente? e ci spingeva su, come un aguzzino. E noi su, e avanti, stronfiando, con le gambe di piombo, con cento rivoletti deliziosi che ci s'incrociavano sulla schiena e sul petto, e con la testa ciondoloni, come dei malati d'amore. Mi ripassava pel capo quel brutto sogno del padre Dombey nel celebre romanzo del Dickens, quando sale le scale di casa sua, per ore e per ore, e si trova sempre nel medesimo punto, e una certa acqua forte, del Goya, se non sbaglio, dov'è rappresentato un giovanetto, un puntino nero, che sale su per una montagna prodigiosa, in vetta alla quale non arriverà che invecchiato. Che scala con l'effe, corpaccio d'un cane! bisognava ripetere a ogni gomito. — L'unica consolazione, diceva quel capo ameno del sergente, è di pensar che è sicura. — Salivamo adagio adagio, tacendo per lunghi tratti, con tutte le apparenze d'una profonda venerazione per il luogo, come se salissimo per le scale d'una reggia, in cima alla quale ci aspettasse un monarca d'Oriente, col nostro destino nel pugno. Per un pezzo c'eravamo confortati con dei versi, e bastandoci ancora la lena, avevamo cominciato a dire degli esametri; ma poi via via che s'accorciava il respiro, eravamo venuti stringendo i metri, fino a non recitar più che il famoso sonetto francese Frêle, Belle, Elle Dort! e infine ci parvero troppo lunghi anche questi. Gli stessi _calembours_ cadevano a terra spossati appena sfuggiti dalla bocca. Per le feritoie vedevamo giù dei pezzetti verdi di valle, dei tratti bianchi di strada su cui si movevano delle figure umane minuscole; e a pochi metri da noi, per aria, delle fortunate secchie di muratori, che andavano e venivano in tre quarti d'ora dalla sommità della fortezza al fondo della valle, sospese a due fili di ferro, mossi da un congegno a pulegge. A quando a quando, sentivamo parlare degli operai genovesi e lombardi, che lavoravano di fuori, invisibili a noi. Due o tre volte, ci raggiunsero per le scale e ci passarono accanto dei soldati che portavan dei sacchi e dei cesti, e li seguitammo fin che sparvero in alto, con uno sguardo pieno d'invidia per la loro leggerezza ventenne. Poi tutto ricadeva nel silenzio, e alle scale succedevano le scale vuote, mute, tetre, interminate. Il sergente, per alleggerirci il supplizio, ci raccontava la storia d'un asino maraviglioso, morto da poco, cieco, poveretto, il quale faceva più volte al giorno quella salita, portando provvigioni ai forti alti, di dove ridiscendeva per quelle medesime scale, sempre solo, senza romper nulla, e senza sbagliar mai il cammino. Il racconto era commovente; ma noi invidiavamo troppo quell'asino. E continuavamo a salire, ansanti e sgocciolanti, raffigurandoci lo spettacolo di quella strada segreta nei momenti d'una difesa suprema, colorata di fuoco dalle torce a vento, fracassata dalle bombe, scossa dagli scoppi dei magazzini, intronata dagli urli delle mischie, e corsa da rigagnoli caldi di sangue, cadenti giù nelle tenebre, di scalino in scalino, a intepidir le guance dei moribondi.... Ma anche l'immaginazione sfiatava. Per riposarci qualche momento, senza sfigurare in faccia al sergente, ci soffermavamo come per ammirare la valle. Che bellezza! O meglio, quante bellezze! Avevamo una grande passione per il paesaggio. Ma un suo sorriso rapidissimo ci mise un amaro sospetto, che ci impedì anche quei brevi riposi. — Signori! esclamò il sergente a un certo punto, non ce n'è più che ottocento! — Poh! rispose il Giacosa, è una miseria. — È niente per noi, soggiunsi, con un anelito. — Ma poi scoppiammo in esclamazioni, in imprecazioni violente, tirando giù tutti i personaggi del Calendario, passandoci intorno al collo il fazzoletto inzuppato, furibondi contro Carlo Emanuele III e tutti i suoi ingegneri. Espressi però al Giacosa la mia meraviglia di vederlo uscir dai gangheri anche lui, appassionato alpinista. — Ma che storie! — rispose, — chi sale, sagra; ho sempre visto così. — Oramai le piante dei piedi s'inchiodavano nella pietra, le gambe ci rientravano in corpo, e le braccia ci spenzolavano come due cenci: chi ci avesse visti dal basso, ci avrebbe presi per due malati di spina che si trascinassero ad un santuario di montagna a domandare la grazia. L'aria soffiava sempre più viva, e portava delle buone fragranze di piante resinose; il paese che si vedeva dalle feritoie, doveva essere stupendo; ma noi non badavamo più a nulla. Eravamo pervenuti a quel periodo stupido della fatica, nel quale, anche a sentirsi mettere sulle spalle tutto il vocabolario della Crusca, non si avrebbe più fiato in corpo da protestare. E andavamo su, per forza d'inerzia, col mento sul petto, con la lentezza funebre degli incappati di Dante, quando il sergente, che era d'un lungo tratto più avanti di noi, ci gridò: — Ancora un quarto d'ora. — Io capii tre quarti, e voltandomi verso il Giacosa che era molto più in giù, gli domandai con voce lamentevole: — Ha detto tre quarti? — E il Giacosa mi rispose con voce tonante: _Uno_ ei gridò, e d'un angelo Mi parve la sua voce! Ricominciammo a salire, rincorati, a salire.... a salire.... Ma caspita! Era un quarto d'ora ardito, o gonfio, come dicono i toscani. Non si finiva più. Era troppo oramai. Era un prodigio quella scala. Si sarebbe saliti per tutta la vita, dunque. E appunto mentre si diceva questo, una nuova branca infinita ci si drizzava davanti, di centinaia di scalini, soffocata da una vòlta bassa e lugubre che s'immergeva in una oscurità lontana di spelonca.... Abbiamo da continuare, ci domandammo con voce fioca, seguitando a salire, dobbiamo crepare onoratamente per via, o affrontar l'infamia di una seduta? — Ci siamo, finalmente! — gridò in quel momento il nostro duca, da una porta altissima, segnata da una riga luminosa. E allora lo raggiungemmo in pochi minuti, ed uscimmo all'aria aperta, sopra uno spianato battuto dal sole, in faccia alle montagne; e alzando gli occhi per cercar la cima del forte, ci vedemmo dinanzi un'altra serie sterminata di scale, che si perdevano in mezzo alle rocce. * * * Per qualche momento tutto quel bianco delle pietre battute dal sole ci levò il lume degli occhi. Poi ripigliammo la salita per la scala chiamata _reale_, costrutta sopra la vòlta della strada coperta; una bella scala di pietra da taglio, per la quale salivano i re di Sardegna, andando a visitare i forti della cima. Neanche quella salita era dolce; ma per la varietà degli spettacoli, piacevolissima. Si passò in mezzo a un gruppo di case, simile a un villaggio, con la sua chiesetta imbiancata, per vicoli tortuosi fiancheggiati d'alti muri, per anditi umidi e bui, per piazzette allegre, piene di luce, sempre salendo; e poi si attraversò un luogo stranissimo, cento volte più strano e più bello delle più bizzarre immaginazioni dei romanzieri medievali. Da un passaggio oscuro, aperto dentro a una roccia isolata, si riesce sopra un ponte levatoio, da cui si vedono precipitare a destra e a sinistra, sotto gli archi di due _capponiere_ aeree, i fianchi ripidissimi del monte giù fino a una profondità dove non arriva lo sguardo; e passato il ponte, s'entra in un altro passaggio oscuro, scavato in un'altra roccia isolata e murata come un castello, dalla quale si sbocca sopra un altro ponte levatoio, disteso come il primo tra due abissi, in mezzo ad altre due _capponiere_ sospese nel vuoto; e poi da capo un'altra roccia, e poi di nuovo un altro ponte: tre bicocche solitarie di tre feudatari fratelli, alleati, ma diffidenti. Del rimanente non si raccapezza nulla. I magazzini, le casematte, le batterie, le scale oblique, i passaggi, gli sbocchi, presentano una tale apparenza di confusione, che neanche un ingegnere militare, in una rapida visita, credo ne caverebbe molto costrutto. Si sale, si sale sempre: questo lo ricordo assai bene. Per le porte semiaperte si vedono i magazzini pieni riboccanti di granate cilindriche, di granate sferiche, di scatole di mitraglia, di _shrapnel_, di bombe, che han l'aria d'aspettare, annoiandosi, il giorno di far del chiasso. Qua e là, dai loro stanzini aperti verso l'interno, della forma di tempietti, i cannoni enormi allungano il loro collo orribile fuori delle finestrelle quadrate, come guardando curiosamente nella valle, se c'è dei mal capitati da rimandare a casa. Dei robusti soldati d'artiglieria andavano e venivano tra le batterie e i magazzini, sbrigando le faccende domestiche di quella strana casa che riceve così male i suoi visitatori quando si presentano in troppi; scopavano le scalette, tingevano in nero delle vecchie granate, ammucchiavano dei ciottoli da tiro, battevan la mano sui cannoni, passando; parevano affezionati alla loro fortezza, come i marinai al naviglio, e contenti di lavorar lassù, in quell'alta solitudine, nella freschezza odorosa del vento. Passo passo, eravamo saliti dal forte di San Carlo al forte dei Tredenti, dai Tredenti alla ridotta di Santa Barbara, da questa a quella di Sant'Antonio, e poi al forte di Sant'Elmo; e finalmente, dopo un'altra buona pettata, toccammo il Forte delle valli, il quale non ha più sul capo che il cielo. * * * E là fummo ricompensati ad usura dei nostri.... non nobili sudori. La valle profonda che vaneggia sotto, come una voragine, e per cui lo sguardo va diritto, e come imprigionato fra le vette, fino alla pianura lontanissima, dove si vedono le macchie bianchicce delle città bagnate dal Po; quelle montagne superbe che sorgon di faccia, l'Albergian fra le quali, vestite di foltissimi boschi neri, coronate di nuvole bianche, e come squarciate da valloni scoscesi e selvaggi, per cui dirocciano le acque simili a rigagnoli d'argento fuso; e più lontano gli altri monti altissimi e brulli, sfumati di mille tinte cinerine; e tutto in giro, alle falde dei monti, e pei colli, quegli innumerevoli piccoli scacchi delle coltivazioni, tutti eguali di grandezza, ma svariati di cento colori giallastri, verdi, rossicci, dorati, che paion parati di velluto e di seta distesi per una festa misteriosa da un popolo sconosciuto; ecco uno spettacolo grande, severo, strano, triste e bellissimo, che leva l'animo in alto come un inno di guerra accompagnato da una musica sacra. Tutta quella varietà di grandi linee ripide, e come violentemente spezzate, quegli angoli enormi, quelle verticali temerarie, quei contorni grandiosamente disordinati come d'un ammasso formidabile di macigni precipitanti, dànno l'immagine d'un linguaggio muto che dica cose solenni e tremende, le quali si sentano confusamente, senza comprenderle, ma che, comprese, ci farebbero tremare le ossa, come la rivelazione d'un mistero sovrumano. Giù, vicino alla città, si vedon sopra un'altura le rovine sparse del forte di Mutino, eretto da Luigi XIV. Dalla parte opposta, alle spalle della fortezza, al livello quasi del forte delle valli, di là da un altissimo ponte levatoio, si stende con un dolce declivio verso Fenestrelle la vasta prateria che il Catinat rese famosa, svernandovi con diecimila soldati nel 1692; una bella distesa di verzura, che par fatta per la parata d'un esercito, e che nel mese di giugno si smalta tutta di fiori meravigliosi, che le dan l'aspetto d'un immenso tappeto turco, spiegato per un ballo di regine. Dalle due parti della fortezza, i fianchi del monte van giù quasi a picco, irti di pini e di abeti, che s'arrampicano su fino ai piedi delle cortine, come per dar la scalata. Si vedono i villaggi in fondo alla valle grandi come la palma della mano, e popolati di formiche; e il Chisone e la strada, come un nastrino argentato e un nastrino bianco, che serpeggiano un tratto l'uno accanto all'altro, e poi si nascondono fra i monti. Il grande silenzio del luogo era appena turbato dal brontolìo fioco del torrente, quasi vergognoso della sua misera vena d'acqua in mezzo a quelle maestose immagini di grandezza e di forza. Le montagne erano già velate qua e là di vaste ombre; dei grandi boschi s'andavano immergendo in una oscurità paurosa; altri, dorati dal sole, trionfavano; e mentre pei villaggi delle gole faceva notte, delle case romite, a grandi altezze, brillavano come accese. Il giorno moriva con un sorriso dolce e malinconico, e in cima a un bel colle a ponente, si disegnava come un piccolo tratto nero sul cielo, la più bella, la più memoranda, la più amata cosa di quante ne abbracciavamo con lo sguardo: il monumento ai morti dell'Assietta. * * * Ma che rimbombi dell'altro mondo debbono avere là dentro le cannonate! Ci deve parere il giorno del giudizio, soltanto quando salutano gentilmente l'anniversario della Regina Margherita. E ne ha sentito del baccano, in vita sua, quella piccola valle, di cui tanti italiani non conoscono neppure il nome. Il mio amico ed io ce ne siamo fatti un'idea appuntando il nostro vecchio cannocchiale di sognatori nel vano d'una cannoniera, la quale tagliava proprio nel fondo della valle un piccolo quadrato verde, attraversato da un pezzetto di strada e da pochi palmi di torrente. Abbiam visto passar prima una moltitudine confusa, con grandi trombe curvate in cerchio, e con elmi di bronzo ornati di lunghe penne nere, armata di lance corte, di daghe tozze, di grossi archi, di larghi coltelli e di fionde, e nel mezzo un'asta altissima, sormontata da un'aquila romana; e ci parve l'esercito di re Cozio, alleato dell'Impero, che si spingesse fin là ai confini del suo Stato, _finis terrae_, ad esplorare i monti minacciati dai Galli. E poi vedemmo scendere dai monti un'altra fiumana d'armati, più ferrati e più gravi, balestrieri d'alta statura, cavalieri dalle barbute lucenti, scudieri dai lunghi giachi, fanti carichi di frecce a quattro ali e coperti di scudi di cuoio; e dalle grida acutissime che arrivavano fino a noi, giudicammo che fosse l'esercito del Delfino di Vienna che irrompeva contro Umberto il Beato di Savoia, seminando sui suoi passi l'incendio e la morte. E a questa tenne dietro un'altra moltitudine in tutto diversa: i seguaci di Valdo cacciati di Francia, un affollarsi di donne, di vecchi, di giovani, di bimbi, carichi di robe, seguiti da carrette sfasciate e da giumenti sfiniti, una fuga compassionevole di miserie, d'angosce e di terrori, che si sparse e si perdè in breve tempo su per le rocce dei monti e nell'oscurità dei burroni. E poco dopo, un alto frastuono di tamburi e di trombe, un giovane re baldanzoso, dal gran cappello piumato, caracollante dinanzi a una folla di gentiluomini, una selva di lance imbandierate, cannoni e colubrine tirate da lunghe file di cavalli e spinte a forza di braccia, e picchieri, alabardieri e archibugieri, tipi normanni, picardi, guasconi, borgognoni, svizzeri, vestiti di assise strane e pompose, l'esercito splendido e insolente di Francesco I, che calava sopra Pinerolo, empiendo la valle di grida allegre e di canti. E sparito quest'esercito, un accorrere improvviso di batterie, un saltellìo concitato di cappelli a tre punte e di code di parrucca, un gridìo d'ufficiali, un frastuono confuso di bestemmie piemontesi, e Vittorio Amedeo che incalzava gli artiglieri con la spada, accennando il forte di Mutino, meta di tutta quella furia di uragano. E infine, due processioni opposte di gente, che venivan di Torino e di Francia: gli ospiti forzati della fortezza; il viso spaurito del cardinal Pacca affacciato allo sportello d'una carrozza; personaggi di Stato caduti in disgrazia all'_uomo fatale_, pallidi e insonniti sotto le parrucche scarmigliate dai disagi del viaggio; cortigiani malfidi o insolenti dei Re di Sardegna, scortati dai classici lucernoni dei carabinieri; e la folla vermiglia e triste dei Garibaldini di Aspromonte; e frammisti a tutti costoro, centinaia d'ufficiali d'ogni età e d'ogni corpo, mandati in villeggiatura a Fenestrelle a meditare il regolamento di disciplina, seguiti per via da sospiri dolorosi di babbi, di creditori e d'amanti.... Che bel luogo, per bacco, proprio fatto apposta per venirci a espiare i peccati del carnovale! Che paturne tutti quei poveri uffiziali, quando guardavano col viso contro i vetri la neve che calava a fiocchi serrati sulla valle bianca e deserta, pensando alle belle signore del _Teatro Regio_ e ai veglioni chiassosi dello _Scribe_! * * * Levammo il cannocchiale dalla cannoniera, e ci rimettemmo a guardare la fortezza, la quale è anche più bella e più strana vista di lassù, che guardata dal basso. Si vedon tutte quelle rocce e quei muri che vanno giù come a salti, a trabalzi, a brusche svoltate, presentando mille angoli e scorci di ridotte, di piattaforme, di ponti, di vôlte, di strade tortuose, di fossati profondi, ma così tutto erto, stretto, chiuso, spaurevole, che a un nemico d'Italia salito là, dovrebbe riuscir molesto fino il pensiero di avere un giorno tra i suoi rampolli un generale incaricato dell'investimento. Non è possibile, guardando al basso, sprigionar la mente dall'immaginazione d'una lotta tremenda, tanto ogni forma e ogni aspetto del mostruoso edifizio esprime possentemente la minaccia, la resistenza e la morte. Sempre par di sentire ruggire di sotto le batterie, o di veder tra le rocce e le casematte rimbalzare le granate degli assedianti sollevando tempeste di schegge, e soldati boccheggiar per le scale, e giù nella valle, e pei fianchi dei monti, saltar in aria cassoni d'artiglieria, e masse di truppa sbaragliarsi urlando per i boschi, sparsi d'affusti stritolati e di membra umane. E si gode a pensare che tutta quella forza immobile e salda, che quella montagna pregna di fulmini, è nostra, veglia alle porte di casa nostra, pronta a vomitare l'inferno al primo grido d'allarme. Si gode a palpare amorevolmente le pietre della cannoniera a cui s'è appoggiati, estendendo la carezza col pensiero a tutto il lunghissimo mostro accovacciato, e dicendogli: — Buona guardia, vecchio gigante solitario. — Ma non è già solitario il vecchio gigante. La sua solitudine non è che apparenza. Egli ha delle corrispondenze segrete e degli accordi misteriosi. Ha dei fratelli, dei figli, delle avanguardie ardite, delle vedette perdute nelle nebbie, delle sentinelle morte che sporgono il capo fra le bricche lontane, una famiglia invisibile di là, muta e vigilante come lui; e ad un cenno suo, altre cime di monti lampeggiano, altri dirupi fumano, altri valloni rimbombano. Ah! è un'orchestra bene affiatata, un concerto, vi assicuro io, da far tremare le budella in corpo anche ai più arditi. Ora sta qui, mogio, cogli occhi socchiusi, a fare il gattone, godendosi il caldo del sole. Ma vi consiglio di lasciarlo in pace. Come dev'esser bello, come deve tramutarsi tutto in un lampo al primo sentore della polvere! Ecco, un brivido acuto trascorre dal forte delle valli giù fino al fortino di Carlo Alberto, un ronzìo come di enorme alveare si spande per tutti i meati, i soldati precipitano e risalgono per le cento scale come caprioli, i cannoni di rinforzo s'arrampicano rumoreggiando su per la strada coperta, i colossi di acciaio avanzan la testa sui precipizi, le feritoie si animano di sguardi umani, i fili elettrici parlano, le casematte si spalancano, i ponti cigolano, le bandiere s'innalzano, mille occhi e mille mani scrutano, tastano, raffermano, serrano, sbarrano.... E poi succede un profondo silenzio, nel quale tutti si scambiano con lo sguardo un solo pensiero: — Fino alla morte! * * * Di lassù si ridiscese alla ridotta di Sant'Elmo, in compagnia di alcuni bravi sott'ufficiali, e si entrò in una curiosa cantina formata da uno stanzone lungo e affumicato, con un palco a tetto di grosse travi, bassissimo, da cui spenzolavano delle pelli di capra piene di vino: un quissimile d'osteria da quadro fiammingo, tenuta da un cantiniere singolare, un tipo da Steen, punto cerimonioso, come s'addice a un cantiniere di fortezza, e grave, come se avesse proprio lui nelle tasche le chiavi delle porte d'Italia. Eppure mi parve che ci si dovesse provare un certo gusto a star là appallottati accanto al fuoco, con un pipone in bocca, le sere d'inverno, quando fa un freddo da spaccar le pietre, ed urlano per i monti le fiere immaginarie del cardinal Pacca. Rimanemmo là un pezzo, trattenuti, come dice il Boccaccio, dalla “piacevolezza del beveraggio„ e dalla conversazione arguta dei nostri ospiti. Uno dei quali, particolarmente, un furiere còlto e cortese, ci fece un'uscita amenissima. Domandato di che provincia fosse, ci disse il nome d'un comune del Piemonte, soggiungendo: — Dove villeggiò il tal dei tali. — E il villeggiante, per l'appunto, era uno di noi due. Ma avendogli detto l'altro: — Eccolo qui il tal dei tali. — Che! rispose lui, facendo un gesto molto espressivo, _non lo credo neanche se mi dànno centomila lire_. — Non avendo la somma disponibile per tentare la prova, si cercò di persuaderlo per altre vie, e dopo molto stento, ci parve di esserci riusciti; ma tanto egli continuò a guardarci tutti e due con un certo risolino diffidente, come se volesse dire: — Eppure, loro signori m'hanno l'aria di due famosi _farceurs_! — Un compagno suo, meno incredulo, ci raccontava intanto le piccole maraviglie dei piccioni del forte. Egli era incaricato di ammaestrarli. Portava con sè ogni settimana il suo gentile drappello alato in villaggi di volta in volta più lontani, dava loro il largo in mezzo a una piazza, e poi se ne tornava a Fenestrelle, dove i suoi allievi erano arrivati molte ore prima di lui, dopo aver percorso ottantamila metri in sessanta minuti. Raramente arrivavan tutti; alcuni cadevan per viaggio, fulminati dai cacciatori; altri si smarrivano, o andavano in cerca d'avventure, e giungevan più tardi; ma la maggior parte, dopo fatto qualche giro incerto sopra la piazza, infilavano la via diritta e tornavano alla fortezza d'una volata sola. E il sergente ci indicava dalla finestra, giù nel forte di San Carlo, la sua colombaia, non dicendo, ma pensando forse con ragione: — Faccio anch'io qualche cosa per il mio paese: gli educo dei servitori utili, disinteressati e fedeli. * * * Dal forte di Sant'Elmo scendemmo per una strada esterna, che fa trentasei svolte a traverso a un bosco di pini cembri, in mezzo a cento varietà di campanule, di serpilli, di scabiose, di fiori alpini d'ogni colore, alla vista dei quali, essendo la strada ineguale e sassosa, dovetti rinunciare, con grande rammarico, per dedicarmi tutto quanto alla conservazione della mia dignità verticale. Alla _Rosa rossa_ trovammo una tavolata di gente della montagna, che discorrevano ad alta voce nel loro bizzarro dialetto, misto di piemontese, di francese e di provenzale, non sgradevole all'orecchio, e pieno di immagini colorite. Parlavan d'ufficiali francesi travestiti, che gironzavano nei dintorni. Là, vicino alle frontiere, il sentimento patrio è costantemente eccitato dalla memoria sempre viva delle guerre francesi, e più da quello incrociarsi di piccole curiosità sospette, di piccole diffidenze e di dispetti, che è quasi continuo fra le terre confinanti di due grandi Stati, anche in tempo di buon'armonia. Vi si parla quasi sempre della guerra, come d'un avvenimento non solo probabile, ma vicino. E ciascuno vigila per conto proprio. Il servizio d'informazione si compie spontaneamente con una così oculata prontezza, che se un forestiero di dubbio aspetto fa colazione la mattina alle nove in un'osteria del confine, al forte si sa che cos'ha mangiato prima del cadere del sole. Il forte è l'oggetto di tutti i discorsi, l'argomento che casca sul tappeto a tutti i propositi, l'immagine che s'alza dietro a tutte le immagini, come nei villaggi marittimi il mare. I fenestrellesi lo guardano e lo accennano con un'espressione mista di rispetto, di affetto e d'alterezza. Sono ancora vecchi piemontesi del tempo di Vittorio Amedeo II e di Carlo Emanuele III, affezionati ai loro monti, alteri delle loro tradizioni, soldati in ispirito, devoti alla dinastia, e bevitori cordiali di un vino limpido e schietto, che fa sgorgare dai loro cuori in note stridule e gaie la canzone patriottica dell'Assietta. Con che piacere siamo stati un'ora in mezzo a loro, a sentirli ragionar della difesa d'Italia con un sentimento di fede e di orgoglio! E come son belli sempre quei piccoli alberghi di cittaducce solitarie, coi loro cortiletti ingombri di barroccini colle stanghe all'aria, pieni di gente e di strepito all'arrivo delle diligenze, e profumati di arrosto e di fieno, e risonanti di latrati di cani e di nitriti di cavalli. Quando si riparte a notte fitta, con la lanterna accesa e con le coperte sulle ginocchia, le schioccate d'avviso del vetturino fan sempre nascere un rimescolìo: i bimbi accorrono, gli avventori s'affacciano alle finestre col tovagliolo al collo, le ragazze della casa vengono ad augurare il buon viaggio, e i saluti hanno qualche cosa di cordiale e di poetico, che non si ritrova da nessuna parte viaggiando per le strade ferrate. Questo dicevamo, il mio amico ed io, percorrendo rapidamente la lunga via maestra di Fenestrelle, allegri e soddisfatti della nostra giornata; ma lo spettacolo della enorme fortezza nera che disegnava i suoi contorni superbi sul cielo stellato, ci fece tacere improvvisamente. E s'espresse forse nell'animo di tutti e due con le parole medesime il saluto silenzioso che le mandammo entrando nell'oscurità della valle. Addio, bella ròcca italiana, baluardo fidato delle nostre Alpi! Noi forse non ti vedremo più. Ma tu starai dopo la nostra vita, e dopo quella dei nostri figli, e dei figli loro, guardiano immobile e superbo della nostra indipendenza e del nostro onore. Affòrzati ancora, e continua a dilatar le tue membra, come un adolescente titano. E se verrà il giorno della prova, possa essere per te un giorno di gloria splendida e pura come la neve delle tue montagne quando vi batte il sole di primavera, e il tuo nome diventi sacro alla patria, e da tutti i cuori d'Italia si levi il grido della gratitudine a benedire le pietre dei tuoi bastioni e il sangue dei tuoi difensori. EMANUELE FILIBERTO A PINEROLO Il signor Giovanni Battista Lombriasco, notaro di Pinerolo, buon cristianaccio, scarso di clienti e di fortuna, ma assestato nei suoi affari, onesto fino alla dabbenaggine, patriotta di cuore, infarinato di latino, e ancora forte e florido benchè scendesse già dalla parte peggiore della sessantina, era tutto glorioso quando si poteva mostrare sul terrazzino del suo piccolo quartiere di piazza San Donato in compagnia di Don Enrique de Benavides, nobile catalano, suo cliente. E non gli passava nemmeno per il capo che i maligni potessero attribuirgli il matto proposito di convertire il cliente in genero. — “Tanto non lo accecaua la uanità di padre che a tale sposalitio potesse riuolgere sue speranze.„ — Così dice (e io ci credo) uno scartafaccio giallognolo, pieno di raspatura di gallina, col quale un nipote del buon notaro intese di mandare alla posterità un “caso molto mirabile„ seguìto nella sua famiglia; scartafaccio che dormì per più di tre secoli, sotto molte altre carte mal decifrabili, in mezzo agli atti consolari della città di Pinerolo. Il nobile Enrique de Benavides, venuto qui da Gerona per la questione intricata d'una eredità lasciatagli da un parente di sua madre, colonnello francese, non si capisce se Mortier o Mornier, del presidio di Pinerolo, aveva affidato l'affare proprio al notaro Lombriasco per la riputazione d'uomo integerrimo di cui godeva; ma avrebbe potuto attestare alla città intera che un mese e più dopo il primo abboccamento, e quando già s'era stabilita fra loro una certa dimestichezza, il delicato notaro non gli aveva ancora fatto parola della sua famiglia. La relazione era nata per puro accidente. Un giorno che il Benavides stava ad aspettare nello studio notarile, la señorita Evelina, certa di trovarci suo padre solo, era entrata festosamente, d'un salto, tenendo spiegata davanti a sè una stampa che rappresentava la battaglia di San Quintino, e che le era arrivata allora per le poste, desiderata da lungo tempo. Visto appena quel signore, aveva fatto l'atto di ritirarsi, vergognandosi e chiedendo scusa; ma era rimasta come inchiodata là dalla maraviglia e dalla gioia quando il signore catalano, letto di sfuggita il titolo vistoso della stampa, aveva detto in tuono di gentile rispetto, e con molta semplicità: — Si occupa della battaglia di San Quintino, señorita? Io ci sono stato. * * * Così il Benavides aveva fatto conoscenza della famiglia; e da quel giorno, ogni volta che usciva dallo studio del notaro, attraversava il pianerottolo per salutare la signora e la signorina; con le quali anche s'intratteneva sovente. La signora, già tutta grigia, sempre malata, non apriva bocca che di rado, con un sorriso triste, un poco vergognata di non saper parlare l'italiano, che il Benavides parlava assai bene, benchè “prononziando„ dice il manoscritto “al modo delli spagnioli.„ La signorina, invece, interrogava continuamente, e l'oggetto delle sue interrogazioni era sempre il medesimo. Come ogni piemontese d'allora, al quale non mancasse affatto il senso dell'alterezza e dell'amor di patria, essa aveva un'affettuosa, profonda, appassionata ammirazione per Emanuele Filiberto. Nata sotto la dominazione straniera, della quale aveva potuto vedere fin dall'infanzia gli effetti miserevoli; educata da suo padre, un po' corto ma generoso d'animo, alla pietà e all'amore del suo paese oppresso, smembrato, impoverito da spagnuoli, da svizzeri e da francesi; facile per gentilezza innata ai grandi entusiasmi, aveva cominciato a venerare il duca di Savoia all'età di dieci anni, quando aveva visto la sua città fremere di gioia all'annunzio sfolgorante della vittoria di San Quintino; e la sua venerazione giovanile per quel principe glorioso che dai confini di Picardia faceva balenare come una speranza la sua spada vincitrice alla patria lontana, le era venuta crescendo nel cuore, coll'ingigantire di quella gloria, fin che oramai essa viveva tutta di quell'affetto, e della fede di veder entrare un giorno nella sua città rifatta libera e piemontese il “grande„ duca di Savoia. Suo padre si ricordava d'averlo visto a Nizza nel 1535, un anno prima della caduta di Pinerolo, in compagnia di Aimone di Ginevra, barone di Lullins, suo precettore, quando non aveva che sette anni, e lo chiamavano il cardinalino, perchè destinato al sacerdozio; e lo descriveva: piccolo, gracile, d'aspetto pensieroso e nobile. Ma non poteva dare null'altro in pasto alla curiosità ardente della figliuola, smaniosa di ragguagli minuti intorno al capitano, al sovrano e all'uomo; e però essa affollava di domande, timide, ma incalzanti, lo straniero benvenuto, facendosi rimproverar sovente da sua madre, alla quale pareva poco conveniente a una ragazza e poco rispettosa per un nobile quella perpetua interrogazione. No, a lei non pareva possibile che quel signore, col quale parlava, avesse proprio veduto e inteso parlare Emanuele Filiberto a pochi passi di distanza, su quel campo di battaglia famoso, dov'egli aveva tenute in pugno e decise le sorti della Spagna e della Francia, pigliando in una sola formidabile retata tutto il possente esercito del conestabile di Montmorency. Era nondimeno vero, grazie a Dio; il Benavides, ufficiale a diciott'anni, aveva fatto parte del seguito del barone di Brederode, morto a San Quintino; era stato testimonio dell'atto superbamente ardito del Duca, quando, la mattina del dieci agosto, cacciatesi dentro alla corazza, senza leggerle, le relazioni dei generali che gli stavano attorno, tutti concordi a consigliarlo di non attaccare battaglia, aveva gridato ai trombettieri, alzando la spada: — Sonate l'assalto! — l'aveva visto correre in aiuto, lanciando il cavallo a pancia a terra, ai conti di Egmont e di Pandeveaux, che stavan per essere soverchiati; avrebbe potuto disegnare pezzo per pezzo la sua armatura, e sapeva imitare benissimo la sua pronunzia spagnola, che risentiva più della francese che dell'italiana. Ma dunque, com'era proprio, a ventinove anni, il duca Emanuele Filiberto? Come si moveva? Come guardava? Che voce aveva? E il Benavides doveva ridire per la decima volta le medesime cose. Non alto di statura, saldo e bello delle membra, una testa scultoria, i capelli biondi un po' increspati, due piccoli occhi celesti acutissimi e scintillanti come due punte di spade, la barba folta e corta, il petto largo e sporgente, le braccia atletiche, le gambe leggerissimamente arcate, la voce, il passo, il gesto d'un uomo nato per comandare e per combattere, e per esser più temuto che amato; e pure una grazia meravigliosa d'atteggiamenti e di mosse. Nessuno aveva mai visto sui campi di battaglia un cavaliere più principescamente soldato di lui. Desto e armato avanti all'alba, infaticabile, abborrente dall'immobilità come da una tortura, parchissimo di parole, irremovibile nei suoi propositi, frenava gl'impeti di collera mordendosi a sangue le labbra, dava con un'occhiata o con una parola delle lodi che inebbriavano l'anima, degli ordini che mettevano la furia nelle vene e dei rimproveri che facevano tremare le ossa. Ed era terribile, ma giusto, e rivelava spesso in atti secreti di clemenza la bontà che non si lasciava mai uscire dalle labbra. Chi gli leggeva nell'animo lo amava, timidamente ma con devozione ostinata. Era colto: conosceva il tedesco e il fiammingo; parlava spagnuolo, italiano e francese; sapeva di latino, studiava le istorie, s'occupava di scienze. Gli eserciti che gli avevan posto il nome di “testa di ferro„ lo veneravano pure come un sapiente. Gli spagnuoli lo chiamavano _el sabio_. — O renderà l'anima sopra un campo di battaglia, o rialzerà la monarchia dei suoi padri — dicevano. Fin da quando sotto le mura di Ternaux aveva con una stretta della sua implacabile mano ridisciplinato in un giorno l'esercito tumultuoso di Carlo V, tutti avevan presentito vagamente ch'egli era mandato da Dio a compiere grandi cose. E quando passava per i campi a cavallo, in mezzo a quei baldanzosi reggimenti spagnuoli e fiamminghi, non prorompevano in acclamazioni e in evviva ch'egli non amava, ma gli facevano intorno un vasto spazio e un grande silenzio, in cui si sentiva il suono della sua armatura e il respiro del suo cavallo, e mille sguardi attoniti accompagnavano il suo pennacchio bianco fin che spariva in mezzo alle tende lontane. — Un nobile principe, _verdaderamente_, concludeva il Benavides. — Se la Spagna deve benedirlo, il Piemonte lo può adorare. — E la signorina stava a sentire, immobile, sorridendo per nascondere la commozione, e stropicciando con le dita la borsetta e le forbici che le pendevano dalla cinturina di cuoio; e la sera, quand'era sola nella sua cameretta, alzava il lume davanti a un piccolo ritratto a stampa del duca, e gli diceva ingenuamente, con voce calda e tremola, quello che le dettava l'anima. — Tu ci renderai alla patria, Emanuele Filiberto, non è vero? Tu ti farai restituire la tua città fedele, che non t'ha mai visto, ma che t'ha sempre amato e invocato! Tu ci pensi a noi, tu ci pensasti sempre, tu la vuoi a qualunque prezzo, e la ripiglierai con la spada, se occorre, la tua Pinerolo, non è vero? mio valoroso, mio nobile, mio superbo principe, gloria del nostro sangue e speranza del nostro paese! — Ed era così bella in quell'atto, stretta nella sua veste di lana oscura, con la sua gorgierina di mussola che le s'alzava a ventaglio dietro la nuca, col viso un po' inclinato sopra una spalla, e così grande e così bionda, che se il duca di Savoia l'avesse vista, avrebbe forse proposto a Margherita di Valois una nuova damigella d'onore. * * * Quella sua adorazione per Emanuele Filiberto era il tormento di un suo cugino, Antonio Lombriasco, che faceva le pratiche di notaro nello studio del padre, facendo nello stesso tempo, e con non maggiore profitto, l'occhio pio alla figliola. Il nipote cronista si piglia molto spasso di lui, celiando un poco pesantemente, alla maniera dei novellisti del suo tempo. Lo definisce: “giouine di grosso intendimento e di picolo e poerile animo„ soggiungendo poco dopo “di rideuole aspetto.„ Pare che fosse un mezz'uomo, stentito e vanesio, con un gran naso rincagnato. Persuaso che il duca di Savoia fosse la sola cagione per la quale sua cugina rifiutava come un omaggio molesto il suo giovane cuore notarile, egli aveva preso a odiarlo come un rivale e come un nemico. Quel nome di Emanuele Filiberto, ogni volta che l'udiva pronunciare, gli metteva un bruciore intollerabile alla bocca dello stomaco, e San Quintino era per lui il più infausto santo del calendario. Da principio, per gratificarsi la signorina, aveva finto anche lui una profonda ammirazione per il Duca, e provato a rincarare le lodi ogni volta che glie le sentiva intonare; ma lo faceva di così mala grazia, con una voce così ingrata, che invece di entrarle nel cuore con quell'artificio, s'era fatto pigliare in uggia peggio di prima. E allora aveva mutato registro; s'era ingegnato per un pezzo di scalzare e di abbattere il suo rivale rodendo a poco a poco col dente della critica la sua grandezza e la sua gloria. — In fin dei conti, la battaglia di San Quintino l'aveva vinta con un esercito spagnuolo; la vittoria di Gravelines era principale merito del conte di Egmont; il Piemonte si trovava sempre in pessime acque; Asti e Santhià erano ancora in mano degli spagnuoli; il “grande„ Duca non aveva nè fatto trionfare le sue ragioni sopra Ginevra, nè ritolto alla Francia Pinerolo, Savigliano e Perosa; era certamente un principe “considerevole„ ma non si poteva chiamare ancora “un grand'uomo„; bisognava aspettare dell'altro. — Ma la signorina lo rimbeccava terribilmente. — Tacete! — gli gridava coi denti stretti, tutta vermiglia d'ira, facendo sibilare col suono d'una lama mulinata il suo rapido e vigoroso dialetto subalpino — è la più insensata, la più iniqua delle ingratitudini la vostra. Fin da ragazzo egli s'è consacrato tutto alla sua patria; egli è andato in esilio per noi; egli ha ereditato un paese in pezzi e in brandelli, e ne ha fatto uno Stato; è lui che ha riscattato Torino, Chieri, Chivasso, Villanova, la Savoia, le provincie del Genevese e del Chiablese; è lui che ha fondato l'esercito, lui che ha rialzato le fortezze, lui che ha costrutte le galee che vinsero alle Curzolari, lui che ha riordinato gli statuti, ristorato l'erario, rianimati gli studi, rilevata la dignità nazionale e riacceso l'amor di patria.... scimunito. — L'ultima parola era piuttosto pensata che detta; ma il povero cugino che l'indovinava, ne rimaneva fulminato. E allora, per qualche giorno, tentava un'altra via, la cosa più ridicola di questo mondo, una certa imitazione d'ammiratore, o piuttosto uno scimmiottamento di certe abitudini e qualità esteriori del Duca: si levava presto, andava a giocare alla palla sui bastioni per fortificarsi le membra, sdegnava di aver qualsiasi riguardo per la salute, ruminava dei grandi pensieri, e parlava a monosillabi. E per un po' di tempo l'esperimento non riusciva male. Ma poi, un giorno, un dialogo di questa specie lo rovinava. La signorina domandava: — In che stato sono le strade? — Egli rispondeva: — Fango. — Ma pare che il tempo si rimetta? — Pare. — Potremo andar domani all'Abbadìa? — Forse. — Credete che ci sarà molta gente? — Credo. — Una cordiale risata della cugina lo avvertiva spietatamente che il suo gioco era scoperto, e gli riattizzava in cuore un odio rabbioso contro la _testa di ferro_. E l'aveva trovato, finalmente, il lato vulnerabile del Duca e della ragazza: censurava il Duca come marito, accennava vagamente alle sue amanti, una signora di Vercelli, una Doria, una Beatrice Langosco; e diceva di saperne assai più che non ne sapeva. A quelle uscite, la signorina alzava le spalle, ma corrugando la fronte e chinando il capo, e rispondeva: — Questo riguarda la Duchessa... se è vero.... — Ma le rimaneva una punta nel cuore, e non si tornava a rasserenare che riudendo la voce del Benavides, il quale le ripresentava l'eroe savoiardo nella luce pura della sua gloria. * * * Ma non era possibile che una signorina piemontese appassionata per Emanuele Filiberto udisse parlar lungo tempo del suo idolo un bel gentiluomo catalano di trentacinque anni, senza che le nascesse nel cuore, come un rampollo dell'antica passione, una nuova simpatia. Il Benavides aveva perduto da pochi mesi la madre che adorava. La sua tristezza, aggiunta alla naturale gravità catalana; il pallore marmoreo del suo viso regolarissimo, reso anche più pallido da una capigliatura d'un nero orientale, e da una barba poderosa che gli saliva a metà delle guance e gl'invadeva il collo e le tempie; la dignità gentile dei suoi atteggiamenti e dei suoi modi, la sua voce robusta e melodiosa, le misero a poco a poco una certa timidezza dolce nel cuore. Aveva una strana bellezza quello straniero. Era un colosso, con l'eleganza leggiera d'un giovanetto; i suoi occhi fulminavano, e la sua voce accarezzava; aveva le membra d'un Ercole, e non faceva sentire il suono del suo passo. Passati i primi giorni, quando si presentava nel vano della porta, ch'egli riempiva tutto, e restava un momento immobile con la cappa sul braccio, chinando il mento sul collaretto di trina di Venezia, che gli si allargava sul giustacuore nero, Evelina provava una sensazione nuova e quasi dolorosa, come di due piccole ali che si agitassero rapidissimamente dentro al suo seno. E n'era quasi sdegnata con sè stessa. Il pensiero della grande diseguaglianza che era fra loro di fortuna, di nome, di famiglia, di tutto, le faceva scattare dentro tutte le forze ribelli del suo orgoglio di donna; di quell'orgoglio che soffoca e nasconde come una vergogna l'affetto senza speranza, sul quale potrebbe cader l'accusa di ambizione sciocca e impudente. Il Benavides, dal canto suo, compreso della riservatezza delicata che gli imponeva in quella casa la superiorità del suo stato e la nobile prestanza della sua età ancor giovanile, nascondeva di proposito anche quel naturale sentimento di simpatia tranquilla che la ragazza gli ispirava, e che ad ogni uomo è permesso di esprimere, o di lasciar indovinare, a qualsiasi donna. Il suo aspetto e i suoi modi non significavano che una gentilezza seriamente rispettosa, la quale avrebbe reso impossibile ogni illusione anche nel cervello di una señorita meno assennata e meno dignitosa di Evelina. Egli aveva l'aria di frequentare quella casa perchè ci sapeva di buona gente e non per altro. Era triste; non aveva sorriso; lasciava cascar la conversazione quando non lo interrogavano. Ma per fortuna di Evelina, l'argomento dei discorsi soliti era inesauribile. Dal giorno in cui Emanuele Filiberto, ragazzo, s'era gettato in ginocchio davanti a Carlo V, a Genova, supplicandolo che lo conducesse alla guerra d'Algeri, fino all'anno che correva, 1574, avevano trentadue anni della vita del Duca da ricorrere, trentadue anni pieni d'avventure da epopea e da romanzo, intorno alle quali il Benavides, legato d'amicizia con molti personaggi spagnuoli della Corte e degli eserciti, sapeva mille particolari preziosi, non noti che a pochissimi. Discorreva delle strettezze compassionevoli in cui s'era trovato il Duca al tempo del suo primo viaggio in Germania, della sua vita d'accampamento, quando comandava, appena diciottenne, la cavalleria fiamminga e borgognona contro la lega di Smalcalda, e dell'astio geloso preso contro di lui da Filippo II dopo la battaglia di San Quintino, e dei suoi viaggi avventurosi, quando tornava nei propri Stati e ne ripartiva travestito come un congiurato vagabondo, con l'angoscia nel cuore; e quando pareva che avesse tutto detto, le interrogazioni ingegnose della ragazza gli richiamavano alla mente e gli facevano dire nuove cose. Un giorno raccontava in che maniera avesse salvato Barcellona dallo sbarco notturno dei francesi; descriveva un altro giorno un suo vezzo di stropicciare l'elsa della spada quando s'impazientiva, in modo che tutti i circostanti fissavano la sua mano sinistra con trepidazione; una sera pure, aveva imitato con la penna la enorme e strana firma del Duca, che pareva fatta a colpi di pugnale, ed era fiancheggiata da un lunghissimo tratto nero inclinato simile all'asta d'un'alabarda. E ad Evelina brillava l'anima a quelle notizie, e ad ogni nuovo particolare prorompeva in una viva esclamazione; e poi rimaneva un momento pensierosa, come per risentire dentro di sè l'eco della voce che aveva parlato; e in quei momenti teneva l'occhio fisso sul cappello di feltro scuro del Benavides, appeso alla spalliera d'una seggiola; intorno al quale girava una penna nera di struzzo, fermata sul davanti per mezzo d'un piccolo anello d'oro ingemmato: un ricordo della madre morta. * * * Il solo che riuscisse qualche volta a far sorridere il Benavides era il vecchio Lombriasco, con le sue tirate di politica internazionale. Dopo che aveva l'onore di quella nobile clientela spagnuola, si dava per grande partigiano della Spagna; ciò che feriva il senso delicato della figliuola, la quale si ricordava d'averlo inteso molte volte inveire con alte declamazioni contro “il mostro insaziabile„ che divorava la Lombardia dalla Sesia all'Adda, e i regni di Napoli e di Sicilia e di Sardegna, e i presidii toscani “che Dio lo faccia tristo.„ Ma il notaro non badava agli scrupoli della ragazza. — La Spagna, care mie! — esclamava, voltandosi alla moglie e alla figliuola, con la coda dell'occhio verso il cliente; — ecco la nostra alleata naturale, necessaria, perpetua. _Nuestra amiga_. La protettrice provvidenziale dei Duchi. Chi aveva divinato il genio guerriero di Emanuele Filiberto se non Carlo V? Chi, se non Filippo II, gli aveva fornito i mezzi di farsi glorioso e potente a benefizio del suo paese? Chi aveva imposto nel trattato di Cambray la restituzione del Piemonte, con la minaccia di ricominciare la guerra? La Corte di Madrid, insomma, non aveva mai abbandonato in tutto neppure Carlo il Buono. Aveva preso la sua parte, ma senza violenza. Si poteva dire che “usurpava„ più per necessità che per cupidigia. Gli facevan scrollare le spalle i fiorentini, i veneziani, i genovesi, e gli sforzeschi e gli estensi con le loro tenerezze francesi, manifeste o coperte. Non erano che sfoghi di dispetto, gelosia del colosso, una gran voglia d'esser liberi per fare alto e basso e mettere il mondo a soqquadro con le loro matte ambizioni. Naturalmente, non poteva patire la Francia; e in questo era sincero. Ah sì! La vista d'un francese gli metteva il cuore a traverso. Ma, in realtà, quella sua furiosa avversione derivava anche in parte da un suo rancore privato: dal fatto che, essendo egli stato anni addietro del Consiglio dei Cento, e gloriandosene sopra modo, era stato offeso mortalmente da un bisticcio ingiurioso d'un uffiziale francese, il quale, in occasione d'un litigio insorto tra il Consiglio e il Siniscalco del Re, aveva detto: _Ce n'est pas un Conseil décent_. Questa l'aveva serbata sullo stomaco per anni ed anni e gli tornava in gola di tanto in tanto. — Il Consiglio dei Cento! — esclamava nei giorni di cattiva luna, gesticolando dietro ai vetri, quando vedeva passare per la piazza un uffiziale francese. — Ma la vostra famosa monarchia era ancora nelle fasce, quando il Consiglio dei Cento era già in piedi, forza e decoro di Pinerolo, assemblea legislativa, supremo magistrato politico, rispettato in tutta la sua autorità da quanti passarono fra le nostre mura, da abati, da marchesi di Susa, da principi d'Acaja, da conti di Savoia! _Ce n'est pas un Conseil.... décent!_ Ma l'avete dovuto rispettare anche voialtri, padroni illustrissimi, e sarà ancora rispettato quando non ci sarà più neppure la semenza dei Valois e degli Angiò, credetelo pure! — E se l'uffiziale francese, per caso, si voltava a guardare la finestra, lui, da savio padre di famiglia, si ritirava dalla vetrata, e continuava a sfogarsi in mezzo alla stanza. Ma non era mai tanto ameno come quando canzonava il nipote, del quale conosceva la passioncella innocua, e le comiche imitazioni del Duca. Diceva d'averlo sorpreso a lavarsi il capo con l'acquavite per fortificarsi la testa, e lo chiamava _testa di ferro_, battendogli la mano sulla nuca, come per sentire a che grado di durezza l'avesse già ridotta: di che il giovane andava sulle furie, e si faceva pavonazzo, che parea sul punto di schiattare. * * * Il Benavides, frattanto, andava pigliando a poco a poco una secreta compiacenza a far vibrare con la sua parola quella bell'anima, così giovanilmente innamorata delle cose grandi. Senz'avvedersene egli si preparava prima certe frasi e certe immagini che gli parevano più efficaci a dilettarla e a farle battere il cuore. Una contrazione quasi di pianto infantile, leggerissima e dolcissima, che le era passata sul viso una sera che egli descriveva l'atto regalmente gentile con cui Emanuele Filiberto aveva carezzata la fronte del conte di Siegelberg ferito a morte, gli era rimasta impressa nell'animo per varii giorni. Come mai era nata quella bell'anima in quella casa così umile, fra quella gente mediocre, in mezzo a una città dominata dagli stranieri, dove nulla era accaduto da tanti anni che potesse scuotere e innalzare gli spiriti? La sua stessa figura non riportava in nulla nè il padre nè la madre, e contrastava in mille modi con tutta la gente e con tutte le cose che aveva d'intorno. Quella era veramente una nobiltà pura e legittima, stampatale nell'anima e sulla fronte da Dio. Certo, egli non sentiva punto amore per lei. Solamente la sua voce gli cagionava un'illusione singolare: lo accompagnava alle volte giù per la scala, lo seguitava per la via, gli si faceva sentire ora come un'eco lontana, ora come una nota staccata che gli suonava tutt'a un tratto nell'orecchio, e non di rado pareva che gli empisse per qualche minuto tutta la stanza come la vibrazione prolungata ed eguale d'una corda sonora. E allora gli sembrava che, rivedendola, avrebbe sentito il bisogno di sorriderle e di parlarle con una cortesia più familiare e più affettuosa di quella che aveva usato fino allora con lei. Ma quando poi si ritrovava con la famiglia, al vedersi circondato di un così profondo rispetto, considerato quasi come una creatura d'un'altra razza, al punto che non avrebbero osato uscire dal discorso solito per timore di parergli troppo entranti, allora si richiudeva in sè, imponendosi maggior riserbo di prima, e rimproverandosi quasi il desiderio che aveva provato di fare un passo innanzi in quell'amicizia. Una sera, per altro, la signorina gli raccomandò la sua Pinerolo con una grazia così affettuosa e timida, con parole così caramente ingenue, ch'egli dovette fare uno sforzo per non risponderle con lo stesso tuono di voce. — Vostra Signoria, — gli disse la ragazza con un sorriso, incrociando a più riprese le dita delle sue belle mani, — dovrebbe persuadere il suo grande Re a restituire Asti e Santhià al duca e allora la Francia ci renderebbe Savigliano e Pinerolo, e noi ritorneremmo piemontesi. Mi pare che lo dovrebbe comprendere il re Filippo che non ci sarà mai pace fin che il Piemonte sarà così diviso e esposto a tutti i pericoli. Vostra Signoria può dire che tocca al re di Francia a fare il primo passo, intendo bene. Ma continuando così.... Non sarebbe naturale che lo facesse il più forte, che ha meno da temere, il primo passo? Quando il Piemonte fosse tutto unito, ora che è con la Spagna, sarebbe anche più sicura la Lombardia, non è vero? mentre la Francia, fin che ha Pinerolo, può scendere nello Stato di Milano quando le piace, con molti soldati. Ah signore! Io non sono che una povera ragazza; ma darei tutto il mio sangue per sentir sonare a Pinerolo le trombe delle nostre milizie, e veder inalberare sul castello la nostra bella bandiera, che non ho mai veduta... vederla una sola volta! un momento solo! Dio buono! — E stette un momento con le mani giunte, guardando verso la piazza, con gli occhi umidi, in un atteggiamento da strappare i baci. Il Benavides tardò un minuto a rispondere. Poi con un accento benevolo, come d'un fratello: — Tutto vi sarà reso, señorita, — rispose. La señorita poteva andar sicura che i negoziati per la liberazione di Pinerolo erano in buone mani. Ella doveva sapere che Emanuele Filiberto chiamava Pinerolo e Savigliano: _le chiavi della mia casa,_ e le aveva in cima d'ogni suo pensiero. La restituzione non poteva tardare. Carlo IX, malato, lacerato dai rimorsi, sputava sangue da molto tempo, sarebbe morto fra pochi mesi; e il suo successore, il re di Polonia, avrebbe trovata la Francia in un tale stato, avrebbe veduto così chiaramente l'impossibilità di tentare nulla di utile per molti anni di qua dalle Alpi, che per levarsi l'inquietudine e la spesa dell'occupazione, e amicarsi il Duca di Savoia, gli avrebbe rese le due città spontaneamente. — Caterina dei Medici — concluse — sarà la prima a consigliarglielo, per levare l'armi di mano ai propri nemici. E allora, signorina, ella sentirà sonare in piazza San Donato le trombe delle milizie ducali... senza bisogno di dare _su preciosa sangre_. Il cuore mi dice che ciò accadrà assai prima che ella non creda. Io non sarò più qui; ma ne godrò con tutta l'anima anche da lontano. — Detto appena questo, rimase meravigliato del senso improvviso come di solitudine triste che il suono delle ultime sue parole gli aveva svegliato nel cuore; e quella sera la signorina sentì come un'oppressura all'animo, una voglia di piangere senza sapere di che, una tristezza grande che la fece stare seduta sul suo letto per lungo tempo, col gomito appoggiato sopra il guanciale, e la mano tuffata nei capelli biondi. * * * Qualche cosa per aria c'era, in fatti, di quei giorni. Non era un mistero per nessuno che parecchi negoziatori fidati del Duca avevano fatto più volte in pochi mesi il viaggio da Torino a Parigi, e che tra la Corte ducale e il Governo di Madrid si trattava daccapo, con alacrità insolita, la vecchia quistione della resa della città. Gli stessi ufficiali francesi del presidio, fra i quali il Benavides aveva dei conoscenti, parlavano non della restituzione, ma della “concessione graziosa„ di Pinerolo, come d'un fatto facilmente prossimo; e non se ne dolevano, perchè neanche a loro era gradevole lo stare così sull'ala, in una città di confine, coll'incertezza del domani, in mezzo a gente che sospirava palesemente la loro partenza. La città si animava: i giovani e le donne, in special modo, si rallegravano. Ma i vecchi dondolavano il capo, increduli. Anche nel 1562, al tempo della convenzione di Fossano, s'era sperato; e la speranza durava da dodici anni. — È inutile, — dicevano; — noi siamo nati sotto un cattivo pianeta: Pinerolo verrà alla coda; ha da passarle davanti fin l'ultimo villaggio del Monferrato. — Sarebbe stato tempo nondimeno, per l'anima di San Donato! In quei trentotto anni di dominazione straniera, quel povero paese, trattato come territorio militare, soggetto a mille danni, trascurato dal Governo in tutto quello che non riguardava la difesa, minacciato di giorno in giorno dalla guerra, era caduto in una grande miseria. Molti edifizi di Pinerolo erano stati distrutti per ristringere la cerchia dei bastioni. La popolazione della campagna era scemata. Le industrie e le arti erano a terra. L'inquietudine, l'incertezza d'ogni cosa disamorava la gente dal lavoro, distoglieva le famiglie dal risparmio, scoraggiava i privati facoltosi da ogni impresa utile, e l'infelicità del paese era sentita anche più dolorosamente da tutti per effetto del confronto che si faceva con le altre provincie del Piemonte, le quali s'andavano rialzando rapidamente sotto l'amministrazione saggia e vigorosa del Duca di Savoia. Oltrechè, — i cittadini colti lo vedevano, — quella dominazione francese nè violenta nè mite, quell'aspettazione continuamente delusa, quel tirare avanti così alla stracca una vita ambigua e bastarda nè di francesi nè d'italiani, snaturava il carattere del popolo, sfibrava la sua virilità e corrompeva la sua coscienza. In altri pochi anni di quello stato tutto sarebbe infracidito. E ad ogni nuovo barlume di speranza, la città fremeva di desiderio e d'impazienza. Ma questa volta pure, passato il primo fremito, i giorni succedevano ai giorni, e nulla accadeva. Ad ogni arrivo di corriere da Torino o dalla Francia, si aspettava per ventiquattr'ore il grande annunzio; ad ogni radunata straordinaria del Consiglio dei Cento, si sperava la lettura d'un messaggio solenne del Re o del Duca; i consiglieri, dice il cronista “per tutti li luoghi dove passauano ueniuano con molta anzietà dimandati se fossero buone nouelle gionte di Torino per la restituttione della città.„ Ma nulla era giunto. E quel grullo cascamorto d'un cugino ne faceva un gran chiasso in odio a Emanuele Filiberto. Egli perdurava nella sua beata illusione di non avere altri rivali che il Duca. Veramente, una vaghissima idea gli era lampeggiata dentro alle tenebre del cranio che il nobile catalano c'entrasse anche per qualche cosa; ma l'idea d'avere un rivale di quella fatta, presente, parlante e sfolgorante, col quale ogni lotta sarebbe stata impossibile, gli metteva un tale sgomento nel cuore, ch'egli l'aveva scacciata subito, bruscamente, come un'immaginazione insensata; e continuava a tirare di punta e di taglio contro il vincitore di San Quintino. — Con le armi, — diceva all'Evelina — s'ha da riconquistar Pinerolo, con le armi, come fanno i grandi capitani, e non con i negoziati e con le chiacchiere. Ha fatto un bel pezzo di lavoro, in dodici anni, il gran Duca! Ci troviamo nelle peste peggio di prima. — Evelina, — soggiungeva poi a bassa voce, con enfasi; — io sarei più grande di lui se mi amaste! — Ma rimaneva tutto stupito al vedere che la cugina non aveva sentito nè la puntura, nè la carezza. Da due giorni era distratta e taciturna, aveva come l'ombra d'un pensiero doloroso sulla fronte bianca, e i suoi begli occhi celesti parevano gonfi di pianto. Il buon notaio Lombriasco, due sere innanzi, stando a tavola a desinare, aveva esclamato improvvisamente: — Sia lodato il cielo! Sono finalmente arrivate quelle benedette carte da Gerona e da Parigi. Tutto sarà finito tra pochi giorni. E il nostro illustrissimo e amatissimo don Enrique de Benavides y Zeballos se ne potrà tornare alla sua Catalogna.... carico di quattrini. * * * Ma ecco, l'una dopo l'altra, come colpi di cannone, la notizia della morte di Carlo IX, il messaggio di Caterina de' Medici alla Corte di Savoia, il viaggio di Emanuele Filiberto a Venezia e la novità più meravigliosa di tutte: la venuta di Enrico III, nuovo re di Francia, a Torino. La signorina si riscosse tutta a quegli avvenimenti, e si riaccese della passione antica, rifacendosi per qualche tempo più rosea, più gaia e più alteramente bella di prima. Il re di Francia a Torino! Ah! non occorreva altro. Se Enrico III — diceva — vive tre giorni soli col duca Emanuele Filiberto, è impossibile che non gli renda Pinerolo! È impossibile che non rimanga ammaliato, soggiogato da lui! Gli darà tutto quello che vorrà, ne sono certa come della luce del sole! — Ed ecco un'altra notizia inaspettata: il duca di Savoia che accompagni la re di Francia a Lione con cinquemila fanti e quattrocento cavalli. Era un'idea luminosa, da grande cavaliere e da grande politico; di quelle cose che pensava e faceva egli solo, l'ardito e profondo Emanuele Filiberto. Senonchè, a interrompere bruscamente l'allegrezza suscitata da quegli avvenimenti, venne pochi giorni dopo l'annunzio della malattia grave di Margherita di Valois e del principino. Tutti ne furono atterriti. Se quell'unico figliuolo del duca moriva, il Piemonte toccava di diritto ai principi di Savoia Nemours, mezzi francesi, per non dir francesi dalla testa ai piedi; e la Spagna non lo avrebbe mai consentito. — Il che vorrebbe dire, — esclamava il notaro, con calore, — che noi cadremmo dalla Francia nella Spagna (e guardava intorno, se ci fosse l'ombra del Benavides), dalla padella nella brace, dall'inferno alla dannazione! Ma c'è proprio piovuto la sperpetua, dunque, su questa povera Pinerolo! — E si piantava con le braccia incrociate davanti alla figliuola che teneva il mento sul petto. Il principino guarì, come Dio volle; ma la gioia pubblica fu soffocata immediatamente dalla notizia della morte della Duchessa. E la ragazza ne fu afflitta sinceramente. Si seppe che nessuno del seguito del Duca a Lione aveva avuto il coraggio di annunciargli subito quella sventura, e che quando l'aveva intesa, n'era rimasto fulminato. — Dio lo vuol provare in tutte le maniere, — diceva la signorina; — ma egli avrà forza di vincere il dolore; egli è nato per essere grande nei trionfi e nella sventura. — Intanto, la notizia che Emanuele Filiberto, ritornandosene da Lione, avesse lasciato i suoi cinquemila soldati al re di Francia, era venuta a rinfiammare ancora le speranze già vivissime dei pinerolesi. Ma quel benedetto notaro Lombriasco era proprio un ambasciatore male ispirato. La stessa sera, anzi nello stesso punto che annunziava in casa quell'atto cavalleresco e sagace del Duca di Savoia, dava pure, stropicciandosi le mani, il “felicissimo„ annunzio che la lite del Benavides con la famiglia Mortier o Mornier era finita, e che il suo nobile cliente aveva disdetto per la metà del mese il quartierino di via Porta di Francia. * * * La settimana seguente, sull'imbrunire d'un giorno triste di dicembre, nevicava; la stanza da desinare del notaro era mal rischiarata da un'alta lucerna posta nel mezzo d'un tavolino intorno al quale la signora e la ragazza facevano delle nappe da tenda; e il Benavides, seduto un poco in disparte, aspettava da qualche minuto il signor Lombriasco, guardando attentamente Evelina, che da parecchio tempo gli pareva mutata. Tutti e tre stentavano singolarmente, quella sera, a trovar materia di discorso, e parole; e tacevano di tratto in tratto per alcuni momenti, durante i quali non si sentiva nella stanza che il fruscio leggiero dei grandi stivali di daino del catalano, non statuariamente immobile come sempre. All'improvviso, si spalancò la porta, e apparve il notaro ansante, con una notizia solenne sul viso. — Pinerolo è resa al Duca! — urlò alzando le braccia. Evelina gettò un grido dall'anima e gli saltò al collo d'un balzo. — E il Duca.... — soggiunse il padre col fiato grosso, mettendo le mani sulle spalle della figliuola, e parlandole nel viso: — Il Duca.... — Viene! — gridò Evelina. — Viene! — gridò il vecchio, buttando il cappello a traverso la stanza e lasciandosi cadere spossato sopra una sedia. La ragazza si mise a ridere, poi si fece seria un momento, poi di nuovo rise, e poi ruppe in un singhiozzo violento e cadde in ginocchio davanti a sua madre e le nascose il viso nel seno. Per un minuto nessuno parlò; non s'udiva che la respirazione asmatica del vecchio, e il singhiozzo soffocato di Evelina, a cui la madre carezzava le treccie e le spalle. Poi, mentre il Benavides, ritto in piedi, commosso, avvolgeva e riavvolgeva collo sguardo la ragazza, lunga e nobilissima in quel suo atteggiamento abbandonato di bella donna e di bella bambina, e cercava inutilmente una parola che le potesse dire fra le mille che avrebbe voluto dirle; il trionfante signor Giovanni Battista Lombriasco, dimentico per la prima volta del rispetto dovuto all'ospite, si mise a passeggiare in lungo e in largo per la stanza, gesticolando e declamando. — Ah, finalmente. È venuto, dunque, il benedettissimo giorno! Siamo liberi e siamo piemontesi, siamo in casa nostra, siamo gente di questo mondo, adesso! Li vedremo partire una volta. Abbiamo finito di sentir suonare gli speroni francesi sui ciottoli di piazza San Donato! E non si può dire che non fosse tempo, per l'anima.... del Beato Amedeo! Eran trentasei anni che la commedia durava, dovete sapere! E possiamo dire d'averne viste passare, in questi quattro giorni, delle faccie antipatiche di governatori e di siniscalchi e di spillaquattrini d'ogni colore, che il diavolo se li porti! Quel generale Vassé che aveva un pino delle Alpi nel corpo! E quel signor Carlo di Cossé, signore di Brissac, che aveva l'aria di guardarci dalla sommità del Monviso! E quel famoso Re da torneo, quel gran giuocatore di palla, che ci degnò di una visita, coi nastrini della sua bella sul petto, quel caro _Henri deux,_ che ci affamava e non voleva sentir parlare di miserie! E il duca di Nevers, che sia benedetto con una sbarra di ferro, l'eccellentissimo signor Luigi di Gonzaga, duca di Nevers, governatore del Marchesato di Saluzzo, di Pinerolo e di Savigliano, che minacciò di tagliarsi la testa se il Re di Francia rendeva le terre al Duca, speriamo che manterrà la parola, ora, da quel gentiluomo onorato che s'è sempre vantato d'essere! Ah! ah! _Ce n'est pas un conseil décent!_ Birboni! A che stato ci avevan ridotti! È finita, dunque! Così è — concluse poi solennemente voltandosi verso il Benavides che aveva già tentato invano d'interromperlo, e verso la ragazza che s'era rialzata vermiglia e radiante: — Sua Maestà Enrico III, re di Francia e di Polonia, ha restituito a Sua Altezza il Duca di Savoia le città di Pinerolo, Savigliano e Perosa insieme ai loro mandamenti, giurisdizioni e dipendenze. Il trattato è stato concluso a Torino ieri mattina. Domani si raduna il Consiglio dei Cento. Il nostro amatissimo e gloriosissimo Duca Emanuele Filiberto di Savoia, espugnatore di Torneaux, vincitore di San Quintino e liberatore del Piemonte, farà la sua solenne entrata in Pinerolo il giorno primo di gennaio del 1575. Sia ringraziato l'Altissimo! Io non speravo di avere questa santa consolazione prima di morire. — E quella sera stessa il cavaliere Enrique di Benavides appigionava per altri quindici giorni il suo piccolo quartiere di via Porta di Francia. * * * La mattina seguente, sedici di dicembre, era un tempo sereno e asciutto, e le Alpi Cozie tutte bianche spiccavano in un cielo azzurro e limpidissimo, che pareva di primavera. Pinerolo tripudiava. La gente s'affollava in piazza San Donato e in via degli Orefici, strizzata dal freddo, allegra, confondendo gli aliti fumanti in mille dialoghi rapidissimi, troncati da strette di mano e da saluti festosi. Una folla era radunata fin dall'alba davanti a una casa di via del Duomo, guardata dagli archibugieri del Comune, nella quale si trovava Giannantonio de Toni dei conti di Piossasco, nominato governatore di Pinerolo due giorni prima, e arrivato nella notte da Torino. Il Consiglio dei Cento si dovea radunare nel refettorio del Convento dei Frati Minori di San Francesco, in via degli Orefici. I consiglieri arrivavano da ogni parte, a coppie e a drappelli, ravvolti nelle loro cappe, coi cappelloni calati sulle orecchie, pestando i piedi, brillanti di contentezza, e tutti si affollavano al loro passaggio, scoprendosi il capo e tendendo le mani. Molti contadini erano accorsi dalla campagna, sparuti e laceri, ma di buon umore, consolati dalla speranza d'un lieto avvenire. A mezzogiorno il Consiglio si trovò raccolto sotto la presidenza dei sindaci Giovanni da Prato e Giorgio Bonardi. C'erano presenti il Conte di Piossasco, rappresentante del Duca di Savoia, il luogotenente generale del Duca di Nevers, e il signor Servient, consigliere e segretario di Stato del Re di Francia. La folla che nessuna forza aveva potuto contenere, era penetrata nel refettorio, e riempiva tutti gli angoli, pigiandosi senza far rumore contro le pareti bianche dello stanzone ampio e nudo; e dietro ai vetri delle finestre, dietro alle teste dei consiglieri, nei vani delle porte, si alzavano gli uni sugli altri dei grandi cappelli d'archibugieri, dei cappucci di seta di signore, degli scapolari di frati, dei pennacchi d'ufficiali francesi, dei visi pallidi e immobili, che non avevano di vivo che gli occhi. In mezzo a un silenzio profondo furono rimesse al segretario le regie patenti suggellate del Re di Francia. Il vecchio segretario, notaio del Comune, esaminò diligentemente i suggelli, secondo le prescrizioni: le sue mani tremavano, la pergamena gli sfuggì due volte; l'adunanza pareva soffocata dalla commozione; era quasi mezzo secolo di dominazione straniera, di avvilimento, di tristezza e di miseria che stava per finire in quel punto! In fine, i suggelli furon rotti; una voce alta e tremante lesse l'atto solenne, col quale Enrico III “per la piena fiducia da Lui riposta nell'amicizia che gli dimostrava suo zio il Conte di Savoia, e per il desiderio che era in Lui di accontentarlo„ ordinava la restituzione di Pinerolo, di Savigliano e di Perosa, prosciogliendo gli ufficiali delle tre terre dal giuramento di fedeltà al Re di Francia. Un'acclamazione altissima, a cui fece eco la moltitudine dalla via, seguì le ultime parole; i consiglieri si baciarono; cento visi si rigaron di lacrime. In mezzo a un'agitazione febbrile fu firmato l'atto di restituzione al “_Serenissimo Domino Emanueli Philiberto, Duci Sabaudiae_, _Principi Pedemontium, et principi nostro vero_, _naturali, optatissimo_.„ Un altro altissimo evviva fece tremare l'edifizio, il Consiglio si sciolse, i consiglieri usciti nella via furono circondati, abbracciati, portati quasi dalla folla verso la piazza San Donato. Una gioia fresca e sonora, come di gente ringiovanita, si spandeva in ogni parte, ravvivata ancora da quel bel sole, da quel bel cielo terso, che pareva la promessa e il principio d'una lunga età serena e tranquilla. Ma nonostante quella gioia, che dominava ogni altro sentimento negli animi, molti, passando, si voltavano a guardare in viso una signorina grande e snella, che portava con una grazia mirabile un alto cappello conico, ornato di cordoncini d'oro e di nappine di seta, appoggiandosi al braccio di suo padre. E più di tutti la guardava, seguitandola a quindici passi di distanza, Enrique de Benavides, che pure attirava molti sguardi di donna con la sua bella eleganza di colosso e con la grossa gemma del suo _sombrero_ piumato. Egli non perdeva un solo movimento di quelle spalle graziose, e di quel braccio ripiegato, nascosto in un'ampia manica serrata al polso. Da quei movimenti leggerissimi egli indovinava il respiro affannoso, il palpito concitato del cuore, una gioia violenta e compressa che brillava forse in bellissime lagrime mute, non vedute da alcuni. — _Pobre nina!_ — andava dicendo tra sè, perdendola d'occhio e ritrovandola a volta a volta tra la gente; — il nobile sogno della tua vita s'è compiuto; godi; sii felice. In tutti costoro l'amor di patria nasconde un interesse, che so io? una speranza; in te sola è puro come l'aria delle tue montagne. Tutta la gioia di questa moltitudine non vale una pulsazione di quel sangue gentile che ti colora il collo in questo punto. Sii felice. I giorni tristi ritorneranno, forse, pel tuo paese; nuovi stranieri, nuove miserie, e servitù più lunghe e più dure, forse; ma tu non ci pensi, povera ragazza; il tuo cuore è tutto nella gioia presente, e vede un avvenire interminato d'indipendenza e di pace. Va, buona e bella creatura; ritorna nella tua casetta modesta, ad aprire la tua bell'anima piena di tesori davanti alle immagini del tuo Dio e del tuo principe: essi non riceveranno certo da questa terra un omaggio più nobile e più santo del tuo. — E così pensando, mentre la fanciulla spariva svoltando in via Porta di Francia, egli sporse leggermente il viso innanzi stringendo le labbra; e quel bacio muto si perdette tra la folla come un fiore invisibile travolto dalle acque d'un torrente. * * * Da quel giorno in poi Pinerolo fu in ribollimento come non era più stata dal tempo dei principi d'Acaja. I soldati del Re lasciavano la città giorno per giorno, a un battaglione alla volta; molte famiglie francesi partivano; arrivavano ufficiali e messi del Governo di Torino; venivano frotte di curiosi dai dintorni. Il governatore conte di Piossasco aveva messo mano fin dal primo momento a ordinare la milizia provinciale, istituita da Emanuele Filiberto. Il Consiglio dei venticinque si radunava ogni giorno per provvedere alle feste. Il tempo incalzava: erano già arrivati i furieri della Corte. La città avrebbe voluto fare grandi cose, superare Vercelli che aveva drizzato sul passaggio del Duca cinque archi di trionfo e cento statue. Ma i denari mancavano e le ore erano contate. Fu stabilito che il Consiglio intero, la milizia, gli archibugieri, i personaggi principali della città andassero ad aspettare il Duca al Belvedere. Fu ornato di tappeti e di arazzi il palazzo degli Acaja. Il Consiglio fece fare un grande baldacchino frangiato che doveva essere portato da sei gentiluomini; ordinò vestiti appositi pei sindaci, pei capitani, per gli staffieri, per le guardie; fece allestire centinaia di bandiere savoiarde: tutto doveva essere a lutto per la morte della duchessa Margherita. La città era sottosopra; nascevano litigi accaniti per la rappresentanza e per i posti di ricevimento; per tutto si lavorava a preparare stendardi, ghirlande, corone; quanti fiori era possibile trovare a quella stagione nei dintorni della città e nelle valli e sulle montagne, le rose di Bengala, i leontopodii, gli eliotropii d'inverno, le viole a ciocche, i capelli di Venere, il lauro nobile, l'ellera, l'agrifoglio, i rami di pino selvatico dei monti di Talucco e di Cumiana, tutto fu ansiosamente cercato, disputato, pagato, e centinaia di mani bianche s'affaticavano a intrecciare e a trapungere; mentre per le vie insolitamente rumorose andavano e venivano consiglieri, operai, archibugieri, militi provinciali ancora mezzo vestiti da paesani, contadini carichi di fascine e di legna per i fuochi di gioia, processioni di ragazzi con le coccarde dai colori di Savoia; e al disopra dello strepito dei crocicchi, s'alzava la voce acuta dei banditori del Comune ad annunziare fra cento altre cose “che nissuno habi da andar incontro a Suoa Altezza a cavalo, salvo queli quali saranno domandati et avvertiti, sotto pena di venticinque scudi„. Eran giorni tumultuosi, febbrili e felici. Si capisce. Non era soltanto un capitano possente e fortunato che aveva empito l'Europa del suo nome, non era solamente il vincitore di San Quintino colui che doveva entrare a Pinerolo: era un monarca sapiente e benefico, che aveva compiuto con una perseveranza maravigliosa, in trent'anni di fatica e di pericolo, l'opera gigantesca della ricostituzione dei suoi Stati; che aveva rinsanguato la sua Casa, ridata una nuova gioventù, aperta un'età nuova d'immense speranze al suo popolo, mentre le altre provincie d'Italia, come invecchiate, e richiuse pigramente in sè medesime, pareva che non pensassero più all'avvenire; era un principe che rientrava nella città ch'egli aveva più lungamente desiderata, e per la quale aveva messo più duramente e più mirabilmente alla prova la sua costanza e il suo ingegno; e ci veniva di quarantasei anni, nel colmo della sua forza e della sua gloria, e reso più venerabile e più sacro da un grande dolore. * * * Quel capo armonico di cugino, col suo naso rincagnato, trovava che il Consiglio “faceva troppo;„ che tutto quello spreco di “danaro pubblico„ sarebbe stato a mala pena giustificabile quando con Pinerolo e Savigliano fosse venuta anche Saluzzo; ma non si curava neanche più di stuzzicare la ragazza, tanto la vedeva da un pezzo indifferente ad ogni cosa che le potesse dire. Solamente, egli aveva adottato, per quando si parlava delle feste, un sorriso leggermente compassionevole, che cercava di mettere in vista. Evelina, a quando a quando, si sentiva dentro degli impeti di una gioia immensa. La proposta che uno dei venticinque aveva fatta, e che il Consiglio aveva approvata, di mandare incontro al Duca duecento bambini, — _doeciento putti_ — con una bandiera ciascuno, i quali cantassero tutti insieme a mezza voce una canzone patriottica, in cui si sentisse un'eco sommessa di dolore per la morte di Margherita di Valois; quell'idea di mandare innanzi il canto dell'infanzia a consolare il dolore d'un eroe, le pareva divina; s'inteneriva a pensarci; avrebbe voluto pettinarli, lisciarli tutti lei quei ragazzi, metterli in fila e guidarli ella stessa incontro a Emanuele Filiberto. Non potendo fare altro, preparava un ampio parato azzurro da stendere sulla ringhiera del terrazzo, con le parole _San Quintino_ trapunte in bianco, a grandi caratteri. Aveva ordinato del lauro tino per fare delle corone. Il terrazzo era al primo piano, all'angolo di via del Duomo, dove la via sbocca nella piazza, a sinistra di chi va verso San Donato: si sapeva che il Duca per andare fino alla via degli Orefici, dov'era il Palazzo degli Acaja, sarebbe passato di là; essa l'avrebbe visto da vicino, dunque; e ogni volta che questo pensiero le si affacciava improvvisamente, il sangue le dava un tuffo, la mente le si turbava; aveva bisogno di moversi, di spalancare le finestre, di sentire dello strepito, di discorrere, di cantare. E poi si rimetteva con più ardore al lavoro. Ma di quando in quando — molto sovente — una profonda tristezza le entrava tutt'a un tratto nell'anima, violentemente, come una mano brutale le afferrasse il cuore; e allora lasciava cadere il parato azzurro sul pavimento, e rimaneva con le mani inerte sulle ginocchia, e con gli occhi fissi alla parete, per molto tempo. Gli affari del Benavides erano accomodati; dopo l'entrata del duca sarebbe tornato in Catalogna; egli non rimaneva che per rivedere, dopo diciassette anni, il suo glorioso generale di San Quintino, forse per l'ultima volta; e il giorno dopo sarebbe partito, ed essa non l'avrebbe rivisto mai più, certamente. E allora tutto sarebbe finito. Tutto? Che cosa? Nulla. Un sogno. Nemmeno un sogno. Eppure si sentiva un nodo di pianto nell'anima. Egli era così nobile d'aspetto e di cuore, così rispettabile in quella sua tristezza austera per la morte di sua madre, e doveva nascondere dei così grandi tesori di bontà sotto quella compostezza taciturna, che dava tanta dignità alla sua bellezza! Come doveva essere profonda e generosa l'amicizia, in lui, e l'amore grande e gentile! E che dolci, ardenti, possenti parole gli dovevano sgorgare dal cuore, quando un impeto di passione e di tenerezza lo moveva! No, ella non avrebbe mai più incontrato nella vita un'anima così nobile e così bella. Ed egli partiva senza averle dato mai un segno d'affetto e d'amicizia. Era troppo povera cosa per lui. Eppure, l'avrebbe guardata con occhio assai diverso, l'avrebbe forse anche amata, a poco a poco, se non fosse stata di una condizione di tanto inferiore alla sua. Essa avrebbe saputo farsi amare, forse! Non si sentiva mica indegna di lui, dentro al cuore. Egli l'avrebbe dovuta indovinare. Come non l'aveva indovinata, come non gli era nato, in tanto tempo, un sentimento un po' più vivo che una benevolenza cortese? Qualche volta, ripensandoci, le pareva sì d'aver visto in certi momenti nel suo sguardo, d'aver sentito nella sua voce non so che d'insolito, un lampo, un tremito sfuggevole, come l'espressione involontaria e istantanea d'un sentimento d'amore. Ma come a fissare intensamente con lo sguardo i caratteri minuscoli d'una scrittura, si finisce con non veder più che il bianco della carta, così, mettendosi a meditare profondamente su quei piccolissimi segni, essa finiva con non trovarci più alcun valore, e con credere fermamente d'essersi ingannata. Ah! come avrebbe saputo amarlo, consolarlo, entrargli nell'anima, legare una per una alle fibre del proprio cuore tutte le fibre del suo! La ragione le si offuscava a pensare a una gioia, all'ebbrezza di essere amata, serrata contro quel giustacuore di seta, chiamata per nome nell'orecchio da quella voce profonda e morbida, carezzata da quella bella mano atletica di gentiluomo intemerato e di soldato valoroso. Ah! una così grande felicità non poteva essere per lei, lo capiva bene! Ed egli partiva, solo e malinconico, per un paese lontano, per ritornare alla casa abbandonata e triste, dove non c'era più sua madre a dargli il bentornato e a baciargli la fronte. Non sarebbe però stato solo lungo tempo. Non era un uomo da poter consumare la vita senza affetti. Una donna, cento donne l'avrebbero amato, adorato.... Ma non n'avrebbe amata che una sola, lui, Benavides, così nobile e così austero! E fissandosi in questo pensiero a malgrado proprio, essa vedeva una donna fra le braccia di lui, una spagnuola orgogliosa e vezzosa, una patrizia vestita di raso e scintillante di gemme, avviticchiata al suo collo, in una stanza splendida di marmi e di specchi; e la rivedeva accanto a lui, altiera e felice, in un ricco legno tirato da cavalli superbi, su per la Rambla di Barcellona; e abbandonata sulle sue ginocchia sotto la tenda verde d'una barca dorata lungo le sponde dell'Ebro; tutta vermiglia in viso, palpitante e pazza d'amore; e liberatasi da quell'immaginazione sfolgorante e dolorosa, e rivolto lo sguardo intorno per la propria casa, dove tutto esprimeva la povertà del suo stato e l'umiltà della sua nascita, che eran forse la sola cagione per cui una felicità immensa le era negata, provava un dolore più acuto, un avvilimento angoscioso, una pietà infinita di sè stessa, che le faceva abbandonare la fronte sulla spalliera della seggiola esclamando: — No, no, non basta la patria! — e scuotere desolatamente la testa, piangendo senza lacrime, come una creatura disperata. Ma poi, riscossa da un grido improvviso dell'orgoglio, balzò in piedi, si passò una mano sulla fronte, e disse a sè stessa: — Ho sognato. Non pensiamoci più. Coraggio! — E da quel momento si rigettò tutta nella sua prima passione, e si rimise a parlare con nuovo e più ardente entusiasmo al Benavides del suo principe adorato, sforzandosi di mostrare una grande allegrezza; stupita nondimeno e afflitta dentro, al vedere che il catalano non le rispondeva più come per l'addietro, e pareva sazio ed uggito di quei discorsi. — Ancora di Emanuele Filiberto? — le domandò una sera quasi in tuono di noia. Ed ella disse tra sè tristamente, quando fu uscito: — Egli s'annoia. Il suo pensiero e il suo cuore sono già lontani. È già separato da noi. Tutto è finito. Addio. * * * Venne finalmente quel sospiratissimo primo dell'anno. Partito da Torino, col suo grande corteo, il 31 dicembre, il Duca doveva pernottare a Vigone ed entrare in Pinerolo il primo di gennaio, avanti mezzogiorno. Spalancando le finestre la mattina presto, Evelina gettò un'esclamazione di dolore e di dispetto: la piazza San Donato, i tetti, i rilievi delle case, tutto era bianco, e nevicava ancora, radamente. Ma l'aria era mite. La città rumoreggiava. Il Consiglio, le milizie, tutti i personaggi del ricevimento e una grande folla erano già usciti di Porta Torino. La piazza San Donato si riempiva di gente a poco a poco; le finestre s'andavano ornando di arazzi e di ghirlande di verzura e di fiori. Il tratto più trionfale dell'entrata del principe sarebbe stato certamente là, davanti alla vecchia chiesa del Santo protettore di Pinerolo, nel cuore della città antica. In pochi minuti la ragazza levò la neve dalla ringhiera, distese con le mani un po' tremanti il suo bel parato azzurro, ordinò sopra un tavolino le sue quattro grosse corone di lauro tino, poi si andò a infilare il suo bel mantelletto di panno oscuro senza maniche, che le copriva la nuca col suo ampio bavero diritto, e si mise un mazzetto di semprevive nei capelli. Il notaro comparve poco dopo, con la barba fatta, e con un paio di calze nuove ben tese, che mettevano in bella mostra le sue gambe muscolose di alpigiano. Molti parenti, invitati, dovevano arrivare da un momento all'altro. A tutte le finestre delle case di rimpetto apparivano e sparivano visi di signore, di uomini e di ragazzi, sovreccitati, incuranti del freddo: ogni famiglia aveva in casa una frotta di parenti e di amici. Sopra le porte, sul davanti dei terrazzi e sotto i davanzali, a tutte le altezze, si vedevano degli stemmi di Savoia sormontati dalla corona, coi due cavalli e i due leoni: delle iscrizioni, dei quadri con la divisa assunta da Emanuele Filiberto giovanetto: un braccio nudo che stringeva una spada, col motto: _Spoliatis arma superunt_; altre sue divise d'altri tempi: l'elefante in mezzo all'armento di pecore: _Infestus infestis_; un gran cartellone con su scritto: _Pugnando restituit rem_; una corona civica col motto: _Instar omnium_; altri avevano esposto in mezzo a rami di mirto e di cipresso lo stemma di Margherita di Valois, la losanga azzurra coi tre gigli d'oro, e certe sue figure simboliche predilette, come i due serpenti attorcigliati a un ramo d'olivo, con motti sapienti e pietosi, che tutti sapevano. La folla ch'era andata sempre crescendo, riempiva or tutta la piazza, e le strade vicine, del Duomo, del Corpo di guardia, del Miranetto. Un colpo di cannone avrebbe annunciato l'apparizione del Duca al Belvedere; di là egli sarebbe arrivato in tre quarti d'ora a Porta Torino. Una ondata di zie e di cugine aveva empito la casa del notaro. Oltre al terrazzo, le finestre erano tre: una fu assegnata ai ragazzi: da tutte si vedeva obbliquamente il punto dove il corteo sarebbe apparso e quello dove sarebbe sparito. Un ronzìo diffuso e crescente si spandeva per l'aria. La folla, aperta a stento da due file di archibugieri, si rimescolava. Erano cittadini di Pinerolo, abitanti dei villaggi, gente venuta fin da Perosa, da Cavour e da Saluzzo, montanari discesi dalle Alpi, ravvolti in mantelli sbrendolati, con le berrettine nere sotto i cappellacci a larga tesa, con lunghi bastoni nel pugno, alpigiane infagottate in casacconi da uomini, coi ragazzi per mano. E avevano tutti davanti alla mente una sola immagine, quella figura quasi favolosa di Emanuele Filiberto, che nessuno aveva mai visto, di cui tutti parlavano da tanti anni, e che ciascuno si rappresentava a modo suo, gigantesco, spaurevole, sorridente come un padre, superbo come un nume, coperto d'oro, irto di ferro, fantasticamente vestito ed armato. I cuori battevano per la febbre dell'aspettazione. E batteva più di tutti quello di Evelina. Ma un pensiero l'atterriva quasi: il sospetto che il Benavides non venisse. Doveva partire la mattina dopo. Essa avrebbe dato il sangue per rivederlo ancora una volta. Una scampanellata improvvisa la fece tremare da capo a piedi. La folla degl'invitati s'aperse, inchinandosi; il Benavides venne innanzi, grande e elegantissimo, con una ruga diritta sulla fronte. Evelina diventò bianca: era l'ultima volta che lo vedeva! Ma subito fece uno sforzo violento per riafferrarsi con tutta l'anima alla gioia dell'aspettazione del suo principe, e si vinse. Accesa nel viso, coll'occhio scintillante, colle mani febbrili, andava e veniva, raggiustando le corone, contando i minuti, apostrofando ora l'uno ora l'altro con la voce commossa; ed era bella e superba. — Tu devi esser felice, Evelina! — le dissero le cugine, ammirandola, e facendosele intorno con tutti gli altri. E allora essa si sentì come sollevata da terra da un soffio irresistibile di entusiasmo, e trasfondendo in poche parole fiammeggianti, e nel linguaggio di una passione sola, tutta la forza delle due passioni che la divoravano, rispose: — Sì, sono felice, perchè è stato il sogno della mia infanzia e della mia gioventù questo giorno! perchè sarei morta per provare questa gioia! Dio mio! Ci ha restituito la patria e l'onore, ed è il più valoroso e il più nobile principe che abbia mai stretto una spada colui che aspettiamo! È Emanuele Filiberto, grande, buono, glorioso! È il nostro sovrano, il nostro liberatore, il nostro.... — Un colpo di cannone le soffocò la parola in bocca, e la costrinse a cercare la spalliera della seggiola. Emanuele Filiberto era al Belvedere. * * * Tutti corsero alle finestre per veder l'effetto prodotto nella folla da quell'annunzio. Il Benavides rimase in disparte. Egli aveva inteso le parole e visto l'atto di Evelina. Aveva la mente annebbiata e il sangue sottosopra. Era una di quelle potenti e chiuse nature catalane in cui la passione brucia per molto tempo nascosta come una lunghissima miccia restia, e poi scoppia improvvisamente come una mina. L'impallidire della ragazza al suo arrivo, aggiunto ad altre manifestazioni leggerissime che egli andava rintracciando nella sua memoria, e rimeditando da qualche giorno, gli aveva tolto a tutta prima quasi ogni dubbio sopra una verità ch'egli desiderava ora impetuosamente. Ma quella sua commozione straordinaria, quella sua esaltazione quasi vaneggiante per il Duca di Savoia, lo turbava, lo sgomentava, ricacciandogli nell'animo il sospetto che tutti gl'indizi d'una seconda passione ch'egli aveva creduto di scorgere in lei non fossero veramente che indizi mal compresi della prima. Egli sapeva che quelle ammirazioni entusiastiche per un principe glorioso crescevano qualche volta fino al più ardente amore, nell'anima delle fanciulle. Questo pensiero gli faceva salire delle ondate di foco al cervello. Egli si sentiva nel cuore e nella testa una di quelle tempeste oscure di sentimenti e di idee che precedono le grandi risoluzioni della vita. Seguitava coll'occhio fisso tutti i passi e tutti i gesti di Evelina. Non le era mai parsa, e non era mai stata infatti così ardentemente bella e viva, e riboccante di gioventù, di tenerezza, di forza, di grazia, giù dalle sue grandi treccie d'oro, per la lunga vita flessibile, fino ai piccoli piedi che si contraevano e fremevano come due mani. Ogni suo movimento, ogni suono della sua voce gli faceva balzar dal cuore una piena di parole appassionate, umidi, dolci, imperiose, che l'avrebbe soffocato s'egli l'avesse lasciata arrivare alle labbra. La guardava, l'inseguiva, e la vedeva confusamente a una grandissima lontananza, in una sala splendida di marmi e di specchi della sua casa di Gerona, serrata contro il suo petto, e avviticchiata al suo collo; e poi seduta accanto a lui, altiera e felice, in un ricco legno, tirato da cavalli superbi, giù per la Rambla di Barcellona; e poi abbandonata sulle sue ginocchia sotto la tenda vermiglia d'una barca dorata lungo le sponde dell'Ebro, pallida e stanca d'amore. E l'amava, la voleva, le avrebbe inchiodato la bocca sul cuore per suggere e trasfondere nella propria la sua anima bella. Non sapeva più comprendere come avesse potuto non curarla per tanto tempo, come avesse lasciato crescere, fomentato in lei quell'entusiasmo ardente per il Duca, invece di mettersi in mezzo subito, di separarla dal suo idolo, di farsi amare, di dirle brutalmente che voleva esser amato. Ed ora una smania lo invadeva di riguadagnare precipitosamente il tempo perduto, di conquistarla prima dell'arrivo del principe, di cacciarle dall'anima il suo rivale con una parola fulminea, tirandola in un canto, e bruciandole il viso con un bacio. Ah forse era troppo tardi! * * * Intanto, giù nella piazza, il fermento cresceva; le voci s'alzavano, la folla ondeggiava; a ogni finestra s'alzavano cinque, sette, otto visi, gli uni sugli altri; c'era gente sul tetto della chiesa e sui comignoli delle case; pareva che gli edifizi vivessero e parlassero, e in tutte le vie circostanti fluttuavano dei fiumi neri. Il notaio andava e veniva per le stanze, come brillo, battendo le mani sulla spalla, ora all'uno, ora all'altro, e gridando: — Padre della patria!... Padre della patria vorrà esser chiamato il nostro grande, il nostro gloriosissimo Duca Emanuele Filiberto! _Pater patriae!_ Pa-dre-del-la-pa-tria! — E per la contentezza della sua trovata voleva batter la mano, come al solito, sulla _testa di ferro_ del nipote; ma lo risparmiò, vedendo che anche lui, quel bestione, pareva finalmente commosso. Le campane empivano l'aria di una romba continua e assordante; la gran voce della folla entrava e risonava in tutti i recessi della casa. All'improvviso il rumore si chetò e una notizia corse. Il corteo era alla porta di Torino. Tutti si gettarono alle finestre. Evelina in mezzo al padre e alla madre, sul terrazzo; il Benavides dietro; gli altri schiacciati contro il muro. Passarono altri pochi minuti. Tutti i visi erano rivolti verso il fondo di via del Duomo. Evelina si sentiva saltare il cuore fino alla fontanella della gola. Nella piazza si taceva. S'udì un suono strano, un mormorio armonioso come di voci argentine che cantassero sommessamente una musica festosa e triste ad un tempo; il suono si alzò, avvicinandosi; e un'onda di bambini, duecento ragazzi puliti e ravviati, ciascuno con una bandiera nel pugno, empirono la via, stretti e seri, biancheggianti di neve, cantando, accompagnati dalla folla con un bisbiglio lungo di parole liete e carezzevoli; e dietro a loro, come un canneto di lancie, le guardie ducali a cavallo, ferrate e gravi, coi caschi punteggiati di fiocchi bianchi, salutate dalla folla con uno scoppio di grida. Immobile come una statua, con tutto il busto fuor della ringhiera, Evelina aspettò ancora un momento, con gli occhi fissi in fondo alla via; poi diede un tremito, e trattenne un grido. Era Lui. In mezzo alla bianchezza della neve, sotto un alto baldacchino di seta nera, sostenuto da sei signori vestiti a bruno, e seguito da un grande corteo, — veniva innanzi lentamente — immobile sopra un enorme cavallo bianco ingualdrappato a lutto — un cavaliere pallido, bello, impassibile come un simulacro —, tutto nero dalle piume ricurve del berretto ai larghi calzoni alla fiamminga, — vestito d'un giustacuore di velluto, su cui brillava il collare dell'Annunziata, in mezzo alle rivolte d'una grande casacca oscura, che lasciava uscire l'elsa ritorta e argentata della spada; — una figura poderosa e nobile di guerriero e di pensatore, — semplice ad un tempo e magnifica, — piena di una grande maestà e d'una grande tristezza, — che non era, e pareva colossale, — che riuniva non so che di gentile e qualche cosa di terribile; e che avanzandosi così mutamente sul tappeto candido della piazza, come una forma leggerissima che non toccasse la terra, diffondeva intorno a sè un senso di stupore e di mistero — e dava l'immagine d'un'apparizione più che umana. La moltitudine tacque, infatti, per un momento come sopraffatta da un sentimento di maraviglia e di timore: poi ruppe tutta insieme in un grido altissimo interminabile frenetico, in uno scoppio formidabile di entusiasmo e di gioia, tendendo furiosamente le sue mille braccia dalla piazza, dai portici, dalle finestre; e una pioggia di fiori e di corone cadde sul baldacchino, sui cavalli, sui gentiluomini, sulle guardie, sulla neve, costringendo il corteo a fermarsi come una carovana sorpresa da un uragano; ed Emanuele Filiberto rimase immobile per alcuni momenti ad aspettare la fine del grido. Tutti gli sguardi si confissero nel suo viso. Egli non diede altro segno di commozione che un istantaneo dilatamento degli occhi. Poi si rimise in cammino. * * * S'avvicinava al punto dove la via del Duomo sbocca nella piazza. Evelina, inchiodata, muta, affascinata, non aveva più staccato gli occhi da quella figura. Il corteo enorme e strano che veniva dietro in grande silenzio: il vescovo di Venza, grande elemosiniere, a cavallo, accanto al gran Cancelliere Conte di Stroppiana; il presidente del Senato di Torino, il grande scudiere, fiancheggiati e seguiti da ufficiali giganteschi degli arcieri, da vecchi ciambellani e da maggiordomi, da prelati, da curiali canuti, da paggi biondi e brillanti, da consiglieri e da sindaci di Pinerolo vestiti a lutto, da capitani della milizia, da staffieri armati di spade e di pugnali; una folla serrata, maestosa e lenta, dai larghi cappelli di feltro, dalle lunghe penne nere, dalle ampie casacche brune, di un aspetto austero e guerresco, come improntata della natura del suo principe, e che pareva venire piuttosto a una battaglia o a un giudizio solenne, che a una festa trionfale; questo nuovo e bellissimo spettacolo, dietro al quale si drizzava un'altra selva di lancie e di caschi imbiancati dalla neve, non attirò uno solo dei suoi sguardi. La grande e misteriosa figura del Duca incatenava a sè tutte le facoltà dell'anima sua. Nel punto che il baldacchino passava davanti al terrazzo, e che un nuovo scoppio spaventevole di grida faceva tremare la piazza e impallidire tutti i visi, la ragazza fu come presa da una vertigine d'entusiasmo e d'audacia, e alzata fuori della ringhiera la corona che era stata stretta fino allora nella sua mano come in una morsina d'acciaio, la gettò in aria d'un colpo, con uno slancio del braccio convulso, più forte che non volesse. Subito, restò pietrificata dal terrore. La corona, passando al disopra degli archibugieri, era caduta sul fianco del Duca, ed era rimasta infilata, dondolando, all'elsa ritorta della sua spada. Allora provò come il senso d'un sogno prodigioso. La folla applaudì a quel caso; il Duca, dato uno sguardo all'elsa, alzò il viso verso il terrazzo; il cavallo fece in quel punto un raddoppio; ed Evelina vide le sfolgoranti pupille azzurre di Emanuele Filiberto fisse per un momento nelle sue. Non fu che un momento, ma non ci resse: il corteo, la folla e le case le si confusero agli occhi, le ginocchia le mancarono, e cadde fra le braccia di sua madre. * * * Subito, in furia, fu portata dentro, adagiata sopra una seggiola, spruzzata d'acqua; rinvenne immediatamente; si scosse, si vergognò, domandò perdono, sorrise, — fece cenno che tornassero tutti sul terrazzo e alle finestre; — tutti sparirono; — rimase sola. Allora seguì un rivolgimento nuovo, e pur naturale, nell'animo suo. Svanito l'ultimo resto della gioia che l'aveva soverchiata, fu presa quasi tutto a un tratto da un grande sgomento, come se quella commozione sublime fosse stata la fine d'un sogno, il giorno più felice, e l'ultimo giorno felice della sua vita; come se, appagato quel desiderio supremo che era stato il conforto e l'alimento di tutta la sua giovinezza, non le rimanesse più scopo di vivere; le parve d'essere precipitata da una grande altezza e di ritrovarsi in una grande solitudine; vide come al chiarore d'un lampo il suo avvenire vuoto e malinconico, una successione interminabile di giornate grigie e fredde, la madre morta, la casa solitaria, la sua cameretta povera e triste, e lei, seduta in un angolo, sola, invecchiata, senza famiglia, senza speranze, senza amore; e mentre già il cuore le si gonfiava d'un'amarezza immensa, e il pianto le stringeva alla gola, un nuovo pensiero doloroso, intollerabile, le attraversò improvvisamente quei pensieri: — il Benavides partiva fra poche ore. — Il presentimento della tristezza mortale del dì seguente, diede l'ultima stretta spietata al suo povero cuore: chinò il mento sul seno, si coperse il viso colle mani, e lasciò sgorgare, in silenzio, un'onda ardente di pianto. In quel punto una voce strana, violenta, sgarbata, tremante di dolore e di sdegno, le gridò all'orecchio: — Ma voi l'_amate_, dunque, il vostro Duca! Evelina balzò in piedi, vide il Benavides pallido, con gli occhi ardenti, capì tutto, e un grido soffocato di amore pazzo e di gioia infinita le fuggì dalle viscere: — Enrico! Era uno di quei gridi che rivelano in un punto la storia d'un'anima, e che non lasciano dubbi. Il Benavides stette per un secondo attonito, come trasognato. — Ah! cara! bella! nobile! adorata creatura! — le gridò poi, afferrandole e baciandole furiosamente le mani; — amor mio! Evelina mia! — Strappò in furia dal cappello l'anello d'oro di sua madre, lacerando i nastri e la penna, lo infilò convulsamente in un dito alla ragazza, la riafferrò per le mani, l'attirò con sè alla finestra dov'erano i bambini, e ribaciandole i polsi, le palme, le dita, ansando, con la voce interrotta, indicando col viso il Duca lontano: — Amalo... — disse sorridendo — amalo pure... lo ameremo insieme... perchè a te ha ridato la patria, e a me... ha dato il tuo cuore! Evelina volle rispondere, ma i singhiozzi le chiudevan la gola. Arrivato in quel momento in fondo alla piazza, sul punto di sparire nel vicolo che conduce alla via Porta di Francia, Emanuele Filiberto voltò il cavallo verso la folla, si rizzò maestosamente sopra le staffe, e con un gesto vigoroso e superbo alzò tre volte in aria il suo berretto piumato. E quel poetico saluto parve ai due giovani un buon augurio ch'egli mandasse al loro nobile amore sbocciato sotto il sole della sua gloria, e parve alla moltitudine fremente un comando solenne ch'egli rivolgesse ai suoi sudditi presenti e alle generazioni avvenire, come se avesse voluto gridare con quell'atto: Le porte d'Italia son nostre! Emanuele Filiberto ve le affida! Difendetele! LA GINEVRA ITALIANA La prima gita a Torre Pellice me la fecero fare i carabinieri. Un giorno, passeggiando per Pinerolo, vidi un lungo cartellone variopinto del teatro delle marionette, con su scritto a caratteri cubitali: — _Questa sera si rappresenta: Le gesta e avventure del famoso bandito Delpero da Canale arrestato dal vice brigadiere dei carabinieri Luigi Gamalero, attualmente in riposo a Torre Pellice_. — Come! dissi fra me: il Gamalero è ancora vivo? Mi pareva che gli attori di quel dramma terribile, di cui fu protagonista il Delpero, e che terminò con sei impiccamenti solenni nella piazza maggiore della città di Bra, dovessero tutti esser morti e inceneriti da un pezzo. Sbagliavo, perchè non eran passati più di venticinque anni; ma gli avvenimenti che ci colpirono quand'eravamo ragazzi ci paiono quasi sempre più lontani del vero, forse per effetto di quella grande ebbrezza della prima gioventù che vi stese sopra i suoi fumi. Quel cartellone delle marionette mi richiamava alla memoria una delle commozioni più vive dei miei primi anni. Rividi la sala da desinare di casa mia, la famiglia a tavola, la cuoca che porgeva a mio padre la _Gazzetta del popolo_, arrivata allora, e poi tutta la scena: mio padre dà una scorsa al foglio, e grida: — Ah! l'hanno agguantato finalmente! — e noi tutti prorompiamo in una esclamazione di maraviglia e di gioia. Poi tutti zitti, immobili, a sentir la lettura d'una corrispondenza da Vigone, nella quale era raccontato l'arresto dell'assassino famoso, che da molti mesi atterriva e inorridiva il Piemonte; l'apparizione inaspettata dei carabinieri nell'osteria dove egli stava desinando con uno dei suoi, la lotta accanita, la resistenza furiosa del mostro, forte come un toro e svelto come una tigre, le varie vicende di quella mischia disperata che noi seguitammo con l'animo sollevato, quasi ansando, come se l'esito fosse ancora incerto; e finalmente il largo e profondo respiro dato da tutti all'intender quelle benedette parole: _Si arrese_. Dei carabinieri, non so come, m'era rimasto impresso il solo nome del Gamalero; e me lo ripetevo sovente, a voce alta, con gratitudine. Perchè era un pezzo, per dio Bacco, che noi ragazzi, facendo delle scappate in campagna, tremavamo di veder sbucare da una siepe o da un fosso lo spaventevole bandito, e scappavamo come il vento alla vista d'ogni faccia barbuta. Nessun altro masnadiero ci aveva mai ispirato tanto terrore e tanto ribrezzo. Era perchè il Delpero non aveva mai mostrato mai neppur uno di quei rari e istantanei sentimenti di mansuetudine che passan per l'animo anche ai malfattori più tristi, una di quelle qualità, per esempio, che avevan reso quasi simpatico, pur troppo, il famoso bersagliere Mottino: egli era un assassino tutto di un pezzo, una belva crudele e stupida, che uccideva inutilmente, e torturava prima di uccidere, e infieriva contro i cadaveri; uno sgozzatore di ragazzi, acceso di libidini orrende, perverso e feroce fin nel midollo delle ossa. L'avevano agguantato, dunque! Mentre noi leggevamo la notizia della sua cattura a Vigone, egli era già arrivato a Pinerolo, legato come un salame, in mezzo a uno squadrone di cavalleria. Tornavamo a respirare, potevamo rifare le nostre scampagnate col cuore tranquillo.... Di tutto questo mi ricordai lucidamente leggendo quel cartellone dei burattini. — Ah! è ancora vivo, e sta a due passi di qua, il Gamalero! Ebbene, lo andrò a trovare; e gli farò raccontare le sue gesta in mezzo a due bottiglie di Barolo vecchio. * * * Tre giorni dopo, infatti, una bella mattina dorata di settembre, mi trovavo sul treno di Torre Pellice, con due buoni amici pinerolesi (due editori, tanto per non perder l'abitudine); tutto contento di rivolare un'altra volta a traverso a quella vasta campagna così verde e così buona, coperta da una rete infinita di canali, di rigagnoli, di strade, di siepi, di file di alberi, e chiusa all'orizzonte da quelle grandi montagne di color celeste, così placidamente superbe. Ma non era passata una mezz'ora dalla partenza, che lo scopo della mia gita era mutato. C'erano dei viaggiatori, nel mio vagone, degli uomini maturi e dei vecchi, d'apparenza così tra il ceto signorile e il ceto medio, che avevano qualche cosa di singolare nel viso, nel vestire e nel contegno. Parlavan francese, e si capiva che non eran francesi, benchè si capisse pure che quella era la loro lingua abituale; erano italiani, e trovavo in loro non so che di diverso da tutti gli altri italiani, nelle linee del viso, nell'espressione degli occhi e della bocca, che so io? nella compostezza degli atteggiamenti, nell'intonazione tranquilla e quasi grave dei discorsi. Erano sbarbati la più parte, d'aspetto pensieroso, vestiti d'abiti oscuri; avevano le capigliature lunghe, dei cappelli bassi, di larga tesa, le cravatte nere; tutti puliti, austeri e semplici. M'ispirarono subito una viva curiosità. Io non avevo mai visto alcuno del loro popolo; poichè era evidente che appartenevano tutti ad una sola grande famiglia. N'avevo inteso molto parlare, peraltro, da varii mesi, perchè il loro nome si pronunzia assai sovente a Pinerolo, e con un sentimento di simpatia e di rispetto, anche dal popolo minuto; nella mente del quale esso risveglia un'idea confusa di grandi dolori e di grandi glorie passate. Avevo visto anche nella biblioteca di Pinerolo, sui margini di certi libri di storia, nei quali essi eran giudicati dall'autor cattolico con parole appassionate e ingiuriose, delle risposte sdegnose, scritte in furia a matita, delle sclamazioni ironiche e dei rimproveri amari, che rivelavano l'anima calda di lettori giovanetti, offesi nella loro fede; e m'era nato il desiderio di conoscerli e d'interrogarli. Ma confesso che sapevo assai poca cosa dei fatti loro. Per molti anni, da ragazzo, il loro nome non mi aveva chiamato alla mente altre immagini che lo strano emblema della loro fede: una candela che arde in mezzo a una corona di stelle, col motto _Lux lucet in tenebris;_ e il ricordo d'un bel quadro d'artista piemontese, il quale rappresentava un gruppo d'uomini e di donne, sfuggiti alle persecuzioni dei savoiardi, e raccolti sulla cima rocciosa d'una montagna, pallidi di sfinimento e di terrore, sotto il raggio rosato dell'aurora. Poco tempo dopo, negli anni della nostra rivoluzione, la storia delle loro lotte gloriose contro il despotismo teocratico m'aveva acceso d'un entusiasmo pieno d'affetto. Poi avevo dimenticato. Ed ora mi ritrovavo, quasi all'impensata, in mezzo a loro e stavo per entrare nel loro paese, e, cosa che non prevedevo ancora, nella loro storia, nella quale il mio spirito e il mio cuore dovevano poi rimanere per molti mesi, come imprigionati dall'ammirazione. Al nascere di questi pensieri, naturalmente, il vice brigadiere Gamalero si ritirò in seconda linea. Non desiderai più di arrivare a Torre Pellice che per veder la capitale di quel popolo così singolare e ammirevole. E intanto avrei voluto attaccar conversazione con qualcuno dei presenti. Ma il loro contegno non era punto incoraggiante. Due parevano assorti nei proprii pensieri, altri discorrevano a voce bassa d'una _Scuola latina_, che è nel villaggio di Pomaretto, posto all'imboccatura della valle di San Martino. Uno, che pareva un ecclesiastico, leggeva un piccolissimo giornale religioso, che si stampa a Pinerolo, intitolato _Le Témoin_. La sola persona a cui avrei potuto rivolger la parola era una signora sui quarant'anni, seduta davanti a me, vestita di nero, pallidissima, con un bimbo sulle ginocchia; una bella donna che pareva afflitta da una sventura recente, e guardava le montagne; ma con un aspetto che rivelava un animo così profondamente addolorato, e così forte, nello stesso tempo, contro il dolore presente, e così coraggiosamente risoluto ad affrontare i dolori avvenire, che la riverenza mi ricacciava indietro tutte le interrogazioni, anche le più gentili, che mi venivano alle labbra. Stavo non di meno per rivolgerle una domanda sul suo bambino, con quella timidezza con cui si dirige la parola a uno straniero in un paese straniero, quando il fischio della macchina a vapore annunciò che eravamo arrivati a Bricherasio.... * * * È un bel modellino di piccola città campagnuola, che fa i conti delle sue rendite, beatamente, ai piedi d'una collinetta da giardino, coronata d'una chiesetta candida, in mezzo a una benedizione di frutteti e di vigneti, tutti bianchi d'ombrellifere, che metton fame e sete a guardarli. — Gran bella cosa la proprietà agricola! — avrebbe esclamato il Prudhomme, affacciandosi al finestrino.... — migliore forse della proprietà letteraria. — Tutto spira un'aria d'abbondanza là attorno, e di vita grassa e contenta; l'aria d'un paese in cui non ora soltanto, ma da tempo immemorabile regni una pace da Bengodi, non stata mai turbata fuorchè dalle schioppettate dei cacciatori di quaglie.... Ma è un puro inganno di quel bel verde impostore, che dà l'aspetto innocente a ogni luogo. Dov'è ora la chiesetta bianca, ci fu per secoli un castellaccio; intorno alla cittadina graziosa girava una rude cintura di bastioni; e dal tempo che vi apriva la testa a mazzate la soldataglia dei feudatarii fino al giorno in cui il marchese di Parella vi vendicò il carnaio di Cavour, macellando il presidio francese venuto da Pinerolo, anche qui corse sangue sopra sangue, e s'ammontarono ossa su ossa. La strada ferrata passa appunto a sinistra dell'altura dove piantò il suo quartier generale Carlo Emanuele I, nel 1594, quando strinse d'assedio Bricherasio, difeso dai francesi, con quel suo poderoso e strano esercito composto di piemontesi e di svizzeri, di borgognoni e di spagnuoli, di milizie di Pinerolo e di Barge, e di milanesi, accampati tutt'intorno, lungo le rive del Chiamona e del Pellice. L'accampamento del duca occupava lo spazio coperto ora da un ricco vigneto: era come un piccolo castello di tela e di legno, formato da alti padiglioni conici, congiunti fra loro, con una piazzetta nel mezzo; e gli s'alzavano accanto da una parte le tende del Conte di Marino e di don Amedeo di Savoia, e dall'altra, altre innumerevoli tende e padiglioni bianchi, gialli e scarlatti, e baracche imbandierate, una città guerresca improvvisata, dove stavan la corte, la nobiltà, un visibilio d'alti uffiziali di Piemonte e di Spagna; e alla estremità opposta, Pietro di Padilla, generale dell'esercito di Filippo II. Lo spettacolo doveva esser vivo e splendido, se si pensa chi era il direttore di scena. Ora, nel luogo in cui s'alzavano i padiglioni ducali, su quello stesso tratto di terreno dove passeggiava a passi concitati, nelle notti insonni, quel grandioso capitan di ventura, stendendo col pensiero i tentacoli smisurati della sua ambizione dalla Macedonia alla Provenza, dal trono del Papa al trono di Boemia, dalla corona di Spagna alla corona di Francia, e meditando le vaste cabale e le giravolte astute e i colpi d'audacia che meravigliavan l'Europa; in quel breve spazio quadrato dove egli intratteneva con la conversazione rapida e scintillante i pomposi generali dei due eserciti, e divisava acquisti di quadri del Vasari e del Veronese, e poetava forse, e sognava la gloria immortale, impotente quasi a contenere nel piccolo corpo difettoso la piena tumultuante delle passioni; in quello stesso punto il vignaiuolo avido e astuto quanto il principe savoiardo, ma più cauto, stilla pacatamente la maniera di fare al padrone ciò che il principe avrebbe voluto fare all'Europa, e conta sulle dita i miriagrammi d'uva e le brente di vino che potrà buffare onestamente, ignaro affatto delle glorie storiche della sua vigna, e fin del nome di Carlo Emanuele. Così, con l'ignoranza, il contadino si vendica dei gloriosi devastatori della campagna. Poichè gliel'avevan conciata bene, tra assediati ed assedianti, a giudicarne da un disegno di quel tempo, fatto sul luogo dal Caracca, e inciso dal Fornaseri, a _Turino_. È un curioso quadro che rappresenta mirabilmente il castello, i bastioni di Bricherasio e tutta la campagna circostante, nel trentasettesimo giorno dell'assedio, e nel momento dell'ultimo assalto. Gli assediati son sulle mura; grandi masse di cavalleria spagnuola e piemontese ondeggiano tutt'intorno, lungo gli accampamenti e le trincee; tutte le batterie, dai lunghi cannoni, lampeggiano; le baracche dei vivandieri, una piccola città, posta sulla riva del Chiamona, fumano per apparecchiare il pasto della vittoria; in ogni parte del campo caracollano e galoppano uffiziali e carabinieri; tutto s'agita, freme, ribolle, s'avanza; già due colonne di spagnuoli e una di piemontesi e di borgognoni hanno assalito la cinta in tre punti, hanno superato il fosso, hanno invase le breccie; una è già dentro le mura; i difensori resistono ancora, ma vacillano; le grida di _Viva el Rey_ e _Viva il duca_ arrivano all'orecchio dei cittadini tremanti nelle loro case; altri pochi minuti e i tre torrenti umani, infranta l'ultima resistenza, irromperanno nelle strade strepitando e urlando: — _La ciudad es nuestra! I souma sì! Abajo las armas! Viva Bricheras! Döerve le porte!_ e convergeranno tumultuariamente verso la piazza.... Nella quale troveranno la bella statua del generale Brignone, il bravo soldato di Palestro, che è ritto là in mezzo al suo caro paese nativo, in quell'atteggiamento austero e quasi doloroso in cui lo vidi sulla via di Villafranca, il giorno della battaglia di Custoza, durante la ritirata lenta o muta dei suoi granatieri. * * * Passato Bricherasio, s'apre con maestà graziosa la bella valle del Pellice, dai due lati della quale s'alzano il Vandalino, superbo e triste, e la Gran Guglia, e i monti di Angrogna, e il Frioland, una varietà maravigliosa di cime cinerine che sorgono dietro alle alture verdi, di cime azzurre che si drizzano sopra le cinerine, di punte bianche che fan capolino sopra le azzurre, fino al confine di Francia; e tutt'intorno, dalle rive del torrente affollate di pioppi, su per le falde coperte di gelsi e d'alberi fruttiferi, vigneti sopra vigneti, e campi biondi su campi biondi, divisi da macchie di castagni, e boschi di pini e di faggi più alti, e ville, fattorie, chiesuole, capanne a tutte le altezze, come nelle vicinanze d'una città grande; e su tutta questa bellezza una gran pace. Sulla cima d'un bel poggio, da una parte della via ferrata, s'alza in mezzo ai castagni il castello severo di Bibiana; dall'altra luccicano al sole i tetti di San Giovanni; in faccia, salta fuori dai boschetti del Pellice il campanile bianco di Luserna. Intanto il treno corre in mezzo a palazzine eleganti, a giardini fioriti, a grandi mucchi e a lunghissime file di lastre di gneiss, cavate dai monti vicini, tra un martellare sonoro di operai, che si spande pei campi come un coro di voci argentine; e la valle si restringe, i monti si innalzano, la campagna.... Un momento.... Non si passa mica di là come si passa per qualunque altra stretta di montagne. Mette conto di arrestare per un momento il pensiero, in quel passo. Noi stiamo per entrare, siamo già entrati anzi, in una regione famosa e gloriosa, in una piccola Svizzera italiana, che ha là vicino, in Torre Pellice, la sua Ginevra, in mezzo a un popolo singolare, che forma come una nazione a parte nel seno della nostra nazione, raccolto quasi tutto e accampato in una vasta fortezza quadrilatera di montagne dirupate e boscose, compresa tra l'alta valle del Po, la frontiera del Delfinato e la valle di Susa. Questo popolo ha una storia propria, la cui origine si perde nell'oscurità del medio evo, una fede sua, una sua letteratura, un suo dialetto, un particolare organamento religioso democratico, che appartiene a lui solo, un'assemblea libera che tratta e decide dei suoi interessi più delicati, delle istituzioni speciali, fondate in parte e sostenute dalla liberalità di gente d'ogni nazione. Non occupa, e scarsamente, che tre valli, di cui una piccolissima, e otto valloni; e ha corrispondenze e stazioni in tutte le parti d'Italia, e colonie in Germania e in America, e vanta amicizie di popoli e di principi, ospita visitatori riverenti e devoti di tutti i paesi, manda soldati e divulgatori della sua fede in tutti i continenti. Fra abitanti del piano e montanari non furon mai più, o molto di più di ventimila, divisi in quindici parrocchie: eppure ebbero le vicende e la forza d'un grande popolo; ebbero i loro eserciti, i loro generali, i loro eroi, i loro martiri; trattarono molte volte da pari a pari con lo Stato cento volte più grande a cui appartenevano: sostennero trenta guerre, quali contro il Piemonte, quali contro la Francia, più d'una contro i due Stati riuniti; tennero testa per quasi un anno alla potenza di Luigi XIV. Come il popolo musulmano, sostennero urti di crociate fanatiche; furono strappati tutti insieme dalle loro terre come il popolo ebreo; si riconquistarono la patria come il popolo iberico. Dispersi, uccisi, distrutti quasi tutti come una razza infetta di cui si volesse purgare la terra, ripullularono più numerosi e più ostinati. Infine stancarono con la costanza invitta gli oppressori, si fecero invocare da loro nei pericoli, combatterono valorosamente per la causa comune, strapparono ai secolari nemici l'ammirazione e la gratitudine, li costrinsero a dar loro la libertà per cui lottavano da secoli, a vergognarsi del passato, e a festeggiare quella concessione come un bene e una gloria di tutti. E nonostante le mille persecuzioni, e le guerre spietate, e i lunghi esilii, che avrebbero dovuto spezzare intorno a loro ogni legame, e soffocare nel loro animo ogni altro affetto fuor che l'amore dei propri monti e l'orgoglio della propria storia, essi si mantennero sempre italiani nel cuore, e come furono del vecchio Piemonte, sono ancora una delle provincie più nobilmente patriottiche della nuova Italia. Onore ai valdesi, dunque! Eccoci a Ginevra... Voglio dire a Torre Pellice. Vediamo un po' questo illustre minuzzolo di capitale. * * * Scendiamo alla stazione, usciamo nella piazza.... Dove diamine siamo? In Italia, o in una città di passo della Svizzera e del Reno? C'era pieno di gente. I due amici mi spiegarono: era la stagione in cui vengono a passar le vacanze dai loro parenti i molti valdesi che esercitano l'insegnamento in quasi tutte le parti d'Europa, e specialmente in Olanda e in Inghilterra. Erano anche i giorni nei quali si raduna a Torre Pellice il sinodo annuale, a cui intervengono, in segno di simpatia per “il popolo dei martiri„ rappresentanti di tutte le chiese evangeliche del mondo: una specie di piccolo concilio ecumenico, di parlamento ecclesiastico, composto però di ecclesiastici e di laici in parti quasi eguali, il quale tratta tutte le questioni relative alle leggi e ai regolamenti che reggon la chiesa valdese, e i suoi istituti di beneficenza e d'istruzione. Molta gente arrivava, molta aspettava. Era un rimescolìo di maestri, d'istitutrici, di istitutori, di famiglie, un ricambiarsi di strette di mano e d'abbracci, un mormorìo di saluti in francese, in inglese e in tedesco; poichè non son pochi anche i tedeschi e gl'inglesi che soggiornano là durante l'estate. C'erano anche dei valdesi venuti dalle stazioni delle varie provincie d'Italia, da Venezia, da Roma, da Napoli; parecchi personaggi del Sinodo, pastori, evangelisti laici, professori, ministri emeriti, e anziani e diaconi di tutte le valli, quasi tutti con quell'aspetto particolare d'austerità benevola, vestiti di abiti neri, coi capelli lunghi e ravviati, coi visi lisci e placidi, composti senza affettazione, e come serenamente pensierosi. Apparivano pure, qua e là, degli ecclesiastici stranieri, delle canizie biondeggianti, dei visi ascetici, d'una carnagione di altri paesi: ministri protestanti degli Stati Uniti forse, o d'Australia; un pastore di Livonia, si diceva che ci fosse, e dei membri della chiesa riformata del Capo di Buona Speranza. Era uno spettacolo curioso a vedersi, in quella borgata nascosta fra i monti, tutta quella gente così diversa d'aspetto, di modi, di linguaggio da quella che si vede in tutti i paesi vicini. Pareva di ritrovarsi in mezzo a una di quelle grandi carovane di viaggiatori, messe insieme dagli impresari di viaggi internazionali, la quale non fosse discesa a Torre Pellice che per far colezione, e dovesse ripartire fra pochi minuti per ripassare le Alpi e risparpagliarsi per l'Europa. Tutti s'avviavano verso il paese, a passo lento, discorrendo pacatamente; e in mezzo alle tube lucide e ai grandi cappelli patriarcali di feltro nero, si vedevano spuntare delle cuffiette bianche di contadine valdesi, delle lunghe penne di soldati delle compagnie alpine, dei veli azzurri di signore e di signori, armati di alti bastoni, raccolti a brigatelle, che s'apostrofavano in piemontese e in italiano; poichè a Torre Pellice è il quartier generale degli alpinisti della sezione dell'Alpi Cozie; e il bel quadro aveva da una parte, sull'orlo d'un prato, le macchiette indispensabili di due carabinieri, immobili, che parevano venuti là per tenere nei giusti limiti la libertà di coscienza. Un bel quadro, una mescolanza bizzarra di gravità e di gaiezza, di accademico e di campestre, di nostrano e d'esotico, in mezzo a quelle alte montagne, sui confini d'Italia, dentro al verde immenso e quieto d'una delle più gentili valli delle Alpi. * * * Infilammo la via principale, passando davanti a una fontana pubblica che fece erigere il re Carlo Alberto, in segno di gratitudine per l'accoglienza affettuosa che gli fecero i valdesi nel 1844. Il paese stretto e lunghissimo, è tutto pulito e lindo, che par fabbricato da pochi anni. Somiglia a un villaggio svizzero. Le casette colorite di fresco, i salici piangenti che sporgon fuori dai muri bassi dei giardini, le torrette bianche delle chiese evangeliche che spiccano sulla vegetazione bruna dei monti, e le viti fronzute che formano delle tende verdi sulle facciate delle case turchine e rosee, gli danno una grazia singolare; guastata un poco dai grandi casoni nudi e grigi dei molti opifici, fabbriche di tessuti la maggior parte, che empion la valle d'un brontolio cupo e affannoso. Non ci sono che quattromila abitanti, metà dei quali, a un di presso, cattolici, e quasi tutti operai. Ma il carattere generale della piccola città è vistosamente valdese. C'è quella nitidezza, quell'aria di semplicità quasi ingenua che si ritrova nei sermoni dei pastori delle valli. Quelle iscrizioni insolite nei nostri villaggi, come _Circolo Letterario, Sala di Conferenze, Scuola normale, Pensionnat,_ che inalzano gli abitanti nella stima del visitatore, pare che nobilitino, in certo modo, anche l'aspetto materiale del paese, e gli aggiungano all'occhio qualche cosa d'originale. I vetri delle finestre tersissimi, le botteguccie anche più misere, ordinate e lucide, e non so che apparenza d'assestatezza in tutte le cose, mi ricordarono certi villaggi della Frisia e di Groninga. Le piccole strade erano animate; giravano molte cuffiette bianche; passavan dei signori, con delle palandrane scure, dei visi di professori, che leggevano le loro piccole gazzette locali, _Le Témoin_ o l'_Avvisatore alpino_, m'immagino; delle frotte di bimbi, coi libri sotto il braccio, uscivan dalle scuole, allegri ma senza far chiasso, vestiti da povera gente, ma senza cenci. Non osservai nulla di diverso, nell'aspetto della gente del popolo e dei campagnuoli, dal tipo comune piemontese; ma so che dei naturalisti stanno studiando se non esistano nella famiglia valdese certi particolari caratteri fisici, per effetto del numero grandissimo di matrimonii fra consanguinei che vi seguon da secoli: essi ci diranno qualche cosa. Noi, in un breve giro, incontrammo parecchi ragazzi bellissimi, punto somiglianti a quelli che credeva di trovare tra gli eretici il duca Carlo II, con un occhio in mezzo alla fronte, e sei file di denti pelosi. Incontrammo anche una signorina valdese, alta e superba, una vera bellezza, una donnina del Michetti ingigantita, che avrebbe fatto cader la bolla della scomunica dalle mani di Torquemada. E fu questa la sola vista che turbò un momento, per noi, la quiete serena di Torre Pellice. C'era in ogni parte un'operosità tranquilla, e come un buon odore di vita ordinata e raccolta; l'apparenza d'un paese in cui non fosse mai stato commesso un delitto, nè seguito un tumulto o una sventura pubblica, e dove i carabinieri stessero in villeggiatura.... A proposito: la passeggiata pei dintorni, naturalmente, la riserbammo a più tardi: la nostra prima visita fu per il vice brigadiere Gamalero. * * * Domandammo di lui all'albergo; ci dissero che faceva il garzone da un liquorista! Andammo dal liquorista. C'eran tre uomini seduti a una piccola tavola, in una piccola stanza, in mezzo ad una nidiata di bimbi. Dissi subito: — Dev'esser quello là; — non si poteva sbagliare. Egli ci portò il vermut. È veramente una figura da carabiniere piemontese dell'antica stampa; alto, membruto, d'aspetto grave, quasi cupo, con due grandi occhi scrutatori e i baffi grigi. È vicino ai settanta, ne dimostra dieci di meno: si capisce alla prima occhiata che doveva avere una forza erculea, e che l'ha conservata quasi tutta. Gli domandammo se voleva venire all'albergo dell'_Orso_ a bere un bicchiere con noi, e a raccontarci il famoso arresto. Rispose di sì, senz'altro, come se fosse una cosa già convenuta, e fece subito un'uscita da vecchio carabiniere, abituato alle formalità del servizio. — _Mi rincresce soltanto che non mi ricordo più del nome di battesimo di Delpero_. — Io lo sapevo: Francesco; e anche il soprannome, Nerone: li avevo visti in sogno più d'una volta, scritti sulla parete, a caratteri rossi. Fummo maravigliati della sua voce: una voce profonda, poderosa, un po' tremula, la quale, a' suoi bei tempi, doveva gridare degli _alto là_ da far accapponare la pelle ai cavalli. Due ore dopo era seduto a tavola con noi, e ci raccontava la sua vita, modestamente: figliuolo d'un capellaio d'Alessandria, soldato nella brigata Aosta dal 1835 al 1841, poi carabiniere; promosso vicebrigadiere, non so in qual anno, dopo un arresto rischioso fatto a Torre Pellice, e servizi resi durante il colèra, a Villafranca. Al tempo del Delpero, era di stazione a Vigone. Il bandito era cercato da varii mesi, furiosamente, da tutte le parti. Da ultimo aveva ancora ucciso a tradimento due carabinieri, di notte, sulla via di Pollenzo, e cercava di assassinare il delegato di sicurezza pubblica di Pinerolo, certo Francia, al quale aveva già dato molti anni prima una stilettata mortale, per cui l'avevan mandato in galera; donde era fuggito freddando un guardiano. Il Gamalero faceva continue perlustrazioni, faticose e inutili, nei boschi di Vigone, dove si credeva che il Delpero s'aggirasse con la sua banda. Una sera che ritornava stanco morto da una di queste corse, gli dicono che il brigadiere, uscito poco prima dalla caserma, cerca di lui. Egli va difilato all'osteria dell'_Orso marino_, dove gli pareva più probabile di trovarlo. C'era infatti, con un altro carabiniere: li aveva mandati a chiamare l'ostessa perchè eran capitate all'osteria due “brutte facce.„ Il Gamalero entra nella stanza grande. A sinistra della porta d'entrata, all'estremità d'una lunga tavola, c'erano i due avventori sospetti, seduti l'uno in faccia all'altro, che avevano smesso di mangiare. Il brigadiere, ritto davanti a loro, col carabiniere accanto, — un mingherlino, un po' tonto, — li interrogava. Un po' più in là, a un'altra tavola, stava cenando un altro avventore, un negoziante di bovi, corpulento, che osservava con curiosità quella scena. — Appena entrato, disse il Gamalero, appena vidi la faccia di quello seduto di fronte alla porta, dissi subito tra me: — Quello è Delpero. — Era un giovine sui ventisei anni, d'alta statura, coi capelli neri e la barba nera, d'una pallidezza di morto. Il Gamalero s'andò a piantare alle spalle di lui, vicinissimo, senza fiatare; e il brigadiere gli fece un cenno col viso: — Occhio alle mani dell'amico. — Intanto continuava a interrogare. Richiesti delle carte, gli avevan presentato un passaporto e un certificato patentemente falsi: i connotati non corrispondevano, le firme eran tutte della stessa mano. L'uno si faceva passare per un mercante d'agrumi, l'altro per un negoziante di vino. Il brigadiere incalzava con le interrogazioni, e osservava intanto che una tasca della giacchetta del più grande presentava un rilievo singolare. — Datemi di nuovo il passaporto, — gli disse, — e alzatevi, che riconosca un'altra volta la statura. — To'! — gridò allora il Delpero cacciando fuori con rapidità fulminea una pistola, e puntandola al cuore del brigadiere. Ma nel punto stesso il Gamalero gli vibrava un formidabile pugno nel viso, che lo buttava a terra. Il brigadiere e il carabiniere s'avventano sul caduto; il Gamalero salta sull'altro, lo afferra pel collo, e lo porta via di peso, sbatacchiandolo attraverso alla stanza.... Qui bisognò ridere per forza a sentire come il Gamalero, interrompendosi, accennò di volo, senza ridere, la sveltezza prodigiosa, la velocità sovrumana con cui il grosso negoziante di bovi, al veder la mala parata, non fuggì, ma volò, svanì per la finestra. La lotta fu tremenda. Il Delpero, armato d'altre due pistole e d'un coltello, lottava per salvarsi dalla forca; la disperazione gli dava una forza formidabile, la rabbia l'aveva mutato in una belva, si scontorceva, ruggiva, picchiava, si rotolava sul pavimento, abbracciato ai due carabinieri, fra le panche rovesciate e le stoviglie spezzate, scalciando e addentando, facendo degli sforzi di dannato per afferrare l'altre armi. Il Gamalero voleva correre in aiuto ai due compagni, ma non attentandosi ad abbandonare il suo prigioniero, gli andava torcendo la cravatta, e allentandola a vicenda, quando lo vedeva annerire; gli dava un po' di fiato, di tanto in tanto, per dirla con le sue parole, lo stretto necessario per vivere, come si fa con la chiavetta d'un becco di gas, che non si vuol nè spegnere nè tenere acceso. Il momento era terribile. C'era da temere che gli altri della banda fossero appostati là attorno; se accorrevano, tutto era perduto. Una persona s'affacciò alla porta: fu creduto un bandito; disparve subito; era un fratello dell'oste, mezzo scemo. Bisognava finirla. Il Gamalero, con una mano sola, stringendo il laccio più forte, strascinò il suo impiccato verso gli altri tre, afferrò un braccio all'assassino, gli fece cascar dal pugno la pistola, lo inchiodò a terra per la gola; e allora s'arrese, finalmente, e fu ammanettato. Subito accorsero guardie municipali e guardie nazionali. Il Delpero ansò per molto tempo. Le sue prime parole furono di rammarico perchè gli fosse mancato il colpo alla pistola. — Se non mi mancava, — disse con uno sguardo torvo al brigadiere, — a quest'ora lei sarebbe già in compagnia degli altri due. — Poi diede in smanie da forsennato, si dibattè, urlò che voleva morire, tentò di spaccarsi il capo contro il muro. In fine, si quetò, e fu portato alla caserma dei carabinieri, tra un urlìo orrendo della folla.... Ma io l'ho sciupato miseramente il racconto del Gamalero. È difficile farsi un'idea dell'eloquenza, disordinata, ma calda, gagliarda, scolpita, con la quale egli ci fece veder quella scena, e sentir quasi gli aneliti, i colpi, lo sgretolìo dei denti, le grida soffocate dei lottatori. A lui stesso pareva di ritrovarcisi, e gestiva, raccoltamente, ma con tale vigore, che quando torceva il pugno noccoluto per render l'atto con cui aveva serrato la strozza al suo fantoccio, mi pareva di sentirmi il colletto troppo stretto, e me lo sarei sbottonato con piacere. E tirò innanzi per un pezzo. Ci raccontò tutti gli altri avvenimenti della sua vita militare, dei quali non fu mica il più notevole l'arresto del Delpero: combattimenti sanguinosi con disertori, corpo a corpo, nelle tenebre, dentro a fossi della campagna; inseguimenti disperati d'assassini per stradoni solitarii, al lume della luna; lotte contro folle ammutinate, due contro cento, con la certezza della morte; il salvamento fatto da lui in una città dell'Emilia, d'un quadro del Guercino, sorprendendo con uno stratagemma astuto, di notte, i ladri che lo trafugavano; tante avventure e così strane e drammatiche, da far pensare perchè mai certi matti affamati di commozioni, che trovan la vita noiosa, non vadano ad arrolarsi nella “benemerita arma.„ Per la prima mezz'ora, parlò piemontese; poi, a poco a poco, si mise a parlare italiano, malgrado le nostre preghiere, quasi forzato da non so che capriccio fonico della memoria; un italiano stranissimo, tutto intessuto di frasi da _rapporto_ e di parole vernacole italianate con una desinenza in _i_; ma che non ci facevan ridere, nè sorridere, perchè eran l'espressione ingenua e rozza di quello che aveva d'italiano nell'anima, un'eco della gran voce della patria unita, ch'egli era arrivato in tempo a sentire negli ultimi anni della sua vita di soldato. E s'accalorava parlando, senza mai perdere, peraltro, una certa ritenutezza severa d'aspetto e di modi: ci spiegava certi segreti del suo mestiere, certe prescrizioni che faceva ai carabinieri novizii, per esempio, per arrivar addosso a dei malfattori, di notte, per una via di campagna: andar per un pezzo a passi lunghissimi, tra il passo accelerato e la corsa, in punta di piedi, nel mezzo della via, dov'è più alta la polvere; poi, a breve distanza, spiccare una corsa precipitosa, la quale ottien quasi sempre l'effetto di “far perder la testa„ ai bricconi, che rimangon lì, intontiti e immobili, senza neanche l'idea della resistenza; e diceva questo a voce bassa e concitata, fissando nel muro i suoi assassini immaginarii, con l'occhio scintillante, come se li vedesse davvero. Poi riferiva gl'interrogatorii imperiosi, che faceva agli arrestati, per confonderli; con una tale efficacia di espressione li ripeteva, che a un certo punto del racconto, sentendomi una sua mano sul ginocchio, e vedendo i suoi grandi occhi fissi nei miei, mentre mi domandava viso a viso, con quel vocione: — E i mezzi di sussistenza? — rimasi un momento imbarazzato, e quasi lì lì per rispondergli, timidamente: — Ma.... non so.... m'ingegno.... — Parlava a cuore aperto, facendo comprendere, senza esprimerli, tutti i suoi sentimenti più intimi, vedere tutto il fondo della sua semplice natura: e non si può dire la rettitudine d'animo, l'abborrimento profondo del delitto, lo sdegno superbo della viltà, il nobile concetto del proprio ufficio, il forte e netto sentimento del dovere e dell'onore, che si rivelava dalle sue parole, dal suo accento, dal suo viso. Non pareva un semplice carabiniere che parlasse, in certi momenti, ma un giudice, che so io? uno di quegli austeri monaci antichi, incolti, ai quali la fede illuminava l'intelletto; tanto il suo parlare era grave, nonostante la scorrettezza, e sensato, fermo, dettato da una coscienza onesta, e da un cuore forte, sano e generoso. E non un'ombra di vanteria nel suo discorso: si sarebbe giurato sulla verità assoluta d'ogni parola; non un lampo di compiacenza vanitosa nel suo viso, benchè mi vedesse pigliar delle note mentre parlava. — Signori, comandano altro? — domandò quand'ebbe finito, come avrebbe detto ai suoi superiori dopo una relazione di servizio. E dataci una forte stretta di mano, se n'andò senza cerimonie, serio come sempre, quasi triste, verso la sua botteguccia. * * * Quando uscimmo, la valle era tutta piena di sole, il paese faceva la sua _siesta_, mezzo insonnito, dentro al suo grande letto verde, sotto la vigilanza guerriera del Vandalino, la sentinella gigantesca delle valli, la quale da qualunque parte ci trovassimo, pareva che ci s'alzasse sopra il capo. Quello, e tutti gli altri monti circostanti, così ridenti alle falde, si fanno terribili di forme e di memorie, innalzandosi. Nei loro fianchi s'aprono caverne spaventevoli, covi antichi di saraceni, e poi ricetto di valdesi cercati a morte, convertite in stanze di tortura e in sepolcri. Ma la vegetazione è così folta, florida, allegra, che le memorie sinistre dei luoghi vi rimangono sotto soffocate. Per un buon tratto, camminando, non vedemmo altro che verde e azzurro. Il terreno saliva dolcemente. Quasi senza avvedercene, ci trovammo sopra un bel poggio, al confluente del Pellice con l'Angrogna, dove sorgeva la torre famosa, che diede nome al paese, e un castello disputato per lungo tempo tra Francia e Savoia, e più volte rovinato e rifatto; con la storia del quale è legata in gran parte la storia del popolo valdese. Ora non ne rimangon che pochi ruderi, quasi nascosti dalle piante. Di là si vede, sotto, tutto Torre Pellice, e i due torrenti, e più lontano, Luserna, e a destra e a sinistra, monti dietro a monti, e poi la pianura infinita: tutto così bello e felice quando splende un sole d'oro nel mezzo d'un cielo di zaffiro, ripulito da una buona arietta di settembre. Eppure quello è uno dei più sciagurati e dei più sinistri luoghi del mondo; il luogo dove risedettero, trincierarono i loro reggimenti, ordirono le loro trame, e diedero i loro ordini terribili quei governatori di nefanda memoria, quel conte della Trinità, quel Castrocaro, quel marchese di Pianezza, quel conte di Bagnolo, al suono del cui nome par di sentire confusa un'eco lontana di grida di raccapriccio e d'angoscia. L'enorme macchina di tortura che per centinaia d'anni spremette sangue, oro e disperazione dal popolo valdese, era piantata là, su quel poggio così gentile. Di là partivano, a grosse colonne, quegli eserciti feroci, composti in parte di soldati regolari, in parte di volontari, di campagnuoli fanatici, d'irlandesi banditi dal Cromwell, di saccheggiatori e di scampaforche, che i governatori sguinzagliavan nelle valli come branchi di mastini a fare le vendette del Dio dell'Inquisizione. E là riparavano, ritornando dalle spedizioni contro Villar, Bobbio, Comba, Taillaret, Rorà, Pra del Torno, cacciandosi innanzi il loro bottino vivente, famiglie cariche di masserizie, seguite dal bestiame delle proprie terre, pastori incatenati come ladroni, giovani colle orecchie strappate a furia di morsi, vecchi coperti di lividure, donne insanguinate pazze di terrore, che vedevan già con l'immaginazione le tanaglie e le ruote del Sant'Uffizio, e si stringevan contro i fianchi le teste dei fanciulli sfiniti dalla fatica e soffocati dai singhiozzi. Là intorno, sopra le cime di quei bei monti, seguirono quelle fughe tragiche di popolazioni d'interi villaggi, avvertite in tempo dell'assalto imminente, erranti per le nevi, al lume delle stelle, gli uomini coi ragazzi assiderati sopra le spalle, le donne coi bimbi moribondi nelle culle, striscianti nell'ombra delle rupi, al fischio delle palle degl'insecutori, mentre giù nella valle si alzavano le fiamme delle loro case e gli urli dei loro fratelli sgozzati. Là, per quei sentieri, lungo i due torrenti, passarono, nelle giornate memorande della grande espulsione, diretti alla pianura, per esser dispersi pei conventi e per le galere, per andare a morire a mucchi, pigiati come bestie da macello, divorati dalla fame e dai pidocchi, nei fossati delle cittadelle e nelle prigioni immonde, passarono in file sterminate, a centinaia, a migliaia, i mariti separati dalle mogli, i parenti divisi dai figliuoli, poveri, signori, vecchi, donne, infermi, feriti, legati a due a due, e coppia a coppia, con lunghissime corde, fiancheggiati dai soci della _propaganda fide_ che tentavan di strappare i bimbi alle madri, spinti innanzi a calci e a nerbate, coperti di scherni, di maledizioni e di sputi, come una turba di schiavi infami destinati alle fiere di un circo. E di là, infine, proprio dalla cima di quel poggio, fu dato il segnale di quelle stragi di Pasqua, di quella Saint-Barthélemy dei Valdesi, che strappò un grido d'orrore al mondo, e quei versi terribili al Milton; e dopo la quale degli uffiziali onorati buttaron la spada con disprezzo ai piedi del loro generale; là in quel tratto della valle e per tutto lo spazio che s'abbraccia di lassù con lo sguardo, famiglie intere, snidate dai nascondigli, raggiunte e accerchiate per le vie e per i campi, furon palleggiate sulle punte delle spade e delle alabarde; centinaia di sventurati fatti perire con quei supplizi inauditi, inventati dalle immaginazioni stravolte di carnefici pazzi e briachi, con quelle agonie eterne, la cui sola idea ci oscura la ragione; uomini e donne d'ogni età, sotto gli occhi dei loro più cari, scaraventati giù dai precipizii scannati, scorticati, sbranati, ridotti lentamente un carname informe che urlava ancora, e i bambini sfracellati contro le roccie, in cospetto delle madri mutilate, a cui schizzavan le cervella negli occhi.... Oh! Maledizione! Dolore! Vergogna eterna! Esecrabili memorie che inferociscono il cuore, che destano, con l'immaginazione della vendetta, anche nell'anima dei miti, la sete di sangue che era nell'anima dei carnefici!... Ma un altro sentimento tien dietro subito all'indignazione: uno scoramento triste, un disprezzo infinito della bestia umana, che fu capace allora di commettere quegli orrori in nome della religione, che li commise più tardi in nome della libertà, che li commetterà forse domani in nome dell'eguaglianza; che è capace ancora, dopo sei secoli, di ricordarli senza ribrezzo e senza rossore, di scusarli, di giustificarli, di gloriarsene. Non ci è che un conforto a quel pensiero, ed è il considerare che quelle atrocità obbrobriose furono inutili a chi le commise, e duplicarono la forza di chi le patì. Non foss'anche stato il sentimento profondo della propria fede, sarebbe bastato l'orrore, l'odio che dovevan provare contro i macellatori, a mantener i valdesi eroicamente immobili nella loro ostinazione; la carne, le viscere loro, oltre che la coscienza, dovevano abborrire anche dalla sola idea d'una simulata conversione; dovevano nascere con l'istinto della resistenza disperata nel sangue i nipoti di quei martoriati. Che gigantesco orgoglio si saran sentiti nell'anima di fronte ai propri nemici! E come si capisce che dovessero amare disperatamente il loro paese, e amarsi tra loro, legati com'erano gli uni agli altri da quelle tremende memorie, dall'odio mostruoso che li circondava, e dall'immensa pietà delle sventure comuni! * * * Dì lassù, guardando nel paese col canocchiale, vidi a una cantonata un cartellone di teatro che annunziava la rappresentazione del _Ventaglio_ del Goldoni. Non potevo trovare migliore pretesto per rompere il filo delle riflessioni tristi. Ma la prima volta che si va tra i Valdesi, è difficile sprigionare il pensiero dal loro maraviglioso passato. Quelle tre date terribili: 1561, 1655, 1686, che sono come le tre piaghe sanguinanti della loro storia, mi pareva di vederle scritte nei muri, incise negli alberi, tracciate sulle vie, segnate per aria, e che avessero quasi il senso d'un rimprovero e d'un avvertimento: — Raccogliti, ricorda, medita! Non è questo un luogo dove tu debba far faccia da ridere, figlio dei persecutori! — Che volete? Qualche cosa sulla coscienza, un minimo che, leggerissimo, me lo sentivo anch'io; tanto che i saluti e gli sguardi benevoli che ci rivolgevano i campagnuoli, incontrandoci, mentre scendevamo, mi sembravano quasi una gentilezza immeritata. Insomma, tutta quella gente avrebbe bene avuto un po' di diritto di darci quattro tanagliatine tra la spalla e il gomito, delicatissime, s'intende, per pura formalità di contraccambio. Tutti i putti che vedevo seduti davanti agli usci delle case, mi ricordavano quei cinquanta poveri bimbi dei Valdesi fuggiaschi da Pragelato, trovati morti gelati nella neve, gli uni nelle loro cune, gli altri fra le braccia delle madri irrigidite, lassù, sui monti della valle di San Martino, nella quaresima del 1440. Una ragazza bionda e graziosa, sui quattordici anni, che entrava in casa con un gran pane sotto il braccio, mi fece pensare a quella piccola eroina, che sorpresa dai soldati del conte della Trinità in una caverna, dove s'era rifugiata con l'avolo centenario, e visto trucidare il suo vecchio, spiccò un salto per scampare alle braccia degli uccisori, e rotolò morta sformata in fondo a un burrone. Una coppia matrimoniale, un po' più in là, un ometto sulla cinquantina, un po' curvo, che dava il braccio a una signora malata, di aspetto risoluto insieme e amorevole, mi richiamò alla mente quell'infelice Mathurin, e quella sua brava e buona Giovanna che volle morire con lui, nel 1560, legata alla stessa trave, sulla medesima catasta di legna, in faccia all'inquisitore generale e al prevosto generale di giustizia, nella piazza maggiore di Carignano. Quella stessa campagna così fiorente, la vedevo nuda in qualche momento, devastata, sparsa di rovine affumicate e di vestigia turpi d'accampamenti, come doveva offrirsi allo sguardo quando vi seguivano i casi maravigliosi che la resero celebre. Casi meravigliosi, infatti, anche per la mescolanza incredibile che presentavano di solenne, di bizzarro, di tragico, e a volte di ridicolo dall'una parte e dall'altra. Che strana cosa, quei brillanti aiutanti di campo che entravan di carriera nei villaggi, a intimare: — _O alla messa fra ventiquattr'ore, o la morte!_ — e che riportavano al generale quelle risposte: — _Meglio mille volte la morte che la messa!_ — E quei legati delle due parti che, nelle interruzioni dei combattimenti, si radunavano, ancora neri di polvere e stravolti, a disputare sul sacramento del battesimo, sulla supremazia del Papa e sulla transustanziazione! Strani, degni del pennello di un grande umorista, quegli sgomberi forzati dei conventi, quei monaci portati via sulle spalle dalle donne in mezzo alle grida festose del popolo: io li vedevo, per quelle strade, beccheggiare al di sopra delle teste della folla, come barconi sopra un'acqua agitata, e mi pareva che non fossero mica spaventati, alcuni di quei fratoni, di sentirsi di sotto le spalle rotonde di due robuste eretiche di venticinque anni, e che nell'appoggiar le mani sulle teste per non cadere, andassero palpando le grosse trecce con un'aria sorniona, sorridendo tra le palpebre semichiuse. E quelle sfide clamorose a disputare sul culto delle immagini e sulla presenza di Gesù Cristo nell'ostia, che si slanciavano da un paese all'altro, per lettera, monaci, gesuiti e pastori, chiamandosi a vicenda ignoranti, bestemmiatori, donnaioli e dannati; quelle scene tumultuose, quando i due avversari convenivan nelle chiese, l'uno seguito dai suoi Valdesi, l'altro da un codazzo di gentiluomini, di frati, di sagrestani e di bifolchi, in presenza d'un governator militare cattolico, che avrebbe dato fuoco a tutt'e due; e lì fiumi di chiacchiere, e grida, e gesticolamenti d'energumeni, e chi sa che birberie di cavilli, che scambietti d'arzigogoli da bastonate, e quante volte il santo randello sarà accorso in aiuto delle cattive ragioni! — Ma l'immagine che mi vidi più viva dinanzi per tutto quel giorno, che mi pesava quasi sull'animo come il ricordo d'un sogno spaventoso, come l'espressione di tutti i terrori e di tutti gli orrori della storia valdese, son quei convogli che passarono molte volte per quelle strade, nei secoli scorsi, quelle commissioni che venivan da Torino per estirpar l'eresia, in qualunque modo, con la persuasione, con le minacce e con la morte. Ah! no, studiate pure: voi non riuscirete a rappresentarvi alla mente un quadro più lugubre e più tremendo.... Il presidente del parlamento di Torino, dei consiglieri, dei membri del tribunale dell'inquisizione, una frotta di domenicani, di gesuiti, di arcieri di giustizia, e un seguito di contadini infanatichiti, armati di coltelli, e di predatori vagabondi raccattati per viaggio, e i frati cappuccini, e i birri, e il boia.... Raffigurateveli per una via di villaggio, di notte, che passano lentamente, fra le case mute, al chiarore delle torcie resinose che gettan per le finestre nelle stanze un riflesso delle fiamme del rogo; immaginate quel miscuglio di cappucci, di caschi, di pugnali, di crocifissi, di corde, quel rumore di catene e di tonache, quelle faccie barbute, quelle braccia in croce, quel mormorìo di preghiere, quelle fiamme fumose e quell'ombre sui muri.... Ah! l'orribile cosa! In pieno giorno, in mezzo a quel bel verde e sotto quel bel cielo, la scellerata visione mi strappava un grido muto dall'anima: — Via, larve nefande, spauracchi abbominevoli del passato!.... — e svanivano; ma per riassalirmi ad un altro svolto di strada, come uno stormo di upupe, che uscissero improvvisamente da un cimitero. * * * I miei due compagni mi condussero a fare una visita a un loro amico valdese, un signore sulla sessantina, dotto e amabile, padre d'una famiglia numerosa e studiosa, sparpagliata per l'Europa. In quei giorni, ce n'era a casa una buona parte; signorine e giovanetti, d'aspetto serio e simpatico. La casa mi parve che ritraesse qualche cosa del carattere della religione: una grande semplicità, le pareti bianche, una pulizia olandese, un ordine rigoroso: l'apparenza d'una casa in cui tutti dovessero levarsi prestissimo, e studiare, pregare e ricrearsi a quelle date ore, a regola d'orologio, come in un collegio. Parlavano tutti francese. I Valdesi colti parlan quasi sempre quella lingua fra loro. La introdussero nel paese, dicono, i pastori che vennero chiamati dalla Francia e da Ginevra dopo che la peste del 1630 ebbe portati via quasi tutti i pastori nativi delle valli; e aiutarono anche a diffonderla i giovani mandati a studiare di là dalle Alpi, e i libri religiosi, scritti in francese. Ora, peraltro, in quella predilezione del francese c'entra anche un po' di compiacenza, l'idea di parlare una lingua che tutti gli altri italiani vicini vorrebbero conoscere, e che essi conoscon meglio di tutti, e che è quindi, per loro, come un segno e un argomento di maggiore cultura. Ma si vanno italianando, lentamente, da parecchi anni. E intendo dire di lingua, perchè di cuore sono italianissimi, e non hanno punta simpatia, se così può dirsi, storica per la Francia; alla quale danno la parte maggiore di colpa nelle persecuzioni che ebbero a patire; non ostante che gli scrittori d'oltralpi s'ingegnino di persuaderli che i loro più funesti persecutori furono in ogni tempo gl'italiani. Certo, la quistione non è facile a risolvere. Ma questo è incontestabile, almeno: che la più terribile delle persecuzioni, quella per cui tutto il popolo valdese venne strappato dalle sue valli e disperso pel mondo, fu opera di Luigi XIV, e che gli orrori commessi in quell'anno dall'esercito del gran re nella valle di San Martino, stanno poco al di sotto delle famose stragi di Pasqua. Ma essi parlano di tutti quegli avvenimenti senz'ira, e quasi senza rancore, da vincitori che han perdonato; e perfino nei loro scritti storici, se qualche volta si lasciano sfuggire una parola violenta, non è quasi mai che una parola; alla quale segue subito l'espressione d'un sentimento di pietà e di benevolenza. Deriva anche questa moderazione dalla cultura, dalla conoscenza della storia, particolarmente, che è assai diffusa fra loro; per il che non cadono nell'errore di spinger troppo oltre le giuste recriminazioni, giudicando il passato con le idee del presente. Non c'è alcuno di essi che, nel giudicare le guerre atroci di cui furon vittime i loro padri nel sedicesimo secolo, non mostri d'aver chiaro in mente il concetto dello stato di quella Europa, divisa in due campi dalla religione, agitata furiosamente dal Papato, che andava riacquistando le antiche forze, insanguinata con egual furore da protestanti e da cattolici: il concetto, dico, della confusione di errori e di passioni di quel periodo di tempo, nel quale avevan color religioso tutte le guerre, e la teologia guidava la politica, ed era massima inconcussa in ogni Stato la necessità dell'unità religiosa, e che fosse fuor della legge chi era fuor della Chiesa, e che non si dovesse usare in materia di religione nè pietà nè misericordia. Perciò non si rifiutano di riconoscere, nemmeno nei più implacabili nemici di quegli anni, certe ragioni che valgono a scemare alquanto l'odiosità delle persecuzioni, o a spiegare almeno come le abbiano potute compiere, pure non essendo mostri di ferocia. Riguardo alla casa di Savoia, in particolar modo, mostrano una grande mitezza; la quale, per esser giusta, non è men generosa: pare che non ne ricordino che i benefizi. Rispetto ai primi duchi, lamentano l'ignoranza in cui eran tenuti, le favole calunniose con le quali venivano eccitati contro i Valdesi, dipinti a loro come gente depravata, selvaggia, impaziente d'ogni legge. Rispetto agli altri, sanno come fossero istigati, forzati alla violenza da Francia, da Spagna, da Roma; come anche i più severi di essi fossero rampognati, accusati di mollezza colpevole, specialmente dai Papi; come lo stesso Emanuele Filiberto, sotto il quale infuriò quel famigerato conte della Trinità, ripugnasse dalla guerra che il legato pontificio gli predicava necessaria con minacce e con rimproveri amari, e come manifestasse poi, con fiere parole, alla Corte di Roma la sua disapprovazione per il modo di procedere del Sant'Uffizio che “invece di punire, disperava„ e che era più atto “a distruggere, che a edificare.„ Ricordano con gratitudine l'ammirazione e la pietà di Filippo di Savoia. Non ignorano infine, che Vittorio Amedeo II resistette quanto potè alle istigazioni di Luigi XIV prima di rompere quella deplorabile guerra del 1686; che lo irritò con cento ripulse e con ogni sorta di scappatoie; che non cedette se non minacciato; che dovette cedere perchè il Re lo teneva sotto i piedi, per mezzo di Pinerolo e di Casale e con un esercito accampato in val di Chisone. Con tutto questo, è vero, non si giustificano pienamente nè gli ultimi duchi nè i primi; poichè, se non altro, avrebbero potuto fare assai di più per render meno orribili le persecuzioni a cui furono in parte costretti. Ma è raro che un Valdese esprima risentitamente questo pensiero. Non era nella loro indole, — dicono, — non era nell'indole dei duchi quello spirito di persecuzione implacabile. La forza che trascinava alla crociata i grandi Stati cattolici, li travolgeva. La società onnipotente _de propaganda fide_ li circuiva, li premeva, li aizzava, metteva loro la benda agli occhi e l'arma in pugno, li spingeva al sangue per disperazione. Dopo ogni persecuzione, infatti, sono come vinti dalla pietà, la generosità naturale del loro cuore ripiglia il di sopra, inclinano al perdono, accordano dei patti accettabili. Ma che vale? Il loro cattivo genio, il nemico dei Valdesi e di loro, che domina la nobiltà, la corte e la plebe, s'intromette, ristringe i patti, li nega, li viola, soffia nei rimasugli dell'incendio e fa divampare la fiamma. Senza dubbio, anche dalla parte dei Valdesi, sorsero qualche volta ostacoli alla pace e incentivi alla guerra. I loro predicatori non si restrinsero costantemente a difendere la causa propria, i ministri ugonotti venuti nelle valli fomentarono spesso la ribellione, predicando la costituzione d'una repubblica indipendente; e così gli uni che gli altri, con la propaganda del valdismo, seminarono la discordia religiosa nelle terre vicine, nè rispettarono sempre nei cattolici la libertà di culto che volevano in sè stessi rispettata. Ma sarebbe assurdo il fondarsi su questi argomenti per dire che la colpa delle immani barbarie commesse non deve cader tutta su quella inesorabile fazione papista, la quale non volle uscir mai dal dilemma della conversione o dello sterminio, e su quei generali senza dignità e senza cuore, che cercaron la gloria nelle carneficine per la rabbia di non poterla conseguire nelle vittorie. Questi hanno segnato d'infamia e rammentano con orrore i Valdesi.... Ma neppure contro questi si scagliano con quella eloquenza d'indignazione che pare dovrebbe essere irresistibile in loro: li giudicano invece e li condannano con un linguaggio severo e tranquillo di magistrati, con una specie di compostezza d'animo, che deriva pure in gran parte dalla loro indole forte, ma fredda, la quale si rivela massimamente in una mancanza d'impeto e di colore nelle loro scritture. È però facile riconoscere, anche sotto quel riserbo dignitoso, un sentimento profondo e vivo di alterezza, o come ora si dice, d'orgoglio nazionale; poichè nazione si possono chiamare veramente, sotto certi rispetti. Considerano sè medesimi come cristiani primitivi sopravvissuti nel nuovo mondo, e la propria religione come l'essenza stessa del cristianesimo; sono alteri di rappresentare il solo principio di protesta religiosa che abbia attraversato vittoriosamente i terrori del medio evo, di essere stati quasi i padri spirituali della riforma, oggetto per secoli d'ammirazione e di affetto in ogni angolo della terra dove battesse un cuore protestante; alteri delle loro sventure e delle loro battaglie eroiche, di quella “gloriosa rientrata,„ principalmente, e di quella miracolosa difesa della Balsiglia, paragonabili davvero l'una e l'altra alle più grandi cose dei tempi antichi; alteri anche del presente; della floridezza, della istruzione, della operosità, della virtù del loro popolo, a cui il mondo protestante ha decretato il titolo glorioso di “Israele delle Alpi.„ Della virtù, dell'onestà sopra tutto, poichè, sebbene riconoscano essi pure di non essere più i Valdesi d'una volta, e ammettano che anche nelle valli, come dice uno dei loro scrittori viventi: “entrarono il lusso, il libertinaggio, la calunnia, la lite, il gioco, la crapula,„ hanno per fermo nondimeno, e non lo tacciono, che “il loro grado di moralità sia superiore a quello di tutte le altre popolazioni italiane.„ E veramente il giudizio della maggior parte di coloro che li conoscono da vicino, non discorda dal giudizio loro. Io interrogai anche pochi giorni fa un dottorino veneziano, un giovinotto allegro che visse molto tempo nelle valli. — Che cosa le pare? È davvero un popolo più morale degli altri il popolo valdese? — Con mia grande meraviglia, egli si rannuvolò. — Ah! — esclamò poi con tristezza, — pur troppo! — E domandato della ragione di quel _pur troppo,_ mi raccontò una storia pietosa. Era innamorato d'una valdese, maritata, di umile condizione; ma bellina! ma cara! una delle più belle bocche che abbiano mai addentato un frutto proibito. E un giorno, trovandosi solo con lei, non all'aperto, la pregava, la scongiurava; e quella, che aveva simpatia per lui, resisteva, torcendo il viso, ma senza violenza, quasi con rammarico, cercando di acquietarlo con le buone parole, e pareva che non la dovesse durare più un pezzo; quando tutt'a un tratto s'alzò, corse in un canto, tornò con una Bibbia aperta, e gli disse: — Legga qui... e poi qui — con un accento commovente di preghiera, come se avesse voluto dire: — Mi rimetto alla sua coscienza, caro signore, abbia pietà dell'anima mia! — E il giovane lesse: _Si un homme dort avec la femme d'un autre, l'un et l'autre mourra, l'homme adultère et la femme adultère_.... _Les enfants des adultères n'auront point une vie heureuse, et la race de la couche criminelle sera exterminée_.... — E a quella lettura rimase lì, per servirmi della sua parola, come un asino; il quale suol dire d'allora in poi, come quel tal milanese dei _Promessi Sposi:_ — Quelli che non credono che ci fossero untori... quelli che non credono alla moralità valdese, non lo vengano a contare a me, perchè le cose bisogna averle vedute.... * * * Uscimmo da quella casa che tramontava il sole, e la valle e i monti eran già bruni; eccetto il Vandalino, che aveva ancora sulla testa un cappuccio d'oro. Per far l'ora della partenza, entrammo in un caffè, a carezzare il collo di una negrina di Bricherasio, ornata di un piccolo turbante rosso, che le dava una grazia maravigliosa. Là mi fu presentato un proprietario valdese, sulla quarantina, alto e poderoso come un dragone, e d'aspetto grave, ma d'umore lepido; uno di quegli uomini coi quali si piglia famigliarità fin dalle prime parole. — Badi, — mi dissero all'orecchio i due amici, scherzando; — questo è un Valdese _chauvin_. — E infatti, tra un sorso e l'altro, essendo caduto il discorso sulla storia valdese, io fui meravigliato della cognizione che n'aveva, non profonda, ma minutissima e precisa oltre ogni credere. È vero che non è difficile ai valdesi il conoscere la loro storia, a cagione della sua stretta unità, e del breve spazio che abbraccia. Ma quello faceva saltar sulle punte delle dita i pastori, i martiri, i sinodi, i combattimenti, le date soprattutto, come un cronologista di professione. Poichè era un _chauvin,_ volli provare a stuzzicarlo un poco, ed egli s'accalorò, senza smettere lo scherzo, ma pure senza ridere mai, e dando alla discussione una forma curiosissima, come se si parlasse di fatti del giorno innanzi, ed io fossi ai suoi occhi il papismo incarnato. Io accennavo alla parte dei torti che avevan pure avuto i Valdesi, servendomi dello stesso suo modo di parlare. — Ma scusi, — gli dicevo, — lei mi saccheggia tutte le borgate della pianura, lei m'incendia i conventi, lei mi macella le pattuglie piemontesi colte alla sprovvista, lei mi passa ottocento irlandesi a fil di spada a San Secondo.... — Sta bene, — egli rispondeva, — ma quando, non avendo io fatto nulla ancora di tutto questo, lei mi svaligia la casa, m'ammazza i figliuoli, mi fa arrostire la moglie, apre la pancia ai miei fratelli per cacciarvi dentro dei gatti vivi.... — Un carabiniere ingenuo ci avrebbe messo le mani addosso a tutti e due. Io era ben d'accordo con lui, in fondo. E mentre tirava innanzi a ragionare, credendo che non fossi persuaso, non gli badavo, e andavo pensando che egli poteva essere nipote d'una di quelle sante sventurate che morirono di stento tra le nevi del Moncenisio, in quel tremendo inverno della cacciata, o discendente d'uno di quegli eroici vincitori di Salabertran, che, stremati dalle fatiche, furon ripresi prigionieri sui fianchi dello Sci, al momento di rientrare nella patria, riguadagnata a prezzo di tanti dolori e di tanti rischi.... Poveri e grandi Valdesi! E lui continuava a discutere, e non sapeva che gli avrei concesso dieci conventi e ottocento irlandesi di più, tanto il pensiero di quella sua possibile genealogia me lo rendeva simpatico e mi disponeva ad assentirgli ogni cosa. Ma come cioncava! Delle fiancate di Campiglione, Dio lo conservi, che se n'avessero ingollato la metà i campioni assiderati del bravo Arnaud, là sopra i monti bianchi di val San Martino, i francesi avrebbero lasciato trecento morti di più fra le rocce. — Bah! — concluse poi, guardandomi, dopo aver sbacchiato e fatto sonare la lingua, da buon bevitore soddisfatto, — son tutte cose passate; non si ricomincierà più, non è vero? — Per parte mia, — gli risposi, — glie lo do per sicuro; non sono mai stato inclinato alle carneficine; domandi pure informazioni. — Però, — soggiunse il più giovane dei miei compagni, — se tornando qui a violar la libertà di coscienza, si potesse sperare di esser portati via, come quei frati di Villar, da due paia di spalle.... a scelta! — Allora, finalmente, il valdese si mise a ridere. E _sur cela,_ sopra quelle spalle, ci separammo amichevolmente; noi per ripartire per Pinerolo, e lui per andare a trincare in un altro luogo. * * * Era notte. Tutti quegli opifici, con le loro lunghe file di finestre illuminate, parevano tanti edifizi in foco, come quelle case di cartone che ci metton dentro un lume i bambini. Nel paese c'era quel brulichìo di ragazzi che annunzia l'ora d'andare a letto. Passando davanti al liquorista, rivedemmo a traverso ai vetri della finestra il profilo minaccioso del Gamalero. Nella piazza c'era un poco di passeggiata. Mi fece senso, a primo aspetto, dopo tutta quella fantasmagoria di guerre feroci di valdesi e di papisti, il veder passeggiare là un prete, giovane ed elegante, che si dondolava con una certa grazia di zerbinotto, guardando le signore; e mi parve che avesse una disinvoltura un po' studiata, come un ufficiale parlamentario in un accampamento nemico. Alla stazione c'eran tre o quattro famiglie valdesi; qualche bel visetto: due o tre signorine, che avrebbero fatto bene a portar sempre la Bibbia in tasca, come strumento di difesa. Credevamo di fare il viaggio soli, quando al momento della partenza, salirono nel nostro vagone un signore e una signora, che attirarono la nostra attenzione. L'uomo era una figura straordinaria: poteva avere dai trentacinque ai quarant'anni: alto, robusto, una gran barba nera, la fronte ampia, due occhi neri dolcissimi, la carnagione rosea, un'espressione di grande bontà, una testa di Cristo, non so che cosa nel viso, o piuttosto nell'aria del viso, che faceva indovinare una vita sobria e serena, tutta pensieri e propositi benevoli, e un'anima semplice, ma piena di vigore e di coraggio. La signora pareva poco più che trentenne, piccolina, bruna di capelli e di viso, con due belli occhi di bimba, viva e allegra, come se partisse per una scampagnata. Eran vestiti di scuro tutti e due; il marito aveva una cravattina bianca. Si guardavano sorridendo, tratto tratto, e poi guardavano noi, con quell'espressione particolare della gente buona che riceve sempre una prima impressione favorevole dalle persone sconosciute. Non tardammo ad attaccare discorso. Dimandammo dove andavano. La loro risposta ci maravigliò molto. Andavano al Capo di Buona Speranza! In Inghilterra prima, dove si sarebbero imbarcati, e di là al Capo di Buona Speranza, e dal Capo nel paese dei Bassutos, della stirpe dei Cafri. Egli era missionario, nativo delle valli; la sua signora, figliuola d'un pastore di Torre Pellice. Il suo nome era Weitzecker. Andava a predicare il Vangelo nella parte della Basutoland non ancora convertita al cristianesimo, e aveva già imparato qualche cosa della lingua poetica e musicale di quel paese. Una casetta solitaria, abbandonata da un altro missionario che s'era spinto più avanti, lo aspettava laggiù, ai confini della barbarie. Partiva con un piccolo bagaglio, la Bibbia, e pochi altri libri; e sua moglie l'accompagnava, per rimaner là con lui. Andavano incontro a una vita di privazioni, piena di difficoltà, di fatiche ingrate, di pericoli, in una terra quasi selvaggia, a una sterminata lontananza dal paese dov'eran nati e cresciuti, ed eran così tranquilli, contenti anzi, come due sposi che facessero un viaggio di piacere. — E ci va volentieri? — domandai al marito. — Sì, — mi rispose, — pensando allo scopo per cui ci vado. — Non teme dei pericoli d'ogni genere, a cui va incontro con la sua signora? — Il Signore ci aiuterà. — E ritorneranno poi al loro paese? — Prima di morire, speriamo. Ma diceva questo con una naturalezza, con una dolcezza da non potersi esprimere. Gli si leggeva negli occhi che, all'occasione, sarebbe morto per la sua fede, con la placida intrepidezza di Gian Luigi Pascal o di Giaffredo Varaglia; e ci guardavano intanto, lui e sua moglie, sorridendo della nostra ammirazione, con la stessissima sfumatura di espressione benevola, come se avessero un'anima sola. Per un pezzo non trovai più parola; non potevo finir di pensare, con un sentimento di stupore, alla immensa distanza che separava il mondo morale in cui io vivevo, da quello in cui viveva quell'uomo. Insieme con l'ammirazione, io provavo quasi un senso di pietà per lui, e per il suo avvenire; ed egli forse provava un egual sentimento per me e per la mia vita. E non aveva mica, non poteva avere nessun secondo fine quell'uomo, nè di gloria, nè di guadagno, nè d'altri vantaggi. Abbandonava la patria, i parenti, dava un addio a mille cose care, rinunziava alla vita civile, si esiliava dal mondo forse per sempre, spontaneamente, col cuore lieto, non per altro che per andar a dire a gente sconosciuta, all'estremità d'un altro continente: — Siate onesti, amatevi, perdonate, pregate, sperate! — E poc'anzi, ricordando le stragi di Pasqua, io avevo parlato di disprezzo per la natura umana. Oh grande, immensa, maravigliosa natura umana! Quelle due anime gentili e intrepide valevano bene esse sole a purgarla di cento sanguinose vergogne. Io li avrei ringraziati tutti e due del bene che mi faceva la loro vista. E non osando parlare, augurai loro affettuosamente, dentro di me, che li accompagnasse un tempo felice sul grande Atlantico, che trovassero buona accoglienza in quei paesi lontani, che vi fossero amati, che vi vivessero contenti, che non vi perdessero dei figliuoli, che potessero tornare un giorno alle loro valli, e che vi fossero festeggiati da tutti, e vi chiudessero la loro nobile vita senza dolori, amandosi sempre, e benedicendo il passato. — E mentre pensavo questo, e tacevamo tutti, essi guardavano le Alpi, disegnate in nero sul firmamento, vedendo forse col pensiero un altro orizzonte, una pianura sterminata dell'Africa, colla casetta solitaria che li aspettava. LE TERMOPILI VALDESI Cominciamo come i romanzieri d'una volta. Era una bella mattinata della fine di settembre, sul levare del sole, quando tre amici, ancora mezz'addormentati, un deputato, un giornalista e.... (la frase è tanto bella e nuova che non posso trattenermi dal metterla) e _chi scrive queste linee_, uscivano insieme dal buon albergo dell'Orso, dove si cucina magistralmente il camoscio, e discendevano la strada principale di Torre Pellice per recarsi nella valle d'Angrogna, con l'intenzione di rimontarla fino al celebre Pra del Torno, chiamato “il santuario e la fortezza delle valli valdesi.„ — Ci vada, — m'avevano detto Valdesi e cattolici, — è la più originale e la più romantica di quelle valli, oltre che è la più gloriosa; lei ne ritornerà entusiasmato. — E m'avevano dato una commendatizia per il pastore d'Angrogna, il signor Stefano Bonnet, nativo del luogo, un barbone venerabile di ottanta o novant'anni, m'immaginavo; il quale sarebbe stato per me, dicevano, il più dotto e cortese cicerone che potessi desiderare. Il tempo ci favoriva. C'era un cielo, come suol dirsi, tirato, limpido da parere che non si dovesse più rannuvolar per un mese, e il Vandalino drizzava la testa granitica in quell'aria pura, tutto dorato dal sole, superbo come ne' più bei giorni delle sue vittorie. * * * In pochi minuti ci trovammo vicino all'imboccatura della valle, ai piedi della bella collina di Rocciamaneot, che è come un forte avanzato di val d'Angrogna; intorno al quale toccarono una delle prime batoste, nel 1488, le truppe tumultuose del legato d'Innocenzio VIII, e dove, circa duecento anni dopo, uno dei personaggi più eroici e più poetici della storia valdese, il capitano Ianavel, respingeva, con soli seicento de' suoi, tre assalti furiosi dell'esercito di Carlo Emanuele II. Ma chi volesse arrestarsi a notare tutti i combattimenti che seguirono su quelle alture, non arriverebbe mai a Pra del Torno. I Valdesi furono assaliti, nel giro di tre secoli, in tutti i punti del loro paese, da Pragelato a Lusernetta, da Bobi a Pramollo, in pianura e sui monti, nella buona stagione e nel cuor dell'inverno, da eserciti regolari, da volontari, da crociati, da banditi, dopo lunghi apparecchi e all'improvviso, con vasti accerchiamenti e con forze raccolte, alla scoperta e a tradimento, con tutte le combinazioni strategiche, con tutti gl'inganni leciti ed illeciti, con tutte le industrie politiche, guerresche e brigantesche, che possano cadere in mente umana. Ogni palmo delle loro terre, ogni rupe dei loro monti ha la sua storia di sangue, di fuoco e di gloria. Ma le memorie più solenni e le glorie più antiche sono della valle d'Angrogna. Questa fu la meta suprema di tutti i capitani cattolici e nello stesso tempo la rabbia, la vergogna, la disperazione loro. E perciò è la più amata e la più venerata dai Valdesi, la loro valle sacra, che chiamano anche “il cuore delle valli„ e di cui è difficile che pronunzino il nome in presenza d'un forestiero, senza guardarlo negli occhi. E per questo pure, arrivati che fummo vicini all'imboccatura, affrettammo il passo tutti e tre, senza parlare, impazienti di sprofondar lo sguardo là dentro, come in un luogo pieno di maraviglie e di misteri, nel quale i cattolici profani non potessero entrare che di contrabbando. * * * Il primo aspetto della valle, infatti, è strano, misterioso, indimenticabile. M'avevan detto: è una valle angusta. Ma non m'aspettavo di vedere uno strettoio, un imbuto di valle a quel modo, e così bella malgrado la sua angustia, e così triste nonostante la sua bellezza. La stradicciuola che pigliammo corre orizzontalmente, dopo una breve salita, sul fianco dei monti che formano il lato destro della valle, a una grande altezza dal fondo. Il fondo è così stretto, che in alcuni punti ci passerebbe appena una compagnia schierata, o quattro file di soldati da una parte, e quattro dall'altra del torrente. Dalla strada in giù tutto era ancora nell'ombra. Dopo pochi minuti di cammino, vedemmo uno spettacolo bellissimo: a destra, davanti a noi, sulla cima di tre alture successive, ancora immerse quasi nell'oscurità, una chiesa valdese, una chiesa cattolica, e poi una seconda chiesa valdese, l'una dietro l'altra, bianche, inargentate dal sole, che pareva che splendessero, e solitarie in mezzo a una vegetazione cupa foltissima, che copriva ogni cosa d'intorno. Nella valle, un silenzio profondo: non un'anima viva nè per la via, nè sulle alture, nè per i fianchi dei monti, nè in basso. Solo i colpi affrettati del maglio d'un opificio, che non vedevamo, empivano di tratto in tratto la valle d'un fracasso assordante, il quale, cessando, faceva parer più alto il silenzio. I monti essendo squarciati a brevi distanze da valloni scoscesi per cui precipitano dei rigagnoli e dei torrentelli fin giù nel letto dell'Angrogna, la via gira dentro a ciascuno di questi valloni, nell'ombra, passa sopra un ponticello, riesce fuori sul fianco esterno del monte, al sole; poi daccapo rientra nell'ombra, poi esce al sole un'altra volta, e così avanti, con un serpeggiamento serrato e regolare, che fa cangiar veduta a ogni passo. E quei valloni sono così profondi, oscuri, umidi, affollati di vegetazione, che entrandovi e uscendone, par di passare di punto in bianco dal pieno giorno alla notte e dalla notte al giorno, e si è presi da un brivido ad ogni svoltata. Si cammina sull'orlo di precipizi rocciosi, sul ciglio di rive ripidissime, simili a grandi muraglie verdi leggermente inclinate, e tutte tempestate di freddoline, in mezzo a veri boschi di castagni giganteschi, che vengon su quasi dal fondo della valle, e s'innalzano ancora d'un grande tratto al di sopra della via e sul capo di chi passa, dentro a macchie di quercie, di noci, di roveri, di pioppi, e poi di nuovo tra castagni altissimi, fasciati di virgulti dal piede al nocchio, coi rami enormi allargati in mille forme strane, di braccia di candelabri giganteschi, di membra colossali agitate in atto disperato, o di mostruosi artigli distesi per afferrare una preda nel cielo. Tutto verde intenso, tutto forte, grande e austero, alberi, macchie, roccie, scoscendimenti, recessi. E l'ombra era così turchina, densa in quei grandi squarci dei monti, che, stando da una parte, non si vedevano quasi affatto i gruppi di case di pietra grigia, che eran dalla parte opposta, a pochi passi di distanza, addossati alla china; e i monti dell'altro lato della valle, visti da quel fondo nero illuminati dal sole e come inquadrati fra i due fianchi oscuri del vallone, davan l'idea d'un paese in cui regnasse un'altra stagione, parevano sfolgoranti d'oro, e abbagliavano. All'uscire da ciascun vallone, vedevamo, da una parte, l'alto della valle, che sembrava chiuso in maniera da non poter più far mezz'ora di cammino; e dall'altra, l'imboccatura, chiusa pure dalla gran mole azzurrina e violetta del Frioland, dalla punta della Rumella e dai monti lontani di Bagnolo, che fiancheggian la valle del Po, quasi svaniti nel cielo. Le poche case che trovavamo sulla via erano chiuse e mute. Non si vedeva nessuno da nessuna parte. Non c'era altro indizio di paese abitato che quelle tre chiese alte, bianche e solitarie, che sembravano allontanarsi come case fatate, via via che andavamo avanti. Anche il rumor del maglio era cessato. Non si sentiva più nulla. Ci pareva d'esser noi tre soli in tutta la valle, e nessuno parlava. Era una bellezza, uno stupore, un incanto. * * * Dopo un'ora e mezzo di cammino arrivammo sopra un'altura, alla sede della parrocchia di Angrogna: un gruppo di casette pulite, una tettoia, una piazzetta nel mezzo, piantata d'alberi, una iscrizione a una cantonata, in grandi caratteri: _Pubblicazioni di matrimonio;_ un tempio bianco un po' più in alto, in disparte, e tutt'intorno verzura, e non un'anima viva. Ma quasi subito sbucò dalla porticina d'un orto il pastore Bonnet. Io che m'aspettavo una specie di vecchio della montagna, rimasi molto maravigliato al vedere un bell'uomo sulla quarantina, con tutta la barba nera, alto e svelto, di viso sorridente e di modi amabili, vestito di scuro, ma con un certo garbo signorile, che se non avesse avuto la cravatta bianca, si sarebbe potuto pigliare per un capitano dei bersaglieri in villeggiatura. E fui anche più maravigliato, sapendo ch'era nativo d'Angrogna, quando l'intesi parlare con pronunzia quasi perfettamente toscana. Seppi poi che l'aveva presa nell'isola d'Elba, dove era stato nove anni, e a Firenze. C'è però nel collegio di Torre Pellice un bravo professore toscano, dal quale quasi tutti i maestri e le maestre valdesi piglian qualche cosa del _parlar celeste;_ per il che non è raro di sentir toscaneggiare fra quelle montagne. Il signor Bonnet si offerse cortesemente di farci da guida, e ci trattenne per parecchi minuti sulla piazzetta a discutere il programma della giornata. Per tutto quel tempo, e per un buon tratto di strada quando ce n'andammo, c'intronò gli orecchi un canto altissimo, che usciva da una casetta chiusa, il canto d'un uomo che lavorava, e che cangiava arietta continuamente, senza interrompersi, saltando dallo stornello campagnuolo alla _Traviata_, dalla canzone militare al _Rigoletto_, con una vivacità, con una furia allegra, con una vigorìa di voce e di pronunzia, che pareva pagato per tener di buon umore il villaggio. — È più felice d'un milionario, — disse il Bonnet, sorridendo. — E il deputato soggiunse con ragione, che non si cantava più, nelle città, a quella maniera. Tutt'a un tratto tacque, e vedemmo il suo viso alla finestra, un viso beato; ma disparve subito, e intonò un coro dei Lombardi. Il pastore ci fece vedere il suo tempio piccolo e nudo, una specie di villino smobiliato, piuttosto che di casa di Dio. Ma è un tempio storico, il più antico della valle, fondato verso la metà del sedicesimo secolo, nel luogo dove solevano radunarsi i Valdesi, all'aria aperta, a deliberare e a pregare; stato distrutto dai monaci, poi riedificato, servito di caserma ai soldati del marchese di Pianezza, che s'accamparono là attorno; ed ora ringiovanito e tranquillo per sempre. Il signor Bonnet ce lo mostrò con una certa espressione d'affetto e d'alterezza, dicendoci del lungo ordine dei pastori, alcuni martirizzati ed altri morti di peste, che l'han preceduto fra quelle mura per il corso di quasi quattro secoli; e quella sua voce dolce e armoniosa, quelle memorie di pastori antichi, quella solitudine verde tutt'in giro, e il canto infaticabile di quell'operaio che si spandeva per la valle silenziosa, ci facevano un'impressione singolare, come d'un angolo del mondo lontanissimo da quello abitato da noi, e ignorato da tutti, in cui si godesse ancora la pace delle età primitive. Il pastore ci propose d'andar a vedere la _Ghiesia d'la tana;_ la chiesa della tana, una delle meraviglie della val d'Angrogna. — Sono alpinisti? — domandò. — A ore perse, — risposi. — Perchè bisogna rampicare, — soggiunse. E si mise a salire per il primo, con la sveltezza d'un montanaro. * * * Era una caverna che serviva di chiesa e di rifugio ai Valdesi al tempo delle persecuzioni. Se non si sa dov'è, è quasi impossibile trovarla. Dopo dieci minuti di salita ripida su per un terreno erboso e fradicio, vedemmo un ammasso di roccie, nel quale però non appariva alcuna apertura. Si continuò a salire, poi si discese per un sentiero da capre, appoggiandoci ai macigni, aggrappandoci agli arbusti, sedendoci qualche volta improvvisamente, fin che s'arrivò dentro a una specie d'atrio della caverna, mascherato da alcuni tigli. L'entrata è larga, ma di pochi palmi d'altezza, tutta punte di sopra e di sotto, simile a una bocca di roccia che digrigni i denti; in maniera che non ci si può entrare che accoccolandosi col mento sulle ginocchia, o allungandosi in terra, sul fianco, e strisciando, come un ferito che cerchi aiuto. L'entrata della grotta azzurra di Capri è un portone di palazzo in confronto di quella maledetta buca da lettere: a ficcarcisi, par proprio di impostar sè stessi per l'altro mondo. Il pastore accese un moccoletto, e s'infilò per il primo; noi ci coricammo sui pietroni, l'un dopo l'altro, in atteggiamento di gladiatori morenti, e badando bene alla cappadoccia, rotolammo dentro, senza gravi ammaccature. Appena entrati ci trovammo al buio; ci volle qualche momento per raccapezzarsi. La caverna è stretta e lunga, della forma d'una grande spaccatura, capace di circa a duecento persone, rischiarata fiocamente dall'alto, per tre aperture sottili, che paion tre feritoie orizzontali, e ingombra in fondo di massi enormi di roccia. Quel po' di luce che vi scende le dà l'aspetto sinistro d'una carcere sotterranea di castello, dove i prigionieri ricevano il cibo dalle fessure della volta. Il pastore ci diceva che alle volte vi si piglian dei pipistrelli nei vani delle pareti, così, allungando la mano. È una luce giallastra, tristissima, più ingrata delle tenebre, che dà ai visi delle persone una pallidezza di gente spaventata. L'angolo opposto all'entrata era oscurissimo: il signor Bonnet, ritto là in fondo sopra un macigno, col moccoletto che gli rischiarava il viso di sotto in su, aveva l'apparenza d'uno spettro. Certo che doveva destare una commozione profonda il pastore dalla lunga barba bianca che da quel pulpito di roccia, al chiarore d'una fiaccola, predicava con voce sommessa alla folla, pigiata in quella specie di cripta selvaggia, in cui ciascuno poteva temere di essere entrato per non uscirne mai più. Mentre il pastore predicava o i fedeli cantavano i salmi a mezza voce, dei giovani valdesi stavano alla vedetta sulle alture vicine. Al lontano apparir delle avanguardie nemiche, davan l'avviso, e allora, giù nella grotta, si faceva un silenzio di tomba, e si stringevan gli uni agli altri, tremando e pregando col pensiero, fin che i nemici fosser passati, inoltrandosi nella valle. Ma così non seguiva sempre. Qualche volta le spie, qualche volta i cani, addestrati alla caccia dell'uomo, guidavano i soldati per il giusto sentiero; e allora le vedette accorrevano col viso esterrefatto a portar l'annunzio tremendo: le madri si stringevano i bimbi sul cuore, i padri benedicevan le famiglie, gli amici si scambiavano l'ultimo saluto, e poi, immobili, muti, col respiro sospeso, tendevan l'orecchio, raccomandando l'anima a Dio.... Ah! quel suono delle alabarde picchiate nelle rocce dell'apertura! Quelle voci tonanti che gettavan per gli spiragli il comando di uscire! Quel rumore delle legna e delle foglie secche ammucchiate davanti alla buca, e i primi nuvoli di fumo che entravano, accompagnati da uno scoppio di bestemmie e di risate di scherno! Pensando a questo, par che quella piccola fessura per cui si è entrati a fatica, si debba chiudere di momento in momento, e si prova un senso d'affanno, come in quei brutti sogni, nei quali aggirandoci per i meandri d'un sotterraneo, vediamo spegnersi tutte le fiaccole e udiamo sbarrar le porte da ogni lato. Tant'è vero, che nonostante l'invito del pastore, non ci volemmo ficcare in altre due tane, ultimo rifugio dei disperati, le quali sono come due ripostigli della caverna grande, difficili molto a scoprirsi; e salvarono forse la vita a più di un infelice. Già che non c'erano i soldati del conte della Trinità! E poi splendeva un così bel sole di fuori! Ci tornammo ad allungare in terra.... Ma questa volta fui meno fortunato della prima, e diedi una capata che mi mise sottosopra centocinquanta pagine delle _Porte d'Italia_. — Badi alla testa! — gridò il Bonnet, che era già fuori. — Grazie! È già fatto! — risposi. — E mi parve che sorridesse della mia risposta. Ma sorrideva forse con un altro pensiero, vedendoci strisciar tutti e tre a quella maniera, come tre schiavi sotto il bastone. — Ci avete fatto passar di lì tante volte voialtri, — avrà pensato; — è giusto che vi ci facciamo passare un poco anche noi, cani di papisti. — Ma il suo viso dolce non rivelava punto la compiacenza della vendetta. Aspettò che avessimo rimesso a posto i panni e le ossa, e poi riprese la direzione della marcia, saltando di macigno in macigno, con la sicurezza di un pastore antico, esercitato alle battaglie dei monti. * * * Ripigliammo la via della valle, udendo per un buon tratto la voce del felice angrognino che cantava l'_abbietta zingara_ del _Trovatore,_ e passammo sopra a un torrente, chiamato Vengíe, quasi nascosto dalla vegetazione, che riempie il suo vallone ripidissimo; il quale forma una prima linea di difesa di val d'Angrogna contro l'assalitore che venga da val di Luserna. Da una parte del torrente s'alza una enorme roccia diritta, simile al piedestallo d'un monumento titanico, alla quale si lega una leggenda graziosa. Una volta all'anno, dicono i valligiani, tra la mezzanotte e il tocco, una vecchia sta sulla cima di quella roccia a filare, lasciando spenzolar giù il fuso, che dondola, girando, nelle tenebre. Il giovane che passa di là, è chiamato, perchè cerchi d'afferrare il fuso, alla cieca: se l'agguanta, la sua felicità è assicurata; canterà anche lui per tutta la vita, come quel tale fortunato. Ma non è la sola cosa notevole del luogo, quella roccia. Il torrente Vengíe divide in due parti il territorio della parrocchia d'Angrogna; e questo è curioso, che di qua e di là, a pochi passi di distanza, si parlano due dialetti notevolmente diversi; l'uno, quello della parte bassa, più simile al dialetto del Piemonte, l'altro con molto maggior fondo francese. _Scrivou cista dua grissa per fa vou conoisce lou langage d'Angreugna, che a smiglia ren dar tout a noste parlà_. Più strano è che, anche da Valdesi a Valdesi, c'è una certa rivalità, per non dire inimicizia, fra gli abitanti delle due rive. I giovani di qua dal torrente che vanno a far all'amore con le ragazze dell'altra parte, corrono il rischio molto spesso di essere conditi a sugo di bosco. Così pure negli affari comunali: ciascuna parte fa l'impossibile perchè riesca un sindaco suo. Ma è rarissimo che seguano risse. I carabinieri di Torre Pellice non arrivan fin là che a urli di lupo, come il medico, il quale dice che ci va soltanto per i parti e per le morti; chi non partorisce e non muore, sta sempre a maraviglia. Ci faceva specie sentir parlare di abitanti e di costumi, e non veder mai nessuno. Eppure la popolazione della valle conta circa mille settecento Valdesi e settecento cattolici, con tre templi, due chiese cattoliche e sedici scuole. Ma a quell'ora eran quasi tutti al lavoro, o giù in fondo, lungo l'Angrogna, o sull'alto dei monti, dentro e di là da quei boschi che ci pendevan sul capo. Quasi tutti sono piccoli proprietarii: le terre sono divise molto minutamente, anche tra i cattolici, dei quali un grande numero sono trovatelli, perchè da molti anni, a Pinerolo, è uso di mandare i trovatelli, i _venturini,_ come si dice graziosamente in quelle campagne, nella valle d'Angrogna; dove crescono, lavorano e si maritano, lontani dal mondo che li ha rinnegati. Domandai al signor Bonnet se nascessero mai litigi tra cattolici e valdesi. — Mai, — mi rispose. Il pastore e i preti cattolici si salutano cortesemente, senza stringere amicizia, e i contadini vivono di buonissimo accordo. Qualche volta degli operai dell'una e dell'altra religione, lavorando insieme nella stessa casa o nello stesso campo, entrano in discussioni religiose, di dommatica, pigliano anche un po' di caldana; ma non vanno mai più in là. Quando un Valdese muore, i cattolici vanno ad accompagnarlo al camposanto; quando muore un cattolico, lo accompagnano i Valdesi. Non c'è più ombra nè d'odio nè di antipatia. * * * Andavamo avanti, sempre in mezzo ai castagni, all'ombra, dentro a un verde vivissimo, sparso di piccole macchie di sole, simili a strisce e a mucchi di scudi d'oro, che ci rammentavano i bei boschetti freschi del Calderini. Di tanto in tanto vedevamo spuntare fra gli alberi una casetta rustica, con due finestre e una porticina; erano le scuole, che si aprono nell'inverno. Il pastore ci indicò, in un luogo ombroso, amenissimo, che pareva un angolo di parco, un piccolo spazio rotondo di terra battuta, alquanto rialzato sul piano erboso, con un grosso tronco piantato nel mezzo. Era la sala da ballo della “balda gioventù del loco.„ In certi giorni di festa, la sera, vi si radunano i giovani e le ragazze; i suonatori siedono sulle pietre e sull'erba; due lanterne appese al tronco rischiarano le coppie, e al servizio di rinfreschi ci pensa il ruscelletto vicino. Il pastore brontola, naturalmente; non vede di buon occhio quel saltellìo di tentazioni e di peccatucci. Ma anche la gioventù valdese non rinuncia così facilmente ai suoi gusti. I costumi, nondimeno, non si può dire che siano liberi, quantunque i giovani e le ragazze non siano tenuti a catena. Gli innamorati son lasciati star soli insieme fino a tardi, al lume della luna, e credo anche quando non c'è luna, purchè non sia proprio un buio da tagliarsi a fette. Una graziosa canzonetta, che traduco in prosa, lo dice: Alle Serre, l'altra sera, Ero a letto, e m'addormentavo, Quando sentii venire il mio amante, E mi tornai a vestire. — Benchè sia giovinetta, Sedetevi qui, sulla panca; Discorriamo dell'amore Fin che la rondanina canti. O rondanina bella, Sei una traditora; Ti sei messa a cantare Che non era ancor l'ora. N'avessimo vista almeno una di queste belle della panca! Ma da nessuna parte si vedeva un'effigie umana. Solo dopo un bel pezzo di cammino, incontrammo un contadino sui trent'anni, una bella figura, un tipo di antico valdese guerriero, alto, coi capelli lunghi e biondi come l'oro, con gli occhi celesti chiarissimi, con un gran cappello nero, di cupola emisferica e di ampia tesa, simile ai cappelli pastorali dei vescovi; una forma molto usata nella valle. Poi passarono alcune vecchie, curve sotto dei gran carichi di fascinotti, facendo la calza. E tutti, passando, salutarono il pastore con una certa dolcezza d'accento: _Bonjour, monsieur Bonnet_. Ed egli rispose a tutti colla stessa intonazione di benevolenza amichevole, chiamandoli per nome, poichè di quasi tutti i suoi parrocchiani sa il nome. Una volta gli avrebbero detto: — Buon giorno, barba, — che significa zio, e ch'era il titolo dei pastori antichi; da cui nacque il nome di barbetti dato ai Valdesi. Ora quel nome è caduto in disuso. Osservammo che tutte le vecchie ch'eran passate avevan la cuffietta bianca. La cuffia bianca la portano tutte le donne, ma dopo la pubertà solamente; le bimbe portano la cuffietta nera. Ma si va perdendo anche quell'uso, a poco a poco. — Una volta, — diceva il pastore, non senza un po' di rammarico, — non ci vedevo che delle cuffie nella chiesa, bianche e nere, semplicissime, tutte valdesi genuine. Ora le ragazze che sono state a servire a Torino, a Nizza o a Marsiglia, tornan con le cuffie infronzolite, con cappellini coperti di fiori e di nastri.... È tutt'altra cosa! — Ah! caro il mio pastore, — avrei voluto dirgli; — bisognerà che lei si prepari a vedere anche le gonnelle a sgonfi e le vite alla Sara Bernardt. — Per ora, nondimeno, dal mento in giù, vestono ancora quasi tutte semplicissimamente, di colori oscuri, con le vite liscie; e quando portano anche quella cuffia bianca e nuda, hanno qualche cosa di monacale all'aspetto, un'apparenza di gravità ascetica e di rigida pudicizia, da farvi trattenere sulle labbra una parola galante, per timore di essere rimbeccati con un versetto della Bibbia. * * * La via proseguiva a giravolte, sempre alla stessa altezza, passando di tratto in tratto sopra un ponticello, che accavalciava un rigagnolo precipitoso. Alle volte ci trovavamo chiusi d'ogni parte dagli alberi, come smarriti in un bosco oscuro, da cui non si vedeva più la valle. In altri punti gli alberi si diradavano, e dalla proda della via vedevamo cader giù la china lunghissima, per la quale, a lasciarsi andare, saremmo rotolati come botticelli per una mezz'ora; e giù, a una grande profondità, fra i tronchi fitti degli alberi bassi, dei pezzi del letto della valle, verdi e lisci, come tappeti di bigliardo, segnati di tante sottili _esse_ d'argento, dall'Angrogna. In tutti quei luoghi, all'ombra del loro “albero nazionale,„ il castagno, si radunavano i valdesi, prima della fondazione dei templi, per udir la parola dei loro pastori; ed era uso, per annunziar l'arrivo del barba, — uso che dura ancora su certi monti, — di stendere un lenzuolo bianco per terra, nel punto dove il barba avrebbe pronunciato il suo sermone. In un luogo dove passammo, tutto coperto da un castagneto, e chiamato Cianforan, forse da un gruppo di case che c'era anticamente, fu tenuta l'adunanza famosa del 1532, detta il Sinodo d'Angrogna, al quale, oltre i pastori delle valli, intervennero dei barba dell'altra parte delle Alpi, e molto seguito di fedeli delle colonie provenzale e calabrese, per trattare insieme dell'adesione dei Valdesi alla riforma; e là fu redatta quella dichiarazione di fede, in diciassette articoli, che rimase poi, con quella primissima del secolo duodecimo, il fondamento scritto del valdismo. E là pure, non molto lontano da Cianforan, dopo lo spietato editto di Vittorio Amedeo II, ebbe luogo quella tragica assemblea, iniziata con una preghiera solenne di Enrico Arnaud, il futuro capitano della “rientrata gloriosa„, presenziata dagli ambasciatori dei sei cantoni protestanti di Svizzera, e interrotta da scoppi di pianto e da grida di angoscia; nella quale si discusse intorno a quei due soli partiti disperati che si potevano prendere: o rassegnarsi a perder la patria, o difendersi, senza speranza, fino all'ultimo sangue. Ed altre riunioni memorabili, nei momenti di grande pericolo, e in ispecie al tempo della peste e della carestia terribile del secolo diciassettesimo, tennero i pastori sui monti d'Angrogna, doppiamente consacrati dalla vittoria e dalla sventura. — Quasi tutta la nostra storia è scritta qui, — ci diceva il Bonnet, accennando le alture d'intorno; — di tutto il nostro paese, questo è il luogo in cui s'è più pregato, più combattuto e più pianto. — E quelle solennità religiose dei primi Valdesi, ch'egli ci descriveva, l'immagine di quelle folle inginocchiate e preganti all'ombra degli alberi, ci facevan pensare agli antichi riti druidici delle foreste, e ci parevano anche più poetiche e più solenni per effetto della solitudine e del silenzio da cui eravamo circondati. Veramente, quel non vedere e non sentir nessuno, nè vicino nè lontano, ci cominciava a parere molto strano; ed eravamo tentati di domandar sul serio al pastore se quei duemila quattrocento abitanti fossero una bugia vanitosa dei registri o una cosa vera. Ci sembrava di camminare in una di quelle valli maravigliose e sconosciute dei racconti arabi, delle quali è padrone il primo che capita, e vi fonda un regno e una dinastia. Oh il bel romitorio fatto apposta per venirci a scrivere una storia universale! Eppure c'è un giorno dell'anno, ci diceva il Bonnet, che anche la valle d'Angrogna fa del rumore: l'anniversario del giorno in cui Carlo Alberto firmò l'atto d'emancipazione dei Valdesi. Quello è un caro giorno per tutti, festeggiato veramente con affetto, fin dai contadini più poveri. I valligiani accorrono da ogni parte alla sede della parrocchia; i ragazzi, divisi in sedici drappelli, convengono là dalle sedici scuole, a suon di tamburo, con la bandiera nazionale, guidati dai maestri e seguiti dalle famiglie; si raccolgono nella chiesa, dove il pastore fa un discorso d'occasione, cantano, declamano poesie; poi ciascuno riceve in regalo un pezzo di pane bianco, che è una festa, e un arancio, che è un tesoro; i maestri e tutte le autorità del comune desinano insieme; la sera si fanno dei fuochi di gioia sui monti; e i ragazzi se ne ritornano cantando, per i sentieri dove i loro padri combatterono e morirono, tutti contenti, con un opuscoletto in mano, donato anche quello, un episodio, per lo più, della storia valdese, scritto e stampato apposta; che essi leggeranno poi cento volte, nelle lunghe serate d'inverno, dentro alle loro piccole case, mezzo sepolte nella neve. * * * Arrivammo a un gruppo di case, chiamato le Serre, posto sopra una bella altura, accanto a un tempio fondato nel 1555, e ricostrutto pochi anni sono; piccolo, tutto bianco, fiancheggiato da un campaniletto, con la candela emblematica dipinta sopra la porta. Dal piazzale del tempio, come da un belvedere, si domina tutta la parte bassa della valle, fino a Torre Pellice, che biancheggia laggiù alla sua imboccatura, come l'accampamento d'un esercito, preparato ad assalirla. I generali cattolici si debbono essere messi molte volte in quel punto per veder sfilare le colonne che andavano a tentar la presa di Pra del Torno. Di là si vedono i monti dell'altro lato della valle, vicinissimi, erti come muraglie, tutti vestiti di tigli, di faggi, di piccole quercie, di nocciuoli e di pruni, e rocciosi sulle cime: specialmente la Costa Roussina, sulla quale furono aspramente malmenati i soldati di Emanuele Filiberto, tutta scoperta e nuda, in maniera che vi si vedrebbero, anche dalle Serre, le vicende d'un combattimento di due pattuglie. Là pure c'era una pace profonda, e avremmo creduto di essere in un luogo disabitato, se non avessimo sentito i colpi di piccozzo di tre muratori che lavoravano a fabbricare una casetta. Il signor Bonnet, nondimeno, compì il miracolo di farci trovar da colezione. Ci condusse in casa di un contadino, il quale ci apparecchiò la tavola sopra un terrazzino di legno, e ci servì, per trattarci da signori, tre dozzine d'uova al guscio, domandandoci se doveva metterne al fuoco dell'altre. Questo grandioso imbanditore era un ex-sindaco d'Angrogna; una figura singolare, con due grandi occhi oscuri vivacissimi e un sorriso pieno d'arguzia: senza baffi, la barba nel collo, un Valdese pretto, di quegli angrognini, di cui ci parlò il Bonnet, frequenti nella parte alta, rari nella parte bassa della valle, i quali danno alle volte sui sermoni dei pastori dei giudizi critici d'un'acutezza e d'una precisione di parola, da far rimanere. Era vestito rozzamente; ma pareva piuttosto un banchiere o un impresario di strade ferrate andato a male, che un contadino. Con la sua famiglia parlava il dialetto, col pastore il francese, e con noi, alla meglio, l'italiano, scherzando, ma con garbo. Vedendoci impicciati a mangiar l'ova senza ovarolo, tagliò una grossa fetta d'uno di quei pani neri, durissimi, che fanno una volta al mese, ci aprì dentro un buco della forma d'un ovo, e la mise davanti a un di noi, dicendo lentamente, col tuono di chi sa di dire una cosa che farà effetto: — Il bi-so-gno fa na-sce-re l'in-du-stria. — Tutti i suoi figliuoli avevan quegli stessi occhioni pieni d'ingegno; uno principalmente, un bel ragazzetto che ci porgeva da bere con molta grazia, poco più che decenne; dell'età appunto in cui li cercavano le patrizie torinesi dopo che quell'anima pia della marchesa di Pianezza aveva messo alla moda di portar dietro alla carrozza un lacchè barbetto, a modo di trofeo vivente strappato all'esercito dell'eresia. Di là, guardando dalla parte opposta a Torre Pellice, al disopra degli alberi dell'orto, rossi di mele e di lazzerole, godevamo d'una veduta ammirabile: l'alto della valle, chiuso da tutti quei monti, che par che s'incastrino gli uni fra gli altri, e cerchino di coprirsi a vicenda; dietro al contrafforte che si spicca dal Vandalino, le Rocciaglie che si staccano dal monte Servin, e dietro alle Rocciaglie un altro monte, e di là da quello il monte Roux, il re delle valli, in berretta bianca; simili, così di lontano, a una successione d'immense muraglie verticali, tagliate obliquamente, e così strette fra loro, da lasciare appena il passo ad un uomo. Si capisce come quello spettacolo dovesse destare una viva inquietudine nei soldati cattolici non esperti della montagna, la prima volta che vi si trovavan davanti. A chi non sapesse nulla, parrebbe infatti di non poter fare due miglia innanzi senza andar a battere il capo in una gigantesca parete di granito. Non sembra più che debba continuare la valle dietro al primo contrafforte; ma serpeggiare non so che orribile corridoio, in cui manchi l'aria e la luce, una formidabile trappola da eserciti, dove una colonna assalitrice abbia da rimaner presa e schiacciata come una processione di formiche in mezzo alle pietre d'una macina, o arrestarsi appena entrata, stupefatta, inchiodata alle rocce da un terrore misterioso. Chi mai ci potrà esser là dentro, pensavo, fuorchè dei lupi e degli orsi, o una specie di popolo d'Oga Magoga, separato dal mondo? * * * Dall'altura delle Serre la strada comincia a scendere, ma sempre in mezzo ai castagni, ai noci, a ogni sorta di alberi montani, che gettano le loro grandi ombre sopra dei vasti tappeti di velluto verde, stelleggiati di freddoline. Via via che scendevamo, la voce del torrente ingrossava, come la voce d'una folla irritata che salisse verso di noi. Ci andavamo avvicinando al punto più stretto della valle, a quel luogo tremendo e memorabile, che si può chiamare le “Termopili dei Valdesi.„ Probabilmente la strada che percorrevamo era la medesima che avevano percorso quelle colonne degli eserciti cattolici, le quali tentavano di penetrare in Pra del Torno lungo il torrente, mentre le altre cercavano di calarvi dalle montagne; quella stessa strada, per la quale retrocedevano poi, disordinatamente, turbe di soldati senz'armi, aiutanti di campo bianchi di terrore, e generali che si mordevan le mani, vermigli dall'ira e dalla vergogna, bestemmiando tutte le più sacre cose in nome di cui erano andati a combattere. Poichè, per circa duecent'anni, quel maledetto Pra del Torno fu veramente la cittadella del diavolo per gli eserciti papisti. Sulla fine del secolo decimoquinto lo assale l'arcidiacono di Cremona, il famoso De Capitaneis, coi suoi famosi crociati; e n'esce rotto, pesto e sbaragliato, giurando di non riporvi più i piedi. Lo investe nel 1561, con un esercito, il conte della Trinità; e vi è sconfitto nel mese di febbraio, schiacciato nel mese di marzo, tagliato a pezzi nel mese d'aprile, ributtato e incalzato fino al piano, dove s'ammala di dolore e di rabbia. Tenta d'impadronirsene il marchese di Pianezza, e vi è sgominato; vi slancia le sue colonne il marchese di Fleury, e v'è disfatto. È tempo e sangue buttato via. Pra del Torno rimarrà inviolato per due secoli, dal 1488 al 1686, come una rocca inaccessibile, difesa da una forza più che umana. E cadrà nel 1686, per la prima volta; ma bisognerà che l'assalgano insieme, dopo lunghi apparecchi, la Francia e la Savoia riunite; un grande principe e un grande generale; l'esercito di Luigi XIV, movendo da Pramollo, e salendo sul colle della Vachère; l'esercito di Vittorio Amedeo, gettandosi sui monti d'Angrogna da Bricherasio, da Bibiana, da Garzigliana, da Torre Pellice; il generale Catinat coi battaglioni del Delfinato, coi presidii di Pinerolo e di Casale, con le artiglierie, coi dragoni famosi; Gabriele di Savoia, coi reggimenti di Nizza, di Savoia, di Monferrato, della Croce Bianca, con le guardie del corpo, con la cavalleria, coi gendarmi, coi volontari di Mondovì, di Barge, di Bagnolo; eccitati tutti dai capi come ad una grande impresa, carichi di munizioni, di sacchi, d'ascie e di pale come per l'assalto d'una città forte; tutta quest'ira di Dio bisognerà che si rovesci sulla valle d'Angrogna per aver ragione d'un pugno d'uomini spossati e senza speranze, che pure romperanno ancora una volta, prima di cedere, l'onda irruente dei battaglioni. E quella sarà festeggiata come una grande vittoria, tanto parrà strano a tutti, e quasi maraviglioso, di esser riusciti a ferir quel nemico nel “cuore;„ una grande vittoria.... simile a quella del marchese di Pianezza, quando mosse con ottomila soldati e duemila contadini contro i diciassette Valdesi di Rorà. Ma non era mica il pastore Bonnet che diceva queste cose, strada facendo: eravamo noi. Egli non vantò mai i suoi padri valdesi durante la passeggiata. Non faceva che dipingerci lo spettacolo solenne e lugubre che doveva presentare quella valle, quando, all'avvicinarsi d'un esercito, tutti gli abitanti dei luoghi vicini correvano a rifugiarsi a Pra del Torno; e per quella strada, e sulle cime dei monti, e giù lungo il torrente passavano famiglie dietro a famiglie, portando le loro robe e i loro malati, e da tutte le parti si sentivan cantar salmi e cantici, come da gente che andasse alla morte. E ci facevan tanto più effetto quelle cose per la maniera con cui le diceva, senz'ombra di retorica predicatoria, aggiustandosi ogni tanto il cappelletto di paglia gialla e il soprabito che s'era buttato sulle spalle, come un buon giovanotto, che ci parlasse amichevolmente d'un avvenimento doloroso della sua famiglia, non per cercare la nostra pietà, ma per espander la sua. * * * Intanto eravamo arrivati nel fondo della valle. Qui, una maraviglia di bellezza. Il torrente vien giù, grosso, rotto da pietroni enormi, a salti e a sprazzi, come scendendo per una scala informe di roccia, e occupa quasi tutto il letto della valle. Di qua e di là si levano quasi a picco i monti altissimi, rocciosi, boscosi, orridi, quasi neri, dalla parte dell'ombra. Par di essere in fondo a una grande crepa della terra: bisogna torcere la testa in su per vedere il cielo. Il luogo è maravigliosamente sonoro. Alle cento voci del torrente s'unisce il rumorìo vario e assordante d'un'immensa quantità d'acqua che vien giù dalle montagne. Grossi rigagnoli limpidissimi corrono lungo la strada con l'impeto di torrentelli contenuti a stento fra le sponde; dentro ai massi, qua e là, s'aprono delle piccole grotte nere, dove cadono miriadi di stille, che risonano nei laghetti di sotto, formando per aria dei brevi arcobaleni e svegliando degli echi sommessi, da cui par di sentirsi chiamare, passando; da tutte le chine scendon larghe vene d'acqua, le quali si rompono e si sparpagliano in ruscelli rumorosi, in cascatelle sonanti e spumeggianti, che biancheggian tra il verde, su in alto, quasi sul capo di chi passa, da ogni parte; altri ruscelli più alti, che par che caschin dal cielo, si slanciano con grida di gioia infantile dalla sommità delle alture; delle fontanelle solitarie mormorano fra i macigni: le rocce grondano, sudano, piangono, gemono; mille voci che par che facciano a soverchiarsi, e a dir ciascuna la sua, mille note gravi, acute, argentine, trillanti, carezzevoli, lente, precipitose, empiono l'aria; un canterellìo, un gridìo, un baccano, una baldoria che stordisce, rallegra l'anima, mette fresco nel sangue e fa fremere i nervi di piacere. Non ci sentivamo più parlare, quasi. Ridevamo, senza sapere perchè, come in mezzo a una festa di ragazzi. Tutto quel chiasso ci aveva colti all'improvviso. Eravamo ben lontani dall'aspettarci un'accoglienza così gioiosa. L'acqua correva, saltellava in tale abbondanza e con tanto impeto al di sopra del nostro capo, che in certi punti c'era da temere di fare un bagno involontario, e non sarebbe stato inutile aprire gli ombrelli. La musica ci accompagnò per un pezzo, crescendo. In certi tratti pareva che si chetasse un poco; le voci dell'acqua si facevan più rare e più basse. Poi, tutt'a un tratto, alla svoltata d'una roccia, un altro scoppio più rumoroso di grida, di trilli, di vocioni del torrente, di borbottii di fontane, di risa di cascatelle, di note profonde e cristalline rapidissime, che pareva ci volessero dire, raccontare, spiegare, persuadere qualche cosa, affannosamente; un diluvio di chiacchiere incomprensibili, da far perdere la pazienza, e gridare: — Ma sì! Ma chetatevi! Ma abbiamo capito! — E allora, per pochi momenti, si tranquillavano, e noi tornavamo a poter discorrere, senza bisogno d'urlare. Ma ecco, improvvisamente, un nuovo fragorìo, un coro altissimo e concitato di saluti sonori, di chiamate, di esclamazioni, di risatine, di versi d'uccello e di tintinni di campanelli, come d'una moltitudine nascosta dietro ai macigni, tra le piante e nelle grotte, come di centinaia di donne e di bimbi, che da tutte le altezze ci apostrofassero, motteggiando il conte della Trinità, domandandoci come stava il marchese di Pianezza, ridendosi degli inquisitori e dei frati. Era un'armonia, uno spettacolo da metter voglia di batter le mani o di sventolare il fazzoletto. — Eppure, — ci diceva il Bonnet, — questa non è la migliore stagione per venir qua: bisogna venirci di maggio, quando tutte le isolette e le rive del torrente sono fiorite, e formano come un mosaico mobile di mille colori, e sui monti c'è ancora la neve, che si va squagliando. Bisogna sentire allora, che orchestra. — Oh bella, benedetta natura! Oh! voglia il cielo che non si compia l'orribile cosa da cui la valle d'Angrogna è minacciata: stian lontani di qui gli alberghi americani o inglesi, e le tavole rotonde, e le sale di lettura, e i concerti! Per un altro secolo almeno! * * * Andando avanti, al di là d'una bella cascata detta Gorg Nie (che può significar gorgo nero), si vedono nel letto del torrente delle incavature profonde, chiamate _tompi_ dai valligiani, nelle quali l'acqua ristagna, alta parecchi metri, e chiara, che si vedrebbe la foglia d'un fiore nel fondo. Paiono grandi conche scavate apposta per servir di tinozze da bagno a dei giganti. Ciascuna ha un nome proprio, parecchie hanno una leggenda. Una delle più profonde, chiamata _tompi Saquet,_ è storica, per esservisi annegato, precipitando da una roccia, un tal Saquet di Polonghera, ch'era uno dei capi dell'esercito del De Capitaneis, nel 1488, e che poco prima di morire, combattendo lì presso contro gli Angrognini, aveva giurato di mettere in pezzi quanti gli fossero caduti nelle mani. Dopo trecentonovantaquattr'anni il _tompi_ conserva ancora il nome del suo morto, e lo conserverà, come dicono poeticamente in quelle valli, fin che un padre valdese percorrerà quella strada accompagnato dal suo figliuolo. La strada, via via che la valle si serra, si va mutando in un sentiero, il quale striscia ai piedi delle Rocciaglie, quasi paurosamente, minacciato dai macigni da un lato, e dalle acque del torrente dall'altro. L'aspetto delle Rocciaglie, in quel punto, è veramente maestoso e terribile. Dei massi enormi, in cui si potrebbero scavar delle case, s'avanzano fin sulla sponda, intercettando quasi il cammino; alcuni staccati, franati dalle alture; altri incastrati nei fianchi del monte, simili a mostri smisurati che sporgan fuori la testa deforme; altri inclinati come torrioni che minaccin rovina, sospesi quasi sopra il sentiero, da potervisi riparar sotto venti persone, così male intenzionati, all'aspetto, che, passandovi sotto, vien voglia dire: — Un momento, di grazia! — In alcuni punti ci son dei vasti ammontamenti di macigni, che paiono rottami di palazzi giganteschi, buttati giù dal terremoto. Il letto stesso del torrente, molto ripido, e tutto ingombro di colossali massi bianchi, dà l'immagine delle rovine d'una gradinata titanica, che scenda dal monte Roux fino a Torre. La montagna va su, quasi inaccessibile, tutta a pareti diritte, a scaglioni di roccie, a spigoli, a denti, a piccoli precipizi, a piccole frane, piena di minaccie, d'insidie e d'orrori; erta, maligna in maniera, da non credere che ci possan stare degli uomini altro che appiccicati, o appesi per le corde alle bricche, o rannicchiati nelle buche, come gli uccelli nei nidi. Eppure anche lassù, tra quelle rocce, ci son delle scuole, dei gruppi di casette, con piccolissimi tratti di terreno coltivato, tenuti su alla meglio da muricciuoli di sassi rifatti cento volte con pazienza da santi; e delle capanne solitarie, che rimangon per mesi e mesi nelle nevi, e da cui, qualche volta, non si posson portar giù neanche i morti. Quello è il tratto più angusto della val d'Angrogna. Il sentiero si assottiglia ancora, la riva si alza, le falde dei monti delle due parti quasi si toccano: ecco la porta di Pra del Torno. Un piccolo ponte ad arco accavalcia il torrente, il quale precipita fra due muraglie. Rasente una di queste passa il sentiero sopra un sostegno artificiale di pietre e di legna, che si butta giù con pochi colpi di zappa. Minacciati d'un assalto, i Valdesi rovinavano quel sostegno, e nessuno passava più. La stretta era fortificata. Il sentiero era chiuso da una porta. Dietro la porta c'eran due sentinelle; la disperazione e la morte. * * * Là ci soffermammo un po' di tempo, distesi all'ombra d'una roccia, a ragionare delle battaglie strane e tremende che s'eran combattute su quelle due rive, e su tutti i monti, che ci si drizzavano intorno. In che maniera un pugno di montanari aveva potuto trionfare di tanti eserciti? Come si difendevano? Com'erano assaliti? Le storie parziali e le memorie di quei tempi ci danno dei particolari concisi e sparsi, ma sufficienti a chi voglia rappresentarsi al vivo quei combattimenti. Gli eserciti cattolici, le prime volte, andavano a combattere di buon animo, fidando nella superiorità del numero, delle armi, della disciplina e dei capi; non potendo credere che i rovesci toccati dai loro predecessori avessero avuto altra cagione che qualche errore di tattica, commesso per trascuranza. Ed erano anche inanimiti dalla fede di far opera santa sterminando dei cani d'eretici, e dal veder che i Valdesi, abborrenti ancora dal sangue, per devozione al loro antico principio della inviolabilità della vita umana, fuggivano fin che potevano davanti a loro, per non dover combattere che agli estremi; ciò che, naturalmente, era considerato effetto di paura. Entravano dunque nella valle cantando, con la certezza d'andar a segnare sulle rocce di Pra del Torno l'ultimo giorno dell'eresia. Ma il disinganno non tardava a sopraggiungere. Era impossibile, innanzi tutto, che gente della pianura, per quanto avesse inteso dire dell'orridezza dei luoghi, s'immaginasse appunto la natura e la grandezza delle difficoltà che presentava quella valle a un esercito assalitore: il primo aspetto di quelle montagne scemava alquanto l'animo anche ai più audaci. Inoltre, riuscendo oltremodo difficile ai generali il calcolare le distanze con esattezza, accadeva facilmente che le varie colonne non arrivassero nello stesso tempo nei varii punti prefissi all'assalto, e che si trovassero l'una dopo l'altra ad aver di fronte tutte le forze del nemico. Partite in buon ordine, serrate e rapide, s'allungavano a poco smisuratamente per i sentieri angusti e in mezzo agli alberi fitti, spezzandosi, sfuggendo di mano ai propri uffiziali, perdendo molta parte della loro forza organica prima di arrivare sul luogo del combattimento. E la disparità d'armamento che correva fra loro e i nemici, era quasi tutta in loro svantaggio. Coperti di caschi, di corazze di ferro, d'armi pesanti, non usati a camminare sull'erbe liscie e sui sassi malfermi della montagna, sdrucciolavano, rabbiosi, stramazzavano, perdevano l'impeto dell'assalto a mezza salita, e arrivavano diradati e trafelati in faccia ai Valdesi freschi di forze e immobili. Questi, non armati da principio che di fionde, d'archi e di picche, difesi da corazze di scorza d'albero o di pelli vellose, leggieri, esercitati a piantare il piede sulle rocce come un artiglio d'acciaio, destrissimi alle salite ripide e alle discese precipitose, conoscitori di tutti i passaggi, di tutti i nascondigli, di tutte le difese naturali del terreno, volavano, si può dire, per i loro monti, come stormi di aquilotti, quasi non faticando, senz'altra cura che d'offendere e di difendersi, pronti sempre a cader sul nemico quando era impigliato in un passo difficile, a sfuggirgli, a svanirgli sotto le mani quando era sul punto d'afferrarli, a profittare di tutti i suoi momenti d'incertezza e di spossamento, per sopraffarlo e scompigliarlo con dei temerarii ritorni improvvisi, che non gli davan tempo di ritrovarsi. Si facevano ben precedere, i cattolici, da un piccolo numero di soldati che cercassero i passi più agevoli e le discese meno pericolose; ma questi erano assaliti inaspettatamente da gente appostata dietro ai macigni, si vedevan sorgere d'intorno degli spettri sbucati fuor dalla terra, dai quali erano uccisi o messi in fuga prima di riaversi dallo stupore, e prima che la colonna arrivasse in vista della mischia. Arrivava anche sovente una colonna, senza incontrar resistenza, e senza vedere nemici, a conquistare un luogo eminente, in cui le pareva di non aver più nulla a temere dall'alto; ma era un'illusione: dopo brevi minuti, essi sentivan sul proprio capo le grida e i sassi dei Valdesi, che eran saliti non visti, a breve distanza da loro, per le incavature e dietro ai massi della montagna, fin sopra un'altura che li dominava, e che sarebbe stato pazzia l'assalire. — _A la brua!_ — Alla cima! — La vittoria è in alto! — era la loro parola d'ordine, il loro grido di guerra in tutti quei combattimenti. Mettere il nemico sotto i propri piedi. Apparirgli improvvisamente sul capo, come in pianura si cerca d'apparirgli improvvisamente al fianco. Ogni capo di manipolo aveva l'occhio d'un grande capitano in quei luoghi dei quali conosceva ogni arbusto e ogni pietra. Venticinque montanari, messi a difesa d'una viottola strozzata fra due roccie, o fra una roccia e il torrente, tenevano indietro una colonna di cinquecento soldati, dando tempo al grosso delle loro forze di sbarazzarsi delle altre colonne. Dove la difesa era meno facile, alzavan bastioni di terra e di ghiaia; delle barricate formidabili, composte d'una doppia fila di pioli, con dentro alberi e sassi ammucchiati, e neve pesta che empiva ogni vano; la quale, congelandosi dopo una bagnatura d'acqua tepida, formava un solo ammasso di ghiaccio, su cui cadevan di picchio gli assalitori, fulminati a bruciapelo dagli archibugi. I cattolici non potevano ancora portar dei cannoni sopra quei monti. Quando minacciaron di portarli, i Valdesi costrussero un bastione enorme, lungo quasi cinquecento metri, che si vedeva fin dallo sbocco della valle. Quello che non avevano imparato dalla natura, l'avevano imparato via via dalla esperienza; non ignoravano nessuna industria guerresca, non trascuravano alcuna precauzione, facevano una guerra di leoni e di gatti. Camminavan per lunghissimi tratti senza scarpe, per non esser sentiti; salivan su per l'erte con la pancia a terra, per non esser veduti; andavan delle miglia, per la nebbia, a lunghe file, tenendosi per i lembi dei vestiti, per non perdersi; avevano un'abilità maravigliosa a misurar la profondità della neve con le picche, a notte fitta, anche nei luoghi più scoscesi, a sentir l'avvicinarsi del nemico dagli echi, e a riconoscere il suo passaggio dall'erbe e dalle pietre rimosse; erano agguerriti dai dolori e dalla vita selvaggia, resistevano a privazioni inaudite, si cibavan di radici e di carni crude di lupi, mangiavan correndo su per le cime, con l'armi sotto il braccio e le marmitte alla mano; dormivan gli uni su gli altri, sui ghiacci, ammucchiati e serrati, come gruppi di biscie, per non morire di freddo. Quasi tutti maneggiavan le armi meglio dei vecchi soldati. Avevan formato coi giovani più arditi e più forti una compagnia di cento archibugieri, chiamati archibugieri volanti, ciascuno dei quali aveva il colpo quasi sicuro. Avevan dei tiratori di fionde che, a una distanza dove non arrivavan le palle degli archibugi, in tre tiri spezzavano il petto e il cranio ad un uomo. Si servivano anche terribilmente delle pietre, facendole franare dai monti; pochi uomini robusti, appoggiando le spalle e i gomiti alla roccia, e facendo forza coi piedi o con le leve, smovevano, cacciavan giù dei pietroni enormi, che precipitando si rompevano, davan la mossa ad altri pietroni, squarciavan le colonne, spezzavano dei soldati in due, e portavan via braccia e gambe e file intere, sparpagliandosi come scariche di mitraglia, a cui l'angustia dei luoghi rendeva impossibile di sfuggire. Inutilmente, andando all'assalto, i soldati cattolici si facevano schermo coi mantelletti di legno, alti e solidi, o con sacconi di paglia, o con fascine: i grossi pezzi di roccia, venendo giù a orribili salti, con la forza di palle da cannone, travolgevano, schiacciavano, stritolavano ogni cosa, e andavano a battere in fondo alla valle, imbrattati di sangue e di visceri, come gigantesche mazze da macello, scaraventate giù dalle cime. Anche tornavan tutti in vantaggio dei Valdesi i cambiamenti improvvisi del tempo. Una colonna d'assalto si trovava in pochi momenti ravvolta da una nebbia densissima, come da una immensa nuvola di fumo portata dal vento: i soldati non vedevano più nulla, gli ordini si scomponevano, tutti andavano e venivano, urtandosi, chiamandosi, cercando inutilmente la via del ritorno; un tamburo o un corno valdese che suonasse allora, metteva lo sgomento in tutta la colonna; sentivano nemici da ogni parte, si credevan circondati, si ammazzavan fra loro, si sbandavano in tutte le direzioni, come un armento in mezzo a cui piombi una saetta. Più d'una volta, pure, sbagliato il cammino, combattendo in ritirata, incalzati da due parti, si trovavano serrati, agglomerati in un luogo basso, sotto il fuoco dei Valdesi riparati dietro alle roccie, agli alberi e alle capanne soprastanti, di dove non un colpo andava in fallo, e non riuscivano a salvarsi che coprendo la via della fuga di cadaveri e di feriti, e lasciando un branco di prigionieri in ogni stretta. Altre volte, finalmente, spossati dalle lunghe marcie e dalle salite affannose, disperati di vincere, sgomenti di quel nemico infaticabile e invisibile che li minacciava da ogni parte, che turbinava continuamente sopra di loro come un esercito alato, che li decimava con mille armi e con mille arti imprevedute, misteriose, sataniche, un invincibile timor panico li assaliva tutt'a un tratto nel mezzo d'un combattimento, una paura fantastica della montagna, un terrore pazzo di quelle roccie enormi e di quelle gole tenebrose, piene di agguati, di spaventi e di morte, e allora si davano tutti insieme a fughe forsennate, aggirandosi vertiginosamente fra i massi, scivolando giù per i macigni umidi, pei rigagnoli convertiti in precipizi di ghiaccio, saltando l'un sull'altro giù per gli scaglioni degli orti, spenzolandosi giù dalle rupi con la corda alla vita, abbrancandosi agli arbusti dei ciglioni, sospesi sopra gli abissi; e non sentivan più comando d'ufficiali, s'accavallavano, si pestavano, si ferivano con le proprie mani, buttavan via le armi, s'imbrogliavano nei vigneti e nelle macchie come belve dentro alle reti, si lasciavan raggiungere, si lasciavano uccidere, si buttavano nei burroni per salvarsi dagli archibugi, si annegavano nel torrente per scampare alle lame, si gettavan incontro alle lame per sfuggire ai macigni, morivan soffocati nella neve per nascondersi agli insecutori. I più audaci, peraltro, i capitani, e quelli che avevan prese le armi per ardor religioso, e chi si trovava a combattere in luoghi senza uscita, resistevano ancora; la battaglia si rompeva in molte mischie parziali, in combattimenti di quattro, di otto, di dieci, che s'inseguivan poi lungamente, su per le bricche, uno per uno, con accanimento feroce, urlando minaccie di morte e di dannazione; duelli orribili s'impegnavano sopra eminenze solitarie; ufficiali, raggiunti dopo corse disperate, sopra i dirupi, cadevano sfiniti, offrendo inutilmente riscatto, come Luigi De Monteil; altri, come Carlo Truchet, stesi in terra da una sassata, eran sgozzati, e rimanevan cadaveri nudi sul ghiaccio; altri, scampati a stento dalla strage, erravano per le nevi, scamiciati, insanguinati, gridando al soccorso, mezzi pazzi, e tornavan poi al campo e alle case loro, affetti di malattie strane, di cui morivano, o tormentati per anni ed anni da un'allucinazione spaventosa, oppressi dalla visione perpetua di quelle roccie, di quei precipizi, di quelle morti orrende, di quelle fughe di pazzi frenetici, che empivan la valle d'ululati. Ah! non eran mica più quegli antichi pastorelli valdesi, dolci come agnelle, e pazienti fino al martirio! Trattati come fiere, avevan messo le zanne e gli artigli. Si capisce bene come dovesse avere il braccio terribile alla fionda il giovinetto a cui avevan torturato la madre, e il polso d'acciaio alla picca l'uomo a cui avevano fatto a pezzi il figliuolo; si capisce come dovessero andar molto addentro nelle schiene dei fuggiaschi le lame confitte da tali mani. Avevano un bel gridare i pastori, inseguendoli, ordinando che desistessero dal sangue, in nome del Dio di misericordia e d'amore. Oramai non bastava più vincere a loro; avevan bisogno di punire, di vendicare, di far scontare la spietatezza con la disperazione, e la tortura con lo sterminio. Eppure, anche a quelle feroci battaglie dava qualche cosa di solenne e di augusto la religione. Quale spettacolo dovevan presentare sui monti quelle lunghe schiere di Valdesi dai grandi cappelli e dalle chiome alla nazarena, quei vecchi armati d'archibugi, quei ragazzi con le fionde, quei giovani con le picche, quei pastori con la Bibbia, quando, prima di combattere, s'inginocchiavano tutti insieme sulle roccie, alla luce del sole nascente, alzando il viso e le mani al cielo, a dimandar a Dio la vittoria; e dietro a loro le donne e i ragazzi, che tenevan pronte le polveri e apprestavano i sassi; e più in su i vecchi cadenti, i malati, gl'invalidi, i bambini, che pregavano e piangevano, mentre giù nella valle i battaglioni si preparavano all'assalto, apostrofandoli con un coro infernale di bestemmie e di scherni! Poi sibilavano a traverso alla nebbia le palle, i sassi e le freccie, i macigni franavano, gli sfracellati urlavano, le roccie stillavan sangue, i caschi e le spade saltellavano di masso in masso, le colonne si sfasciavano e voltavan le spalle, e ruzzolavano insieme giù pei greppi e gli scoscendimenti morti, moribondi, panconi, alabarde, tamburi, alfieri, pionieri, cavalli, stendardi, mentre sulle alture dorate dal sole echeggiavano i salmi lenti e solenni della vittoria. Maledizione del cielo! Tanti bei nobili piemontesi, uffiziali prodi e ambiziosi, che speravano di raccontar le loro vittorie nei salotti di Torino, tanti giovani volontari della fede, i quali avevan creduto fermamente di andar a combattere con gli angeli al fianco, tanti avventurieri ch'erano andati là come ad una facile guerra di saccheggi e di stupri, che mortale rabbia, che angosciosa vergogna dovevan sentire nell'anima durante quelle miserevoli fughe, quando, voltandosi a guardare in alto, vedevano sulle vette quelle schiere di spettri, quei branchi di straccioni, d'affamati e di reietti, che nessuna forza umana poteva domare! Invano i frati, invano i missionarii, ad ogni assalto d'esercito, aspettavano all'imboccatura della valle che i vincitori ritornassero, trascinando con sè gli ultimi avanzi dei miscredenti, per farne dei papisti o dei cadaveri. Gli ultimi avanzi non tornavano mai. Non tornavano che i soldati dell'Inquisizione, sbandati, stravolti, sanguinosi, portando sulle barelle i loro compagni con la fronte spaccata, e celando per vergogna le croci delle loro bandiere. Chi avrebbe detto allora a quei soldati e a quei monaci che sotto a quella medesima croce bianca i cannoni di Casa Savoia avrebbero sfondato un giorno le porte della città del Papa! * * * Ci rimettemmo in cammino; entrammo in Pra del Torno. Par veramente d'entrare tra le mura d'una immensa fortezza. Ai primi passi mi ricordai di quel terribile _défilé de la Hache_, dove il Flaubert fa morir di fame i ventimila barbari, nel suo romanzo _Salammbô_. Le roccie altissime presentan delle forme strane di torri, di facciate di cattedrali, di grandi archi di gallerie; alcune, di palazzi aerei, ritti lassù nella regione delle nuvole, intorno ai quali volan degli avvoltoi e delle aquile. Qua e là, a grandi altezze, si vedono ancora dei piccoli tappeti verdi, dove pascolano le capre, che, a guardarle, dan le vertigini; e piccole case, che par che stian su per miracolo, o che siano appiccicate alle roccie come nidi d'uccelli. Più in basso, altri gruppi di casette rozze e nere, appollaiate sui fianchi dei monti, sotto la perpetua minaccia delle valanghe e dei franamenti dei macigni, che qualche volta le seppelliscono e le sbricciolano come gingilli di vetro. Anche là non vedemmo quasi nessuno, benchè Pra del Torno sia abitato da circa cinquecento persone, tra Valdesi e cattolici: qualche pescatore di trote giù tra i sassi del torrente, un crocchio di bimbi all'ombra d'un agrifoglio, una donna che sfornava il pan nero in un cortiletto. Il torrente non faceva quasi più rumore. Dopo mezz'ora di cammino, in silenzio, arrivammo sopra una rocca, dov'è un tempietto nuovo, d'uno stile misto di gotico e d'arabesco, e dipinto di bianco e di rosso, come un padiglione di giardino. Ai piedi della rocca ci son poche case e una chiesetta cattolica. La valle pareva chiusa da tutte le parti, a sinistra dai monti che forman la stretta di Balfero, a destra dai monti di Soiran o dall'Infernet, ripidissimi, nudi, grigi, tutti roccia, che fendevan l'azzurro. Eravamo come caduti in un agguato della montagna, imprigionati, segregati dal mondo, in fondo a un enorme sepolcro concavo spalancato verso il cielo. E tutt'intorno, nè un rumore, nè una forma, nè una voce umana. Non c'era che una ragazza di dodici o tredici anni, una piccola vaccaia, scalza, con un cenciuccio di vestito, seduta in terra davanti al tempio, che leggeva un libro. Guardai il titolo: era una _Histoire de l'église vaudoise;_ un volume di formato grande e elegante, stampato a Parigi. Ne presi appunto con piacere sul mio taccuino. Era la prima contadinella italiana che vedevo leggere. * * * C'eravamo dunque arrivati, finalmente, a quel misterioso Pra del Torno, fortezza, cuore, santuario delle valli. Là, nei primi tempi dei Valdesi, era il seminario teologico dei barba, l'antica scuola “educatrice di pastori, d'evangelisti e di martiri„ nella quale s'istruivano i giovani alunni nelle sacre scritture e nel latino, si copiavano i manoscritti della Bibbia, e si componevano trattati religiosi; e di là partivan poi i nuovi pastori, a due a due, e si spandevan per il mondo, esercitando la professione di mercanti, di chirurghi e di medici, per diffondere più sicuramente la parola di Dio, e andavano a trovare i loro fratelli di Calabria e di Puglia, i loro discepoli di Moravia, d'Ungheria e di Boemia. Chi sa quali figure strane d'asceti, di centenari venerandi, di giovanetti inebbriati di fede, e quali maravigliose vite di umiltà e di sacrificio saranno passate fra quelle montagne! Essi eran ben lontani allora, senza dubbio, dall'immaginare che quell'angolo tranquillo delle loro valli sarebbe stato nei venturi secoli assalito con tanta furia da tanti eserciti, e irrigato tutt'intorno da tanto sangue. Qui, infatti, fu come l'ultima ridotta del popolo valdese in tutte le guerre. Ci accorrevano da ogni valle le famiglie, e gli avanzi delle famiglie, e ci stavano dei mesi, come rannicchiate, campando d'erbe e di latte. La compagnia degli archibugieri volanti, coi suoi due ministri, ci si raccoglieva dopo le sue audaci spedizioni. Ci avean costrutto delle case, dei forni, dei magazzini, dei mulini; ci fabbricavan delle picche, ci fondevan delle palle. Migliaia di persone lavoravano, pregavano, s'esercitavano alle armi, portavan le pietre e i tronchi d'albero alle barricate, salivan sulle vette a spiare il nemico. Era come un formicaio, un rimescolìo continuo di gente agitata senza posa dal terrore, dalla speranza, dalla gioia della vittoria, dal presentimento dell'ultima sventura. Perchè vedevan tutto di qui: vedevan le colonne nemiche venir innanzi sulle creste nude dei monti, scintillando ai raggi del sole, e discendere lentamente; e i Valdesi salir di nascosto, ad assalirle di fianco; vedevan le mischie, sentivan le grida, contavano i caduti, stavan là sotto immobili ad aspettare la fine dei combattimenti che per loro poteva esser la prigionia, la dispersione, la perdita dei figli, la tortura, la morte. Con che forsennata gioia si dovevano slanciare incontro ai loro difensori, quando precipitavan giù vittoriosi, buttando sulle rive del torrente delle bracciate d'alabarde, di corazze, di morioni, di uniformi, di pennacchi, fra cui rotolava qualche volta la testa d'uno dei loro feroci persecutori! Di notte, nel cuor dell'inverno, dopo fughe piene di pericoli, arrivavan qui delle frotte di fuggiaschi, a cui l'orrore degli eccidi veduti toglieva per molti giorni la parola: arrivavano dopo un viaggio di mesi e mesi, travestiti stranamente, e trasfigurati dagli stenti, i pochi scampati alle stragi di Calabria; ci arrivavano, scortati dai Valdesi, tremanti di freddo e di paura, delle donne e delle ragazze cattoliche, affidate loro dai mariti e dai padri per salvarle dalle violenze della soldatesca; e dei parlamentarii pallidi e scorati, che annunciavano ogni accordo fallito, e un nuovo assalto imminente. Ma c'eran pure dei giorni di festa in quel vasto baratro pieno di dolore e di spavento; i giorni in cui scendevano dalle alte montagne i deputati valdesi, reduci dalle lunghe peregrinazioni a traverso all'Europa, portando i denari dell'Elettore Palatino, del duca di Würtemberg, del marchese di Baden, dei cantoni evangelici di Svizzera, della chiesa francese di Strasburgo, di tutti i loro amici lontani, che mandavan l'annunzio di potenti intercessioni presso la Corte di Torino, e la speranza d'un migliore avvenire: i giorni in cui tornavano i loro missionarii dai paesi protestanti, con un carico prezioso di libri sacri, trovati dopo lunghe ricerche e raccolti a prezzo di gravi sacrifizi; i giorni in cui giungevano i loro fratelli di Provenza, con le armi nascoste sotto il mantello, i soldati ugonotti, disertati dalle guarnigioni di Lione, di Grenoble e di Valenza, i rudi compagni dei Lesdiguières e dei Coligny, accorsi per combattere e per morire con loro. Allora tutti ripigliavano animo, i salmi risonavano più alto, i piccoli arsenali lavoravano più fitto, le promesse e i giuramenti si ripetevano con nuovo ardore; e le compagnie armate si slanciavano più impetuosamente dall'alto delle loro montagne a soccorrere i fratelli. Calavano nella valle di San Martino, piombavano nel vallone di San Germano a rintuzzare i monaci dell'Abbadia di Pinerolo, si lanciavano nel vallone di San Bartolomeo a battere i signori di Roccapiatta, correvano a liberare Taillaret, volavano in aiuto delle popolazioni assediate di Bobbio, di Rorà, del Villar, irrompevano nella pianura, a vendicar gl'incendi con gl'incendi, e i macelli coi macelli, fino a San Secondo, a Miradolo, a Osasco, a Cavour.... Ma n'andava assai più lontano il terrore; n'andò qualche volta fino a Torino, fin nelle sale dorate dei castelli di Rivoli e di Moncalieri, fin dentro al cuore dei duchi di Savoia, i quali affacciandosi di notte alle finestre, torcevan lo sguardo da quelle grandi montagne nere, come da una immagine di malaugurio e di rimorso. * * * Il Bonnet ci presentò il maestro, un giovanotto florido e allegro, il quale abita una cameretta nell'edifizio del tempio; dov'è anche la scuola, e una stanzina per il pastore. Quel bravo giovane, oltre alle molte e rare qualità dell'ottimo insegnante, possiede quella non disprezzabile di fare le frittate gialle come pochi, ma assai pochi cattolici le sanno fare. Ci sedemmo intorno alla frittata nella stanzina del pastore: una specie di cella monacale, nuda e bianca, con un tavolo e quattro seggiole, pulita come se ci avessero lavorato tutta la mattina quattro fantesche olandesi. Per tre piccole finestre a sesto acuto vedevamo i monti circostanti, null'altro che i monti, i quali riempivano tutti e tre i vani, come tre tendine verdi e turchine. Non si può dire la quiete, la freschezza, la semplicità di quel luogo. E la voce del pastore, dolce e lenta, era come una musica che accompagnava e traduceva il linguaggio delle cose. Egli ci raccontava dell'inaugurazione di quel tempio, fatta sei anni fa; alla quale erano accorse tremila persone, che non potendo in chiesa, s'eran raccolte in un prato, e molti oratori avevan parlato alla folla dall'alto d'un tetto, apostrofando le montagne gloriose e terribili; dopo di che Pra del Torno, silenzioso da quasi due secoli, era ricaduto nel suo silenzio profondo, che non sarà forse più turbato per altri secoli. Poi ci parlava dei suoi viaggi in montagna, di quando va a predicare ai pastori delle capanne di Soiran, dell'Infernet, di Giacet, della Cella, della Cella veia; e ascoltandolo, provavo un senso d'ammirazione, e anche una certa tristezza, a pensare che, mentre io ero nel mio studio, al caldo, a giocare con l'immaginazione, lui, quell'uomo così colto e gentile, se n'andava su per i monti, per sentieri dirupati, in mezzo alle nevi, incontro ai venti gelati, tutto solo, con un pezzo di pane e con la Bibbia, a predicare la bontà, la rassegnazione e la preghiera. Ma al vedere com'egli parlava della sua solitudine e delle sue fatiche con assai più compiacenza ch'io non provi mai a parlar dei miei giochi, mi rimaneva ancora l'ammirazione, ma scappava la tristezza, per ceder il posto all'invidia. Sì, quel buon pastore m'era così simpatico, il suo aspetto e la sua voce eran così dolci, mi ridestavano così vivamente nel cuore dei sentimenti, o piuttosto degli echi di sentimenti morti o sopiti da molti anni, che se fossi stato solo con lui.... non so, gli avrei forse preso la mano come a un amico, e gli avrei detto: — Vediamo.... parli.... mi persuada.... il mio cuore non è mai stato così ben disposto a sentire, e mi pare che non ci sia più altra voce che la sua da cui io possa ancora sperar qualche cosa.... — Chi sa mai come m'avrebbe guardato, che cos'avrebbe risposto, in che maniera, con quali parole incominciato? Io mi facevo queste domande, fissandolo, quando egli s'alzò, per condurci sul piazzaletto del tempio, dove giocavano alcuni bambini valdesi. Proprio sotto, ai piedi della rocca, c'è la chiesetta cattolica, consacrata alla Madonna delle Grazie e a San Carlo, scolorita e triste dirimpetto al tempio nuovo, variopinto e trionfante, e pareva che l'uno e l'altra si guardassero minacciosamente con l'occhio del loro finestrino rotondo, quella per slanciarsi all'assalto, questo per farle fare il ruzzolone. Dio buono! Quanto parevan piccini, in fondo all'abisso, ai piedi di quelle grandi montagne, quei due mucchietti di pietruzze, ciascuno dei quali diceva all'altro: — Io son più vicino al cielo di te! — Ma bastava dare uno sguardo in giro, sui pochi contadini valdesi e cattolici, che passavano, per accertarsi che non c'è più lotta se non fra le facciate dei due edifizi. Passavano lentamente e a lunghi intervalli, salutandosi con un cenno del capo, uomini e donne, con gli strumenti del lavoro sulle spalle o con la calza tra mano, quasi senza guardarsi, come persone d'una sola famiglia che girassero per la casa; e dal viso di tutti, e dai loro movimenti s'indovinava la quiete infinita della loro esistenza. Essi vivon là, infatti, come il presidio d'una fortezza solitaria, non visitata che da pochi curiosi, che ci si trattengono un'ora, in una sola stagione dell'anno. Pochi vanno qualche volta a Torre Pellice; pochissimi, più di rado, fino alla grande città di Pinerolo; e si contan certamente sulle dita quelli che sono arrivati fino alla lontana e immensa Torino. Una cresciuta del torrente, la caduta d'una valanga, un matrimonio, una morte, sono i grandi avvenimenti di cui discorrono per mesi, intorno ai lumicini fumosi che rischiarano le loro lunghe veglie invernali. Delle più grandi cose che accadono fuori della loro valle, a loro non arriva che un rumor fioco e confuso, come d'un lontano mare agitato. Il socialismo trionfante potrà sconvolgere il mondo: essi appena se n'accorgeranno. Dalla casa al tempio, dal torrente al pascolo, dall'orto al castagneto, tutti i giorni fanno i medesimi passi, volgendo in mente le medesime idee, dicendosi, quando s'incontrano, le medesime parole. I loro bisogni non sono che un po' di pane, un po' di fuoco e il sermone del pastore. Quand'hanno avuto questo per sessant'anni, muoiono senza lagnarsi della vita. E dire ch'è per aver questo, non altro, che hanno lottato, sanguinato e pianto per quattrocent'anni! * * * Avremmo voluto trattenerci ancora un pezzo in quella pace profonda; ma vedendo che i tappeti d'oro distesi qua e là fra i castagni sparivano l'un dopo l'altro rapidamente, ci mettemmo in cammino per il ritorno. Ripassammo sotto le roccie enormi, tornammo a sentire quel fragoroso diluvio d'acque. La valle era già rotta da vaste ombre nere, in cui si vedevano appena le case, come macchie più nere; le cime petrose dei monti erano di color rosa e di porpora; la via, anche più solitaria che la mattina. Per due miglia di cammino, non udimmo che il tintinnio di qualche sonaglio di pecora o di capra, invisibili, e a grandi distanze, il canto d'una gallina o il latrato d'un cane, che risonavano in tutta la valle, come ripercossi da cento echi. Risalutammo Serre, rivedemmo la roccia della fata.... Due dei quattro viaggiatori avevan già l'aspetto e l'andatura dei due crociati dell'arcidiacono di Cremona, dopo la disfatta famosa delle Rocciaglie. Ma la vista della piazzetta di Angrogna li rimise su, come l'apparizione d'una bella signora alla finestra. Là il signor Bonnet ci fece vedere due curiose pietre storiche: una rotonda, confitta nel suolo, sulla quale è tradizione che il popolo facesse batter le mele (senza buccia) ai debitori insolventi, come già facevan i fiorentini ai falliti sul lastrone di Mercato nuovo; l'altra, della forma d'una lastra da tavola, sostenuta da un pietrone diritto, intorno alla quale si dice che venissero i litiganti, in presenza d'un pastore, o d'un vecchio autorevole, a dire le loro ragioni; il perchè si chiama ancora la pietra della ragione; ma nè l'una nè l'altra portando traccie di melate o di pugni, si può credere che tra i Valdesi antichi fossero diffuse molto le due rare virtù di pagare i debiti e di discutere con pacatezza. La piazzetta era solitaria come la mattina.... Ma quel diavolo d'operaio cantava ancora, con la stessa lena e con la stessa allegrezza della mattina! Pareva che non si fosse mai chetato per tutte quell'ore, e che avesse a continuare così per anni e anni per schiattare poi tutt'a un tratto come una cicala. Invidiabile fine! Io che ho tanta paura di dever cessar di cantare avanti di morire! Prima di separarsi da noi, il signor Bonnet ebbe la gentilezza di condurci a casa sua: una casetta bianca, con un muro coperto di pampini, divisa in piccole stanze linde e chiare, arredate con semplicità graziosa, e rallegrate da voci di fanciulli e dalle note d'un pianoforte. Non avremmo potuto chiuder meglio la nostra giornata che in quella casa sorridente, in mezzo a quella famiglia amabile, in cui il ministero del padre diffonde come un riflesso di dignità e di serenità religiosa. Ma io ebbi la cattiva idea di chiedere al pastore, e di sfogliare un vecchio librone, che non avevo potuto trovare in commercio: la storia valdese di quel celebre pastore Léger, che visse nel diciassettesimo secolo, e che ebbe parte importante in molti avvenimenti, tanto che la corte di Torino mise la sua testa al prezzo di ottocento ducati. La sua storia tratta con particolare diffusione delle stragi di Pasqua, riporta deposizioni di testimoni oculari dei fatti, illustra i fatti con delle incisioni. Dicono che è uno storico partigiano e leggiero, e che ha detto molte bugie, e fatto molte frangie. Non lo so. Certo è che non ha mentito in tutto, e che parecchi di quei disegni rappresentano il vero, pur troppo. Vorrei non averli guardati. Credevo d'essere andato molto in là coll'immaginazione; ma dovetti riconoscere che certe cose non si possono immaginare. L'autore di quei disegni deve aver visto certamente come si torce e come gira gli occhi una creatura umana sul rogo. Io darei non so che per poter cancellare dalla mia memoria quelle immagini che son certo di non mai più dimenticare. E poi all'idea di certi spasimi, di certi dolori si può resistere coll'immaginazione, facendo uno sforzo; anche all'idea del rogo. Ma, Dio eterno! quella di vedere, per una via già chiazzata di sangue, fuggire i propri bambini, bianchi, impazziti dallo spavento; vederli raggiunti e afferrati; vedere in quei corpicini amati, che abbiamo coperti di baci, cullati, scaldati col nostro fiato, difesi con mille cure da un soffio d'aria, per tanti anni, vederci entrare, frugare delle mani e dei coltelli, e udire le loro grida, e sentirsi chiamare per nome e non poterli difendere, non poterli vendicare, non potersi muovere, non poter urlare, e dover star lì, a veder tutto, e morire.... Ah! non regge neanche l'anima d'un eroe a questa idea, bisogna scacciarla, scacciarla per non piangere, per non maledire, per non pigliare in odio il genere umano e la vita, per non lasciarsi sfuggire dalla bocca le più orrende bestemmie che sian mai risonate sotto la vòlta del cielo! Ma come scacciarla? Quell'idea m'accompagnò per tutta la strada, molto tempo dopo che il caro signor Bonnet ci aveva lasciati, e mi tenne inchiodata la bocca; e anche i miei compagni tacevano, per la stessa cagione. C'era un solo pensiero che potesse rifarmi l'animo, e mi ci attaccai fortemente; il pensiero di quello che era avvenuto cento novantatrè anni dopo, il giorno 28 di febbraio del 1848, quando la deputazione dei Valdesi, andata a Torino per festeggiare quello Statuto che li rendeva liberi per sempre, moveva da porta Nuova per far la sua entrata solenne nella città. Eran più centinaia di persone; portavano uno stendardo di velluto con una iscrizione in argento: _A Carlo Alberto i Valdesi riconoscenti;_ li precedeva un drappello di ragazze valdesi, vestite di bianco, ciascuna con una bandiera. Già, per tutto il viaggio dalle valli a Pinerolo, e di qui a Torino, erano stati accompagnati con le fiaccole e con le musiche, festeggiati come fratelli che ritornassero da un lungo esilio immeritato. Ma l'accoglienza che ebbero entrando in Torino fu ben altra cosa. Il popolo li acclamò con indicibile affetto, le signore sventolavano i fazzoletti, da ogni parte piovevan fiori, i torinesi rompevan la processione per abbracciare i vecchi e accarezzare i giovanetti; perfino dei preti si slanciavano in mezzo a loro e gettavan le braccia al collo ai primi venuti; molti di essi piangevano. Carlo Alberto volle che sfilassero per i primi sotto il balcone reale, in quella piazza Castello dove erano stati bruciati i loro padri. — Sono stati per troppo tempo gli ultimi, — disse; — è giusto che oggi siano i primi. — E passarono i primi tendendo le braccia verso il loro re, salutati da un altissimo grido della moltitudine, circondati, baciati, apostrofati con parole in cui si sentiva il tremito di chi domanda perdono, e a cui essi rispondevano con le lagrime agli occhi, con gesti concitati e gioiosi che volevan dire: — Non abbiamo nulla da perdonare, non ci ricordiamo più di nulla, siamo fratelli, abbiamo una sola patria, un solo nemico, un solo avvenire! — Oh bei momenti della vita dei popoli, belle ore gloriose del cuore umano, pagine d'oro della storia della civiltà, siate ricordate, amate, benedette in eterno! E benedetta tu pure, bella e nobile val d'Angrogna, che negli annali della grande guerra per la libertà dell'anima hai scritto col sangue dei tuoi pastori una parola vittoriosa e immortale. LA MARCHESA DI SPIGNO “Nata dai nobili Canalis di Cumiana, damigella d'onore di Madama Reale, sedotta, ancor giovinetta, da Vittorio Amedeo II, sposò il conte di San Sebastiano, del quale rimase vedova, con molta prole, nel 1724. Nominata allora dama di corte, accesa dalla speranza del trono, con mille arti fecesi riamare e segretamente sposare dal sovrano; il quale la investì del marchesato di Spigno; ma avendo subito appresso abdicato, dovette ella con molto dispetto e rammarico ritirarsi con lui in Savoia. Impaziente però della solitudine e smaniosa di regnare, eccitò il re abdicatario a riprendere la corona al figliolo. Onde, tornati insieme in Piemonte, e imprigionato Vittorio Amedeo a Rivoli, fu rinchiusa nella fortezza di Ceva, per esser poi restituita al marito prigioniero di cui assistette alla morte; dopo di che venne, per ordine di Carlo Emanuele III, relegata nel monastero delle Salesiane di Pinerolo, dove chiuse i suoi giorni. Donna d'ambizioso e temerario animo, e di triste memoria.„ Niente di meno. Io stavo appunto rileggendo, per caso, quei quattro periodi in cui è così brutalmente strozzata la storia d'una vita di novant'anni, piena di grandi casi e di grandi dolori, quando entrarono nel giardino della villa una signora e una signorina, nostre amiche e vicine, ad annunziarmi che la superiora delle Salesiane aveva cortesemente acconsentito a ricevermi nel parlatorio, e a dirmi quanto si sapeva nel monastero intorno alla marchesa di Spigno. Era una graditissima notizia. Chi sa, pensavo, ch'io non riesca a fare almeno uno sbrano nel velo di mistero che copre quella benedetta marchesa, tanto discussa, tanto maltrattata, e così poco conosciuta! Perchè nè le storie di Casa Savoia, anche le più minute, nè il romanzo del Dumas, nè il racconto del Rabou, nè la novella storica del buon teologo Viglierchio, nè la bella monografia di monsignor Bernardi, nè gli altri scritti che trattano di quel periodo storico, ci danno più che delle congetture per quanto risguarda “il cor profondo„ e la giusta misura di colpevolezza della celebre signora; la quale non lasciò una sola lettera, ch'io sappia, in cui si riveli tutto o in parte l'animo suo, e neppure un suo sentimento passeggero. Quello che si sa di certo è che era bella “d'una bellezza ribelle agli anni,„ come dice uno storico illustre, “pericolosa all'età prima e alla matura.„ E bisogna che fosse bella veramente, se, già vicina ai cinquant'anni, innamorò ancora d'un ardente amore Vittorio Amedeo, grande conoscitore, che aveva fatto un corso così vasto e splendido di studi, da madamigella di Saluzzo alla contessa di Verrua, alla marchesa di Priez, alla marchesa di Chaumont, alla contessa della Trinità; la quale non era stata nè l'ultima nè la più ammirabile. Giovane ancora e bellissima a quasi cinquant'anni, che maravigliosa creatura sarà stata ai sedici, quando fece la prima apparizione alla Corte, ancora commossa dai ricordi della battaglia terribile della Marsaglia, di cui aveva visto il fumo e udito il fragore dalle finestre del suo bel castello di Cumiana! E può darsi pure che tutta la sua bellezza non sia fiorita che nell'età avanzata: era forse una di quelle opere predilette dalla natura, che essa accarezza, ritocca e abbellisce per mezzo secolo, tormentata da un desiderio amoroso e infaticabile di perfezione. Còlta non è credibile che fosse, poichè sarebbe stata nel suo ceto, e in quel tempo, un'eccezione; e non era forse in grado di scrivere una lettera, neanche in francese, senza molti e grossi spropositi di varia categoria. Ma per questo appunto, chi sa quali altre forze di seduzione e d'amore doveva avere quella sua giovinezza indomabile, chi sa lo sguardo, la carezza, la grazia delle mosse, la musica della parola, l'eloquenza miracolosa del pianto e dell'ira, l'originalità strana dell'ingegno e la fragranza propria, innata del suo bel corpo, cresciuto come una pianta di rosa all'aria delle Alpi! E tutta questa bellezza, tutta questa forza, tutta questa ambizione, salita fino all'ultimo gradino d'un trono, fu precipitata in fondo a un carcere, e andò a finire sul catafalco d'un chiostro. Ah! se la superiora delle Salesiane mi avesse saputo rivelar qualche cosa! * * * In pochi minuti, scendendo per un vicolo erboso e triste, arrivammo alla porta del monastero; che è un grande edifizio nudo, posto sulla china del colle di San Maurizio, con la facciata vòlta verso le Alpi, circondato da un muro altissimo, intorno al quale gira una stradicciuola solitaria. Non ci è più che poche monache; ma sempre un buon numero di educande soggette a un tenor di vita severo; tra le quali, in altri tempi, ci furon ragazze delle prime famiglie del Piemonte, e principesse, che anche presero il velo, e morirono tra quelle mura; poichè il monastero godeva della predilezione della casa regnante. La marchesa di Spigno, lasciata libera di scegliere tra quello e un convento di Carignano, aveva scelto quello, perchè ci aveva due parenti. Le poche case che son là intorno, pare che faccian parte anch'esse del chiostro: non ci si vede e non ci si sente nessuno. Accanto al chiostro c'è una chiesetta chiusa. La marchesa doveva essere passata per quello stesso vicolo silenzioso e malinconico. Sonammo a una porticina, che ci fu aperta da una mano invisibile, salimmo su per una piccola scala tetra, e passando per un'altra porta bassa e stretta, ci trovammo in una stanza bianca, davanti a una larghissima grata doppia, di legno grigio, simile a una inferriata di carcere, di là dalla quale si vedeva un'altra stanza, pure bianca, e semioscura. Qua e là, sulle pareti, ci son scritte a grandi caratteri delle sentenze di santi. A sinistra della grata, c'è una finestra chiusa da una ruota, come quelle degli esposti, per far girare gli oggetti di dentro, senza che si veda in viso chi li riceve. Dall'altra parte c'è appeso al muro un cartellino, che proibisce di dar dei confetti alle educande. La giornata essendo coperta, ci si vedeva appena. E c'era un silenzio, una tristezza fredda, un'espressione così severa, in tutte le cose, di penitenza, di rinunzia al mondo e di malinconia, che quelle due signore coi cappelli infiorati e coi vestiti eleganti ci facevano un contrasto violento e stranissimo, come di due mascherine pompose nella stanza mortuaria d'un ospedale. Aspettammo per molto tempo, senza trovar nulla da dire, come già presi dalla tristezza del luogo. Finalmente, s'udì un fruscio: comparvero due monache. Eran la superiora e un'anziana, vestite di nero, con un soggòlo bianco, e con un velo oscuro calato fin quasi sugli occhi. S'avvicinarono alla grata. Il velo e la mezza luce non lasciavan distinguere nè l'età, nè la fisonomia. La superiora doveva esser giovane. Quando aperse bocca, fui maravigliato della sua voce dolcissima e della sua pura pronunzia toscana. Era di Pistoia. Ci sedemmo, e cominciammo a parlare, come in confessione, a bassa voce, a traverso ai fori della grata. * * * La superiora cominciò con dire che aveva ben poche notizie da darmi. Essendo state costrette parecchie volte a sgomberare in fretta e in furia il convento, per cagione delle guerre, le monache avevan perduto molte carte importanti, ed anche degli oggetti preziosi; fra i quali dei doni della marchesa di Spigno. Il ricordo più notevole che rimanesse di lei era un ritratto a olio, di grandezza naturale, che si diceva somigliantissimo e che doveva essere stato fatto prima della sua entrata in monastero, perchè non si poteva supporre che, nel monastero, si fosse fatta ritrarre con quel vestimento. Era forse del tempo in cui credeva di diventar regina, chè allora aveva la passione dei ritratti; in uno dei quali si fece dipingere in piedi, con la mano distesa sopra il diadema. La superiora mi domandò se lo volevo vedere. Non aspettavo altro: una monaca, che non vidi, lo portò su dal piano terreno e lo fece passare nello spiraglio tra la ruota e il muro; la signorina lo prese e lo appoggiò alla spalliera d'una seggiola a cinque passi da me, rivolto verso la finestra; e io ci fissai gli occhi su, avidamente.... Bella.... Bella.... Cioè, non so. Seducente, senza dubbio. Una testina, un visetto pieno di grazia, di grilli, di vezzi, di sorrisi sfuggevoli, di sottintesi arguti, di piccole minaccie e di piccole carezze, gli occhi neri e grandi, un nasino patrizio, una boccuccia amorosa e maliziosa, un bel collo lungo, una vita snella e diritta, che fa indovinare un'alta statura, e un corpo leggero e pieghevole, d'una eleganza altera, il quale si possa afferrare e levar su con una mano, come un arboscello, e che debba essere irresistibile nei movimenti della contraddanza e quando s'abbandona sui guanciali della carrozza. Bellissima no; ma simpatica, bizzarra, salata, come dicon gli spagnuoli, un misto curioso di tipo francese e di tipo italiano, una fisonomia che rivela un sangue bollente e una volontà risoluta, e la consapevolezza della propria potenza; uno sguardo che fa aspettare un parlare stringato e concitato, tutto frasine scintillanti e scherzi acuti, e parole che infochino l'anima, all'occasione. Una di quelle figure che vedeva sognando Enrico Heine, quando sonava certi pezzi il Paganini, adagiate sopra un canapè in una stanza decorata alla Pompadour, con molti piccoli specchi e piccoli amori, in mezzo a un grazioso disordine di porcellane chinesi, di ghirlande di fiori, di trine lacerate, di guanti bianchi e di perle. Ha una foggia strana di pettinatura, rotonda e altissima, a trecce ravvolte, della forma d'un turbante enorme; dal quale vien giù un velo trasparente che le dà l'aria d'una musulmana; un vestito di broccato azzurro ricamato a fiori d'argento, e un manto di velluto vermiglio ornato d'ermellino, del quale stringe un lembo con la mano sottile. Ha l'aspetto d'una grande signora; ma d'una signora salita più alto dei suoi natali, e che abbia la coscienza di star degnamente dov'è salita; e si capisce ch'è salita per l'amore. Si capisce come Vittorio Amedeo potesse credere ch'ella sarebbe bastata a riempirgli la vita nella solitudine di Chambéry. Si prova un rammarico di non averla vista viva. E si vorrebbe dire molte cose alla sua immagine, come si sarebbero dette a lei vivente; e non parole timide e ossequiose, ma brillanti, ardite, argute, per farla ridere, per parerle spiritosi, festosi e amabili, e piacerle a qualunque costo, e ottenere un lembo di quel velo bianco da stropicciar fra le dita e la bocca. Non una donna bellissima; ma che sarebbe meno seducente e meno terribile, se fosse più bella. — Sappiamo poca cosa, — disse la superiora, dolcemente. Quello che si sa di certo, perchè è scritto nelle memorie del monastero, è che l'annunzio della sua venuta arrivò alla superiora quasi improvvisamente, pochi giorni dopo la morte del re Vittorio Amedeo, in modo che ci fu appena il tempo di far sgombrare e rintonacare alcune stanze al piano terreno, e di metterci un poco di mobilio. A che ora sia arrivata e da chi accompagnata, non si sa. Era un giorno di novembre del 1732. Ci si dice che fosse una mattina di domenica. Ma non lo potremmo assicurare.... La superiora d'allora era la madre Chiara Maria di Luserna.... Mentre la superiora parlava con quella voce soave e monotona, io continuavo a guardar fissamente la tela, sempre più attirato da quella singolare bellezza. E come avviene sovente, che a furia di fissare un ritratto pare che gli occhi s'avvivino, che le labbra fremano, che i muscoli guizzino e che da un momento all'altro debba uscir dall'immagine la parola, così avvenne a me. Intorno non c'era nulla che mi distraesse: in capo a pochi minuti mi parve che il ritratto s'animasse. E come da molti giorni pensavo quasi continuamente alla marchesa di Spigno, studiandone l'animo, attribuendole pensieri, sentimenti e parole, così mi seguì quello che segue a tutti qualche volta, di far parlare dentro di noi una persona familiare, e di starla a sentire con attenzione, come se fosse veramente lei che parlasse, e senza intervenzione alcuna, fuorchè passiva, della nostra facoltà intellettuale. La marchesa mi fissò, il suo sguardo prese a poco a poco un'espressione severa, la sua bocca s'atteggiò a un sorriso di ironia e di disprezzo: poi, tutt'a un tratto, arrossì come d'una fiammata di sdegno, e sprigionò un torrente di parole. — Eh bien! Que voulez-vous? Êtes-vous encore un historien de la maison de Savoie? Êtes-vous un officier des gardes déguisé, venu pour surveiller mon portrait? N'est-ce pas encore assez de vous être acharnés pendant cent cinquante ans contre une pauvre femme que personne ne défend? Mais c'est honteux, à la fin! Je suis lasse de traîner dans vos romans et dans vos sottes histoires, pleines de calomnies et de mensonges! Pourquoi donc êtes-vous si impitoyables avec moi, vous qui êtes si flatteurs pour tant d'autres? Allez, allez faire vos romans sur la comtesse de Verrue. Je ne suis pas assez intéressante, moi. Je n'ai pas assez changé de couvent, je n'ai pas trahi mon mari, je n'ai pas fait des voyages triomphants à Saint Moritz avec des cortèges de reine, je n'ai pas fait l'espionne pour l'Ambassadeur de France, je n'ai pas fui de Turin comme une voleuse en emportant les collections d'objets d'art achetées avec l'or de mon amant, je n'ai pas fini ma vie dans un palais splendide, au milieu des fêtes et des plaisirs, en me glorifiant de mes amours passés! Allez. Je n'ai pas d'auréole poétique, moi. Je n'ai été qu'une ambitieuse vulgaire. Je visais peut-être déjà à la couronne à l'âge de seize ans, lorsque je commis la faute monstrueuse de donner mon cœur d'enfant à l'amour d'un roi, jeune, beau, glorieux, à qui toutes les autres ont résisté, comme tout le mond sait bien! Je n'ai jamais eu que de l'ambition; je n'ai jamais su ce que c'était l'amour, la reconnaissance, le dévouement, l'amitié. Je n'ai pas même eu le cœur d'une piémontaise et les entrailles d'une mère. J'ai été le malheur et la honte de mon pays. C'est moi seule qui ai poussé Victor Amédée à bouleverser l'État pour ressaisir la couronne, c'est moi qui ai été le tourment de ses derniers jours, c'est moi qui ai été la première cause de sa mort. J'ai fait tout cela pour l'ambition. Et je l'ai satisfaite, en effet, cette malheureuse ambition, pour être traitée comme je le suis! J'ai fait mon bonheur, j'ai joui de la vie, je n'ai pas été punie, je n'ai pas expié, je n'ai pas souffert, je n'ai pas pleuré! J'ai mérité vraiment que la haine du monde s'abattit sur ma tête et frappât au cœur mes enfants, et que mon pauvre nom fût prononcé pour toujours avec un sourire de raillerie et de dédain comme le nom d'une coquette sans âme et d'une aventurière bafouée! Oh!... C'est une infamie!... Êtes-vous venu pour mentir comme les autres? — Nel convento, — continuò la superiora, con la sua voce dolce, mentre io dicevo l'animo mio alla marchesa di Spigno, — essa non fu cagione di alcun disturbo. Non vestì l'abito di monaca; ma si può dire che visse quasi come una monaca. Ci aveva qui una sorella, suor Maria Giuseppina Radegonda, e una nipote, suor Teresa Innocente, che le furono di molto conforto nei primi mesi. Ma si adattò a ogni cosa con grande dolcezza. Era buona con le educande, ossequiosa con la superiora..... — Eh bien, oui! — rispose la marchesa; — je vous ouvre mon cœur, j'avoue mes fautes. Lorsque, après la mort de mon mari.... — S'interruppe un momento, e poi ricominciò, con una strana pronunzia tra piemontese e francese, e con un poco di stento: — Ebbene, sì, lo confesso. Quando mi ripresentai alla corte dopo la morte del conte di San Sebastiano mio marito, non miravo soltanto a rialzar la fortuna dei miei figliuoli, caduti nelle strettezze; quando m'accorsi che il Re mi riamava, mi lasciai sedurre da una pazza speranza. È vero. E feci quant'era in me perchè il mio sogno s'avverasse. È anche vero. Sono stata ambiziosa, sono stata donna. Si perdonano, si scusano tante colpe d'ambizione agli uomini! Non si dovrà perdonar nulla a una donna? Sì, ho creduto di diventar regina, lo confesso, e quando intesi la notizia inaspettata dell'abdicazione, mi si gelò il sangue nelle vene, come se fosse crollata la reggia sotto i miei piedi. Ma tutto fu finito in quel punto. Quella delusione terribile mi tolse ogni speranza per sempre. È una scellerata ingiustizia l'accusarmi d'aver eccitato Vittorio Amedeo a rivocare l'abdicazione, d'averlo spinto da Chambéry a Moncalieri per ritogliere la corona al figliuolo. Non è vero. Quelli che furono primi ad accusarmene, dimenticarono di aver predetto essi medesimi, quando il re voleva abdicare, che se ne sarebbe pentito ben presto, che avrebbe voluto regnar da capo dopo sei mesi; dimenticarono d'averlo supplicato piangendo di desistere dal suo proposito, perchè appunto presentivano quello che sarebbe accaduto; come lo supplicò il suo stesso figliuolo, turbato da un eguale presentimento. Ma che dimenticarono! Come potevano non ricordarsi che, nei primi mesi dopo l'abdicazione, Vittorio Amedeo aveva continuato a regnare, che non si faceva nulla a Torino senza il consenso di Chambéry, che si diceva che c'eran due Re, che tutto, tutto faceva presentire quasi inevitabile e di giorno in giorno più certo quello che da principio s'era solamente temuto? Io ho spinto Vittorio Amedeo! Ma non sapevan dunque più com'era nata e cresciuta l'acrimonia del padre contro il figliuolo, prima perchè avevan cessato di mandargli il bollettino delle notizie, poi, per la legge delle catastazioni in cui non avevano fatto a modo suo, poi per la questione di Roma in cui non avevan chiesto il suo parere? Non avevan lette le sue lettere sempre più concise, sprezzanti, irritate, minacciose? Non sapevan dal conte Petiti, che ci veniva in casa in aspetto d'amico, tutti i discorsi che egli faceva, furiosi contro Carlo Emanuele? Aveva mai potuto riferire una mia parola detta a mal fine, il signor conte? E c'era forse bisogno che la dicessi? E il peggior rimprovero che mi abbia fatto Vittorio Amedeo, in que' suoi ultimi tristi giorni di Moncalieri, non è forse stato di non essermi opposta al suo disegno, di aver semplicemente taciuto in quella malaugurata notte del Moncenisio, quando egli mi domandò se doveva proseguire il viaggio o ritornare in Savoia? Se avesse avuto un eccitamento, un cattivo consiglio da rimproverarmi, si sarebbe contentato di rimproverarmi il silenzio? Mi accusano di aver ordito la trama! Ma quale trama, Dio giusto, se Vittorio Amedeo scese in Piemonte come un fanciullo, senza aver nulla preparato, senz'aver cercato un aiuto, senz'essersi fatto un complice, senza saper neppure quello che si voleva? Che prove, che indizi d'una trama si son trovati nelle sue carte? Chi fece un passo, chi disse una parola per favorire il suo proposito? Si può pensare che io l'avrei lasciato correre a una simile impresa in quel modo, se ci avessi messo la mano? Dove sarebbe stato l'accorgimento, allora, la malizia fine e profonda, di cui mi accusarono? Avrei dovuto oppormi almeno, dicono, trattenerlo, persuaderlo. Ipocriti! Essi sapevan bene che il mio impero sopra di lui era già finito da un pezzo, che dopo i primi mesi di solitudine l'amore era volato via, che non era più lo stesso Vittorio Amedeo dopo l'insulto apoplettico del cinque di febbraio, che la mia parola non trovava più la via del suo cuore, che già aveva cominciato a contraddirmi, ad aspreggiarmi, a impormi tutti i suoi voleri; ch'io non ero più che una povera infermiera al suo fianco! Ma chi non comprende, cominciando da quel disgraziato giorno dell'apoplessia, chi non vede in tutti i suoi atti, nella sua condotta a Moncalieri, nelle sue imprudenze puerili, nei suoi discorsi contradittorii, nelle sue esitazioni, nelle sue povere collere d'infermo, chi non riconosce il corso, il progresso lento e costante d'una malattia della mente, che doveva finire, che finì con l'insensatezza, e per cui sarebbe stato inutile, se non sarebbe stato peggio, qualunque mio tentativo di persuasione? Certo, io ho desiderato che abbandonasse il soggiorno di Chambéry, perchè vedevo che quella solitudine lo rattristava, che quell'aria non gli giovava, e che in quel viver così soli noi due, io andavo perdendo il suo affetto, e affaticandolo quasi con la mia presenza. Io ho desiderato, e l'ho consigliato nei primi mesi ad accogliere le offerte di Carlo Emanuele, e a ritornare in Piemonte. Ma consigliarlo a cacciar dal trono il figliuolo, a turbare il suo popolo, a versare del sangue, a compromettere la mia patria, io, per essere regina, a cinquantadue anni! e una regina accagionata di mille mali, invisa ai miei sudditi, odiata dalla corte, disprezzata dai miei pari, maledetta dal futuro re! E regina per quanto tempo? E poi? E voi l'avete creduto? E mille e mille l'hanno potuto credere? E quasi tutti lo credono ancora? È un'ingiustizia! Io ho l'anima pura di questa colpa, lo grido al mondo! ne attesto il cielo! lo giuro per la memoria de' miei figliuoli! — Si valse sempre della sua autorità a vantaggio del monastero, — continuava dolcemente la superiora; — in molte occasioni ci ottenne dei favori e delle protezioni. Aveva conservato la sua ricca dote; spendeva largamente perchè le feste religiose si celebrassero con pompa. Si adoperò molto, fra l'altre cose, per la canonizzazione della nostra Giovanna Chantal, ch'era stata nel monastero il secolo innanzi.... — Ma fossi anche stata colpevole, — ripigliò la marchesa, — avrei meritato il castigo con cui mi schiacciarono? Sarebbe bastata una sola notte, quella orrenda notte di Moncalieri, all'espiazione d'ogni colpa. No, non fu giustizia, non fu umanità; mai, mai si troverà una onesta parola per scusare quell'abbominio. Per molti anni, a ogni rumore ch'io sentii, di notte, mi svegliai atterrita, e mi voltai verso la porta come per veder cadere i battenti sotto i colpi delle accette, e apparire il Conte della Perosa, gli ufficiali delle guardie e le torce.... Con le spade nude e con le baionette circondarono il letto! Ah! non si descrive, non s'immagina quello ch'è accaduto. Il re si avviticchiò disperatamente a me; io credei che mi restasse morto fra le braccia; ci separarono a forza, mi lacerarono i panni, mi trascinarono sul pavimento, seminuda, fuori della stanza. Io non vidi più nulla; ma sentii! Resistette. Pregava i suoi granatieri: Ma voi, miei bravi soldati, che m'avete servito fedelmente, che m'avete visto combattere cento volte in mezzo a voi, soffrirete che si tratti così il vostro vecchio re?... — Mi si schiantava l'anima. Tutto fu inutile. Orrore! Gli misero le mani addosso! a lui! al vincitore di Verrua, al liberatore di Torino, che aveva regnato per cinquant'anni e condotti in dieci guerre gli eserciti della lega europea! le mani addosso, come al più vile dei malfattori! Sentii lo strepito della lotta, le grida; lo portaron via ravvolto nelle coperte; udii morir la sua voce che mi chiamava: Dov'è la marchesa? dov'è mia moglie? Carlotta! Moglie mia! Guardai giù dalle vetrate, vidi una selva di baionette, le lanterne, la carrozza.... Ebbene, sì, feci un terribile voto allora, mi balenò una triste speranza quando intesi il mormorio dei granatieri, indignati di vederlo cacciare in carrozza come un condannato a morte, sotto le pistole dei dragoni, e quando il La Perosa gittò quel sinistro grido: Morte a chi parla! — Desiderai che i reggimenti si ribellassero e lavassero quell'infamia col sangue.... Me le sentii passare sul seno le ruote di quell'orribile legno, quando lo vidi sparire nelle tenebre, come un feretro trafugato. Tutto era finito. Credetti di sognare. Una così nefanda cosa mi pareva impossibile. Mi pareva che avrebbe dovuto crollare il palazzo, aprirsi la terra, sconvolgersi il mondo. Avrei voluto cader morta fulminata. Fossi pur morta! A un altro più tremendo dolore sarei sfuggita. Raccapriccio ancora; il mio cuore fa ancora sangue e fuoco a quel ricordo. Nella fortezza di Ceva m'hanno portata! Sì, gran Dio. Una gentildonna onorata, la moglie del vecchio re, la sposa di Vittorio Amedeo, nella fortezza di Ceva; vigliacchi!.... in mezzo alle prostitute! — Tutti ricorrevano a lei, — mormorava intanto la superiora; — ella beneficava e confortava tutti. Alle porte del monastero veniva ogni giorno una folla di poveri, che se n'andavano sempre via benedicendola. E non dava solamente soccorsi in denaro. Scriveva lettere di raccomandazione ai parenti e ai conoscenti lontani, alcuni dei quali occupavano alte cariche e insisteva con tanta bontà e con preghiere così affettuose.... — Oh! come si riconosce in tutto questo, — continuò la marchesa, — la viltà degli uomini che diventan feroci e implacabili per paura! Perchè fu per paura, che il ministro d'Ormea, coi suoi complici, suscitò nel cuore di Carlo Emanuele i più iniqui sospetti e lo spinse alla barbarie; per paura del suo vecchio re, del suo antico benefattore, del quale sapeva d'aver provocato lo sdegno; fu per paura, fu per ambizione di grandeggiare davanti a Carlo, come salvatore dello Stato; fu per pigliar padronanza su di lui, e appagare il furore malaugurato di despotismo che lo divorava. Non può esser stato che suo il pensiero di quello spaventevole arresto notturno, che diede l'ultimo tracollo alla salute d'Amedeo, come non può esser nata che nel capo d'una donna l'idea di cacciar me in quella immonda prigione; in capo alla regina Polissena, a cui ho sempre letto l'odio negli occhi, e che non essendo capace di pietà, credeva me incapace d'affetto. Io non l'amavo Vittorio Amedeo! Io non l'avevo amato mai!... Ebbene, è vero; ci fu un tempo in cui l'ambizione soffocò l'affetto nel mio cuore, dei giorni in cui non amai che il re nel mio sposo. Me ne accuso e me ne vergogno. Ma quando ogni ambizione fu morta e la sventura lo colpì.... quando in quella sciagurata fortezza seppi che il mio povero re, chiuso nel castello di Rivoli, mi cercava, e interrogava di me con parole supplichevoli le guardie mute, e mi chiamava ad alta voce piangendo, allora tutto l'affetto antico si ridestò in me, un amor nuovo, una pietà immensa, un desiderio di rivederlo, di consolarlo, di gettarmi ai suoi piedi, di dare il mio sangue e la mia vita per lui. Sì, io l'amai allora, più che non l'avessi mai amato, con tutte le mie viscere, con tutte le forze della mia disperazione. E quando mi ricondussero a lui, in quell'eterno viaggio da Ceva a Rivoli, ringraziai Iddio e piansi di gioia. E quando arrivai al castello, e vidi tutte quelle sentinelle, quei fossi, quelle porte murate, quelle finestre a botola, quell'apparato lugubre di carcere, quando, spalancata la porta della sua stanza oscura e triste, me lo vidi correre incontro con le braccia aperte, piangendo come un fanciullo, invecchiato, smagrito, barcollante, sfigurato da due mesi d'angoscia e di delirio, e pure raggiante per un momento dalla contentezza di rivedermi, oh allora sì, allora l'amai, allora gli gettai le braccia al collo con uno slancio d'amore infinito, lo benedissi cento volte, gli domandai perdono dei miei torti, giurai di sacrificare tutta la mia vita a lui, di non aver più sentimento, più pensiero, più respiro che per lui, di non staccarmi dal suo fianco mai più, di essere sua sposa, sua sorella, sua figliuola, sua schiava, e gli abbracciai le ginocchia e gli copersi le mani scarne di baci, singhiozzando da morire. Povero marito mio! Povero mio vecchio re, mio grande Amedeo infelice! Non aveva più che me al mondo, non gli rimaneva più del suo immenso passato che il mio povero amore! Abbandonava la testa tremante sopra il mio seno come sul seno d'una madre, e voleva ch'io lo coprissi con le mie mani come per proteggerlo. Dio m'ha letto nel cuore: io mi sarei trascinata in terra fino ai piedi del trono, per ottenergli un sollievo! Avrei dato la mia carne a brani per riavere un anno di gioventù e di bellezza! Ma egli m'amava ancora così com'ero, e s'impietosiva per me, dicendosi cagione di tutti i miei dolori, e domandandomi perdono; e allora piangevamo e pregavamo insieme, guardando pei vani dell'inferriata il bel cielo del nostro Piemonte.... E in quei momenti, almeno, non eravamo infelici! — Fece molti bei regali al monastero, — continuava a dire la superiora, sempre con la stessa dolcezza; — regalò quasi tutti gli oggetti che aveva portati con sè: un bacino e una brocca d'argento, un inginocchiatoio, una tavola d'ardesia nera, che era appartenuta a sua maestà Vittorio Amedeo. Diede alla cappella maggiore una bellissima lampada d'argento, tutta cesellata. Istituì una messa settimanale da celebrarsi nella nostra chiesa il venerdì.... — No, non furono quelli i giorni più tristi. — ricominciò la marchesa; io li rimpiansi, poi. Ci rimaneva ben altro a soffrire, a tutti due. Oh quegli ultimi mesi infelicissimi di Moncalieri! A questo supplizio ero riserbata, di vederlo morire lentamente, perdendo la ragione, ricadendo nell'infanzia. Che orrende sere, quando egli si trastullava a tavolino a giochi di ragazzo, ridendo e cantando, ed io lo stavo a guardare, da un angolo della stanza, per ore ed ore, soffocando i singhiozzi nel fazzoletto, temendo io pure, a poco a poco, di smarrire la ragione! Che ore, che giornate passai alle finestre della mia stanza, a guardare per i vetri i fossi e le palizzate del castello, e quelle pioggie interminabili, sola, smemorata, aspettando che i cappuccini l'avessero placato, e ch'egli mi riammettesse alla sua presenza! Poichè era destino che le mie angoscie crescessero fino all'ultimo giorno, che egli dovesse a grado a grado prendermi in ira, e poi in odio, chiamarmi la cagione di tutte le sue sventure, scacciarmi, coprirmi d'insulti, cercare nella sua mente vaneggiante le parole più crudeli per passarmi l'anima, farmi morire di vergogna in presenza dei servi, e.... sì, Dio mio! percuotermi, stamparmi l'impronta della sua mano sul viso, chiamandomi col più infame nome che si possa gittare in faccia a una donna! Invano io gli afferravo le mani, e lo supplicavo, ricordandogli i nostri bei giorni, quando m'aveva vista fanciulla, e quando m'aveva riamata dopo trent'anni, e le nostre dolci sere del Valentino, e il mio ritorno a Rivoli, quando mi piangeva sul seno come a una madre! Tutto era invano! Egli non voleva ricordare, s'esasperava, mi respingeva, alzava il pugno sopra il mio capo! No, nulla di più orrendo ha mai sofferto una creatura umana. Tutti i dolori passati eran nulla in confronto alla vista di quel volto di moribondo, di quell'occhio insensato e terribile che mi fissava, mentre la lingua paralitica si sforzava e non riusciva a proferir l'ingiuria sanguinosa che esprimeva lo sguardo! Dio mio! Dio mio! Quelle notti eterne, quelle furie di pazzo, quei lamenti di bambino, quei balocchi sparsi, quei carcerieri, quei frati, quell'aria di morte che spirava da ogni parte.... Nemmeno il conforto di vegliare il suo cadavere mi fu concesso. Appena spirò, fui strappata dal suo letto. Ero pure la sua vedova, l'avevo pure assistito per due anni, me l'ero guadagnato il diritto di restare accanto al suo letto di morte! No.... io profanavo quella camera, ero un'intrusa. Dovevo andar fuori, a piangere. Fui spinta fuori. Mi voltai ancora una volta a dare l'ultimo addio a quel povero corpo.... Poi mi parve di ritrovarmi sola in mezzo a un immenso deserto oscuro, oppressa da una stanchezza infinita.... Ma non mi lasciaron riposare lungo tempo, no.... L'ordine del re non si fece attendere.... Oh! quella tomba aperta non aveva disposto alcuno alla pietà.... Alla prima parola compresi e caddi in ginocchio.... Era il chiostro per la vita. — Fu meraviglioso, veramente, un miracolo del Signore, — continuava la superiora a bassa voce, — che ella abbia fatto un così grande cambiamento di stato e di vita, senza dar segno di soffrire, o di fare un sacrifizio. Qui si aspettavano tutti che sarebbe stata per molto tempo inquieta e triste, che avrebbe dovuto per molto tempo lottare e pregare prima di ottenere la pace dell'anima, dopo tanti grandi casi e infortuni che la conducevano dalla reggia in un monastero. E così non fu. Essa venne qui come già preparata in cuor suo alla nuova vita, e si mostrò fin dai primi giorni rassegnata e tranquilla.... — Quelli che parlaron di rassegnazione, allora! — ripigliò la marchesa con un sorriso amaro. — Rassegnazione! La tortura, l'inferno fu, nei primi tempi. Il mio cuore faceva sangue per cento ferite.... Dei miei figliuoli avrei avuto bisogno! E mi segregaron dal mondo. Sì, io ci speravo nella rassegnazione. Ma non credevo che avrebbe tanto tardato a giungere. Io non so. Una cosa strana, impreveduta, seguì dentro di me, quando mi trovai reclusa, scemata appena la grande angoscia di Moncalieri. La mia immaginazione, sovreccitata dalla solitudine, passava sopra alle ultime sventure, e ai due anni di Chambéry, e mi riportava sempre, mio malgrado, ai più begli anni della mia vita, alle più dolci ebbrezze della mia ambizione, e quasi me ne ravvivava il senso, e mi faceva sognare a occhi aperti, e mi tormentava, e mi metteva la febbre. Io non capivo il perchè. Era una pazzia. Ne ero impaurita. Mi ritrovavo in mezzo alle feste della Corte, disgraziata! rivivevo nei grandi castelli e nei parchi, rivedevo i tornei, le cavalcate, le cacce, mille visi, mille larve d'oro, che mi facevan guardare, toccare le pareti della mia cella con un profondo stupore, a cui seguiva uno sgomento mortale. E una forza nuova si ridestava in me, il grido ostinato di una gioventù che non voleva morire, un ritorno impetuoso dell'antico orgoglio, un'eco, un nuovo soffio inaspettato di tutte le passioni che io aveva creduto morte per sempre. Volevo dimenticare, pregare, assopirmi nella mia tristezza, annichilirmi fra queste quattro mura dove mi avevano calata come una morta; e sognavo, invece, vivevo potentemente, e soffrivo con tutto il vigore d'una donna provata per la prima volta dalla sventura. Quello stesso silenzio del chiostro, quegli anditi bianchi, quelle vesti nere, quei visi color di cera, quella quiete inalterata delle sorelle, quel mormorìo soave delle orazioni, mi sollevavano delle tempeste nel sangue. Tutte le mie ferite si esacerbavano. Un odio mortale mi crescea nell'anima contro i miei nemici. Perchè m'avevano sepolta? Che cosa avevano a temere da me, povera donna? Non erano paghi di avere ucciso il re? Volevano far impazzire e morir me pure, e godere della mia disperazione e della mia agonia? Non ci potevo credere. Non può durare, pensavo, mi libereranno, mi lasceranno andare con i miei figli! Guardavo dalla finestra quei monti e quelle campagne dove aveva combattuto Vittorio Amedeo, e non mi pareva possibile di dover morir torturata in cospetto di quei luoghi! Mi pareva ch'egli dovesse sentirmi piangere e accorrere a liberarmi, e lo chiamavo dentro al mio cuore; avrei gridato il suo nome, se avessi osato; speravo, l'aspettavo qualche volta, come un'insensata; baciavo i suoi ricordi, mi stringevo al seno tutte le cose che serbavo ancora della mia vita passata, singhiozzando delle notti intere, e poi degl'impeti di furore mi travolgevano il sangue e la ragione, e soffocavo gli urli contro i guanciali, augurando che sprofondassero il monastero e la reggia, e che si richiudesse la terra sopra la mia testa. E poi ricominciavo a piangere e ad adorare il passato! — Molto anche giovò a mantenerla serena, — continuò la superiora, — un'altra parente ch'ella trovò qui, una cugina, la marchesa Bianca di San Germano, che era rimasta vedova a vent'anni, essendo dama d'onore di sua maestà la regina Polissena, e che aveva preso il velo per fuggire ai pericoli del mondo. Era una creatura tutta soavità e amor di Dio, e la marchesa prese ad amarla come una figliuola.... — Ma nessuno mi lesse nell'anima, — riprese a dire la marchesa; — la vedova di Vittorio Amedeo non mancò alla dignità del suo nome; con uno sforzo supremo dell'orgoglio io tenni nascosti i miei avvilimenti e le mie angosce. Nessuna di quelle buone suore, che mi guardavan nei primi giorni con un sentimento quasi di pietà inquieta e di aspettazione paurosa, nessuna vide mai sul mio viso un'ombra di rammarico o di sgomento. Io sarei morta di crepacuore senza tradirmi. Dio m'aveva dato una forza immensa di soffrire. E poi.... i mesi succedettero ai mesi, gli anni agli anni.... Il mio cuore si quetò, il mio spirito si staccò a poco a poco dal mondo. Mi parve che intorno a me si facesse un grande silenzio. Centinaia e migliaia di quei giorni sempre eguali, interrotti sempre a quell'ore dal suono della tabella, dal bisbiglio delle preghiere e dal campanello del parlatorio, mi si confondono ora alla memoria in un solo giorno interminabile, d'una luce pallida, durante il quale non sono ben certa d'aver vissuto o sognato. Molte e molte suore passarono, che rivedo in confuso: dei visi ridenti, dei visi desolati, dei visi di sante e di martiri, delle vecchie e delle giovinette, e mi ricordo vagamente di lunghe agonie, di morti improvvise e strane, e di via vai notturni di monache, fra cui riconoscevo il passo del confessore. Lentamente, d'anno in anno, il mio cuore si ravvicinava a Dio. La vista di tutte quelle povere creature che vivevano e morivano santamente, con una serenità sovrumana, e quella preghiera continua, infaticabile, eterna, che mi sonava d'intorno e ravviava, rialzava perpetuamente i miei pensieri verso il cielo, finirono con aprirmi l'anima alle consolazioni e alle gioie d'una fede che non avevo mai conosciuta. Cominciai a pregare col cuore, e a sentir cadere sulle mie mani giunte delle lagrime che mi facevan del bene. Il mondo in cui ero vissuta non m'appariva più che come una terra lontanissima, dalla quale m'allontanavo senza posa, inoltrandomi in un mare immenso e immobile. Il mio passato e il mio presente diventarono come due esistenze distinte nella mia mente. Mi pareva d'esser passata da un mondo ad un altro. Non ero neanche ben certa, alle volte, che quel passato splendido e doloroso fosse veramente mio e non d'un'altra donna ch'io avessi conosciuta intimamente. Guardavo il mio ritratto con maraviglia, toccavo la mia tavola d'ardesia nera come per interrogarla, non mi pareva vero, vedendo della gente di fuori che si fermava a guardare le mie finestre, mi pareva una cosa strana d'esser io l'oggetto della loro curiosità, d'esser io quella marchesa di Spigno di cui parlavano. Un solo affetto mi legava ancora al mondo: i miei figli. Quetate le tempeste che l'avevan sopraffatto per pochi anni, quell'affetto mi si era ridestato nel cuore più forte, più dolce ch'io non l'avessi mai sentito. Essi m'avevano sempre amata, essi dovevano aver sofferto, avrebbero avuto dei nemici per cagion mia. Io dovevo espiare anche questa colpa, ricompensarli con tanto amore di quei dolori. E li amai allora, dal fondo della mia solitudine; li richiamai intorno a me, li accarezzai con infinito amore nel mio pensiero; li chiamavo a bassa voce, mille volte, per sentire il suono dei loro nomi, e me li scrivevo e li baciavo nella mia cella, di notte, e pregavo per loro, benedicendoli, e piangendo in silenzio, con la speranza che un giorno avrebbero perdonata e compianta la loro povera madre, e onorata la sua memoria infelice.... — Passava molte ore sola nelle sue stanze, — diceva in quel momento la superiora, — e occupava il tempo a cucire e a filare: il monastero conservò per molti anni due pezze di tela ch'essa aveva filate e regalate alla superiora. All'occorrenza, aiutava di propria mano la guardaroba, la sacrestana, e l'archivista, rendeva dei servizi alla scuola e alla infermiera, e aveva un angolo per sè nel giardino, dove coltivava dei fiori per l'altare della cappella maggiore.... — Poi, un grande avvenimento scosse la mia vita, — disse la marchesa, avvivandosi. — Ero nel convento da quindici anni. Ero settantenne, quasi. Durava la guerra con la Francia da un pezzo. Io stavo in pensieri per il mio Paolo, il mio primo nato, che comandava il primo battaglione delle guardie. Aveva trentasette anni, allora, era tenente colonnello; era sempre stato affezionato a me più degli altri; pensieroso, dolce come un fanciullo; l'anima più onesta, più gentile che abbia mai sognato una madre, aspettando il suo primo figliuolo. Non lo vedevo da molti anni. Ma sapevo che mi ricordava con amore e che non parlava di me senza lacrime. Ed ecco che all'improvviso la guerra irrompe dalla riviera sulle Alpi. L'invasione francese è imminente. I soldati piemontesi accorrono da ogni parte. Pinerolo è in rumore. Passano le milizie provinciali, passano i battaglioni austriaci, passa il primo battaglione del reggimento delle guardie. Le guardie! I soldati che comandava il mio figliuolo. Ne fui avvertita. Li vidi passare dalla finestra per la via della val di Perosa, con le loro belle divise vermiglie. Paolo non potè salire a vedermi. Ma io lo riconobbi, mi parve di riconoscerlo di lontano in mezzo a un gruppo di cavalieri: egli s'era voltato di certo a guardare il monastero dove la sua povera mamma stava rinchiusa da quindici anni. Dio mio! Andava a battersi! Avevano fortificato l'Assietta. Io sapevo bene che le guardie avevan diritto al posto d'onore sul campo di battaglia, che i più gravi pericoli gli avrebbero affrontati loro, che le forze della Francia eran formidabili, e che il mio figliuolo sarebbe stato il primo tra i più temerari. Il mio figliuolo! Se me l'avessero ucciso! La mia povera testa si perdeva. Avevo un triste presentimento. Passai dei giorni con l'anima sconvolta. Le sorelle mi confortavano, pregavano per lui e per me. Le ore erano eterne. Una mattina, tutt'a un tratto, sentii un colpo sordo, lontanissimo: non capii subito; ne sentii un altro.... e caddi fra le braccia di mia sorella e di Bianca di San Germano. Erano i cannoni francesi. Si battevano all'Assietta. Ci mettemmo a pregare. Io non connettevo più, non sentivo più nulla. Mi parve che passasse un tempo sterminato. Non arrivavano notizie. Venne la notte. A mezza la notte fummo riscosse da un grande rumore della città. Era la notizia della vittoria! Il conte di Panissera aveva attraversato Pinerolo come un fulmine, per portar la notizia e un fascio di bandiere francesi a Carlo Emanuele. Ma il mio figliuolo? Che cos'era avvenuto di lui? Era ferito! Era morto forse! Non si sapeva nulla! Io morivo d'affanno, di impazienza, di terrore, volevo fuggire, correre verso i monti, a cercarlo, a domandare. Ah! finalmente, la grande notizia venne: È vivo! — Gittai un grido, caddi in ginocchio, ringraziai Iddio. Oh! io non conoscevo ancora tutta la grandezza della sua grazia. D'ora in ora sopraggiunsero le altre notizie. — Il conte di San Sebastiano ha respinto tutti gli assalti della principale colonna nemica. — Il conte di San Sebastiano ha salvato la giornata, rifiutando tre volte di obbedire al conte di Bricherasio, comandante supremo, che gli ordinava di abbandonar la tenaglia e di correre in soccorso al Serin. — E poi una voce generale, crescente, la notizia che arrivava da cento parti, ripetuta, ripercossa da mille echi, dal Piemonte, dall'Italia, dalla Francia, dall'Europa intera: — La gloria della vittoria è del San Sebastiano; lui il generale, l'anima della difesa, davanti a cui morirono il generale Delisle e il maresciallo Arnault; lui che vide e comprese tutto, e trionfò con un atto temerario d'inobbedienza in cui sapeva di giocar la vita e l'onore; lui l'eroe dell'Assietta, il vincitore della grande battaglia, il salvatore del Piemonte! — La gioia mi soffocò, mi ottenebrò la ragione. Oh! vederlo! abbracciarlo! poterlo benedire! sentirmi chiamar madre un momento, vederlo soltanto passare, poter sventolare il fazzoletto dalla finestra, e ricevere un suo sorriso e un suo saluto! Ed ecco, una mattina, accorre la superiora: indovinai; volai nel parlatorio; era lui. Dio grande! il mio Paolo! il figliuol mio! il sangue mio! la gloria mia! lui, bello, splendido, buono, che strinse la mia povera testa contro la sua divisa, senza poter parlare, ansando dalla pietà e dalla gioia, e mi baciò in fronte, e mi chiamò: Maman! — come quand'era bambino, e mi carezzò i capelli. Oh, grazie in eterno, Dio pietoso, di quella gioia celeste, delle sante parole che mi faceste dire da mio figlio! Io non ero degna d'un così grande premio! M'avete dato assai più che non avessi mai sognato! Non avevo sognato che un trono! — Essa conservò fino all'età più avanzata tutta la sua intelligenza, — continuò la superiora. — Nelle memorie del monastero non è fatto cenno d'alcuna malattia grave che abbia sofferto prima degli ottant'anni. Pare che essendo già più che ottuagenaria, si recasse ancora da sè al refettorio, e intervenisse alle funzioni religiose, ed anche alle ricreazioni delle monache, com'era stato sempre suo costume. Pareva che non dovesse mai più morire. Soltanto le monache più vecchie si ricordavano di quando era venuta. Le novizie si facevano raccontare la sua vita come una storia di miracoli.... — Per molti anni, — ricominciò la marchesa, — io vissi di quella gioia. Il mio cuore trionfava. Nessuna vendetta più sfolgorante di quella mi era mai passata per il pensiero, nei delirii del mio orgoglio straziato. Carlo Emanuele m'aveva gettata in una carcere infame e condannata al chiostro perpetuo, e mio figlio gli salvava gli Stati con la più grande vittoria del secolo! Quella gloria del mio sangue rialzava il mio nome in faccia al mondo, mi vendicava di mille calunnie, richiamava la pietà del mio paese sul mio destino, apriva, rischiarava l'avvenire a' miei figliuoli, mutava il mondo a' miei occhi. Il mio Paolo! Il mio figliuolo! Egli fu d'allora il mio idolo, il pensiero e il conforto mio di tutti i momenti, il sogno luminoso d'ogni mia notte. Continuamente, senza posa, con un sentimento sempre nuovo di curiosità amorosa e di tenerezza, riandavo la sua vita fin dalla culla, i suoi giochi di bimbo, laggiù nei giardini di Cumiana, la sua allegrezza per il primo cavallo, e poi, con che nobiltà d'animo aveva sostenuto il nostro cambiamento di fortuna, e la prima volta che m'era comparso davanti con la divisa di alfiere delle guardie, sorridendomi con quel suo buon sorriso affettuoso e un po' triste. Tutto il paese era pieno del suo nome, e lo splendore della sua gloria giungeva per mille vie fino alla mia solitudine. Il convento m'era diventato caro, dopo che ci avevo ricevuto la notizia della sua vittoria, dopo che ce l'avevo visto lui trionfante e felice, con le braccia aperte verso sua madre! Fu senza dubbio quella gioia che m'infuse nelle vene come una seconda gioventù, e che mi fece vivere ancora ventidue anni.... Eppure mi pigliava una grande tristezza, qualche volta, di non poterlo vedere, di viver sempre così lontana da lui. Come avrei dato volentieri quasi tutti gli anni che mi restavano a vivere, per stargli un po' di tempo vicina, per abitare almeno nella città dov'egli abitava! Mi sarei contentata di vivere a Torino in una cameretta povera e oscura, di patire il freddo, d'essere sempre malata, pur di vederlo passare qualche volta a cavallo, alla testa del suo reggimento, e di sentire il mormorio d'ammirazione della folla, e delle donne gentili e dei giovanetti dire a bassa voce: È il conte di San Sebastiano, il figliuolo della marchesa di Spigno. — Questi desiderii mi soverchiavano il cuore, qualche volta, e mi mettevan delle malinconie, delle follìe di fanciulla, vecchia com'ero: l'idea di fuggire a Torino, di andarmi a avviticchiare alle sue ginocchia, come una disperata, che nessuna forza mi potesse più strappare da lui.... e piangevo, tutta sola, col viso nelle mani, e desideravo di morire. Ma poi le tristezze passavano. Una sua lettera, un saluto di lui che mi arrivasse, mi ridava coraggio, mi rifaceva serena e contenta. E allora pregavo per lui, di notte, guardando dalla finestra della cella le Alpi ch'egli aveva difese; e poi guardavo verso Superga, dov'era sepolto il mio Amedeo, e pensavo ch'egli l'avrebbe amato, che doveva amarlo dal cielo il mio Paolo, lui, valoroso, che aveva onorato sempre i valorosi; e che per amor del mio figliuolo avrebbe rivolto un pensiero pietoso anche a me, alla sua povera compagna di sventura, alla sua fida amica degli ultimi anni, che pure gli aveva dato qualche dolcezza e qualche conforto sopra la terra.... E così vissi molti anni, lenti, tranquilli, uniformi, allietati dalla speranza d'una fine egualmente tranquilla. Povera speranza! Un nuovo dolore, il più tremendo di quanti n'avessi sofferti in ottantasette anni, mi stava sospeso sul capo! — Nel gennaio del 1766, — continuò la superiora, — fece testamento. Provvide ai suoi figliuoli, legò duemila lire alla sorella Radegonda e alla nipote Teresa Innocente, e lasciò parecchi ricordi al monastero. Aggiunse poi al testamento un codicillo, pochi mesi prima di morire, il quale fu ricevuto da un regio notaio di Pinerolo, Pier Francesco Raimondi, rammentato nelle carte del monastero; in presenza di due medici e di due religiosi, frà Maria Lugo minore conventuale e frà Giusto da Susa Guardiano Cappuccino.... — A poco a poco, — ripigliò la marchesa, con voce tremola, — m'accorsi che s'andava facendo un cangiamento nel mio figliuolo. Le sue lettere diventavano tristi. Lasciò il suo reggimento delle guardie, che amava tanto, e andò colonnello d'un reggimento provinciale; si mise come in un canto, spontaneamente, senza dire il perchè. Qualche voce confusa mi arrivò all'orecchio, però: nimicizie di Corte, una guerra sorda, perchè era il figlio della marchesa di Spigno. Quella notizia mi passò l'anima! Io dovevo dunque essergli fatale, non c'era pietà, il mio nome era una maledizione, mi esecravano ancora laggiù, e non potendo più infierire contro un'ottuagenaria sepolta viva, mi ferivano, m'uccidevano nel mio figliuolo, in quel figliuolo! Questo mi toccava ancora di vedere, prima di chiudere gli occhi! Egli tacque per un pezzo. Poi negò. Non era vero. Non ci dovevo credere. Mi supplicava di non crederci e di vivere serena. Ma io lo conoscevo. Egli era buono come un angelo. Sarebbe morto di angoscia, piuttosto che darmi quella pugnalata al cuore di dire: — Sì! è vero! Io sono odiato e perseguitato, io sono infelice per cagion tua! — Oh io capivo bene ogni cosa dal fondo del mio convento. Conoscevo la Corte. Era troppo duro il dover una grande vittoria e la salvezza del proprio Stato al figliuolo della reclusa di Ceva, di quella marchesa di Spigno che s'era fatta strascinar seminuda dai soldati per le stanze del Castello di Moncalieri, come una ladra di strada. La gloria di quel colonnello delle guardie era un rimprovero amaro, una vendetta del re morto e della vedova moribonda, un castigo, un scherno del destino, che risvegliava dei rimorsi e delle vergogne. Oh! io capii, capii tutto. Non lo perseguitavano, no; lo torturavano lentamente, facendo il silenzio intorno alla sua gloria, mostrando di non vederla e d'ignorarla, dandola ad altri, levandogli l'aria da respirare. Dopo un po' di tempo non si parlava più di lui. Egli vedeva spegnersi a poco a poco la luce del suo nome e rifarsi l'oscurità sul suo capo. Povero Paolo! Era un'anima gentile: l'ingratitudine lo uccideva. Era altiero: non si ribellava; ma sanguinava di dentro. Per non affliggermi, non potendo più dissimulare, non mi scriveva più. Io udivo dire che viveva solitario e malinconico. Poi seppi che la sua salute se n'andava. Caddi in una profonda tristezza. Passò molto tempo. Avevo ottantasette anni, non mi reggevo più che a stento. Un giorno che m'aveva dato notizie migliori di lui, mentre stavo piangendo di consolazione e ringraziando Iddio, suor Radegonda venne a chiamarmi. Titubava. Capii che c'era mio figlio. Mi mancaron le ginocchia; mi sostenne. Corsi quasi fino al parlatorio, appoggiandomi ai muri, trattenendo un grido di gioia.... Lo vidi, e gettai un grido di dolore! Non era più mio figlio! Incanutito, consunto, smorto, con quell'impronta che lascian nel viso i grandi dolori dissimulati; anche la sua voce era mutata, e le sue braccia non avevano quasi più la forza di stringermi! Solo il suo cuore era sempre lo stesso. Io diedi in uno scoppio di pianto. — Oh figliuol mio! Paolo mio! È dunque tutto vero! E per cagion mia! È dunque la tua povera madre che t'uccide! — Ma egli buono e pietoso negò ancora: non stava bene, sarebbe guarito, avrebbe lasciato l'esercito, sarebbe venuto a stare a Pinerolo, per vedermi tutti i giorni. E accomiatandosi, mi stringeva il capo fra le mani e mi premeva la bocca sulla fronte. E io quasi tornavo a sperare; ma nel dirmi addio gli sfuggì un singhiozzo. — Paolo! gridai allora disperatamente, inseguendolo; non ti vedrò più? Mai più? Senti! Fermati! Perdonami! perdonami! perdonami!... — Era già lontano. Non mi ricordo più. Mi portaron nelle mie stanze. Da quel giorno in poi vissi come smemorata. Alla vecchiaia era succeduta in poche ore la decrepitezza. La notizia della morte di mio figlio, avvenuta nel dicembre di quell'anno, cadde nella mia cella come in una tomba. Non piansi più, non mi lagnai più. Il mio cuore era spezzato. La mia vita era finita. — Prima di morire, — continuò la superiora, — sofferse una malattia lunga e dolorosa. Le monache furon chiamate molte volte in furia al suo letto, che parea che morisse. Ma la sua forza di resistenza al male era ancora grande. Soffriva con rassegnazione, parlava della morte con coraggio. Diceva che voleva esser sepolta nel convento in mezzo alle suore, senza pompa, come una di loro. Nei vaneggiamenti chiamava per nome i suoi figliuoli, particolarmente il primo, il conte Paolo di San Sebastiano, e teneva stretto le mani alle monache che l'assistevano, dicendo parole dolcissime.... — La mia vita era finita, — riprese la marchesa con voce stanca. — I tre anni che durai ancora dopo quel giorno, non furono che una morte lenta. Non ho più che una reminiscenza oscura di quel tempo; intorno a me non si movevan più che delle ombre, e le voci che mi parlavano mi parevan di gente molto lontana. Era una mattina di primavera.... Sentii che doveva esser l'ultima. Da molto tempo soffrivo atrocemente, e desideravo di morire. Feci girare il mio piccolo letto verso la finestra per vedere ancora una volta quelle belle montagne, dove il mio povero Paolo aveva combattuto. Le monache mi stavano intorno in ginocchio. Perdonai a tutti, domandai perdono a tutti. Sentii che piangevano. Bianca di San Germano mi baciò. Resi l'anima a Dio. Così finì la marchesa di Spigno. Ecco la mia vita. Un peccato d'orgoglio, pochi giorni d'ebbrezza e quarant'anni d'espiazione, cominciati e finiti con due tremendi dolori.... Scrivete ora, signore, e siate giusto e umano. Fate che chi passa sotto queste mura non dica più, sorridendo: — Qui morì la bella di Vittorio Amedeo, la regina fallita. — Oh non sorrida, per rispetto al mio figliuolo! Fate che si dica d'ora innanzi: Qui morì la madre del vincitore dell'Assietta. Non domando altra indulgenza al mondo, e non la domando per me. Sia benedetto chi l'avrà. Ne esulterà l'anima del mio Paolo. Addio. — Morì la mattina dell'undici di aprile, — mormorò la superiora, terminando; — l'anno 1769, il giorno anniversario della sua nascita, nel quale compiva novant'anni. Il cadavere fu vestito degli abiti monacali ed esposto, secondo l'uso, sopra un catafalco, nel mezzo della nostra chiesa. Poi fu calata nei sotterranei del monastero. Non c'è pietra che indichi dove sia; il nome non è iscritto da alcuna parte. Tale fu l'ultima volontà della morente. Ma la sua memoria è sempre nel nostro pensiero e nel nostro cuore. Sia pace all'anima sua. Seguì un profondo silenzio. La superiora non aveva più nulla a dire. La signorina riprese il suo ritratto e lo fece ripassare dall'altra parte della ruota, dove una mano invisibile lo raccolse. Le due monache fecero un saluto del capo, e sparirono, come due larve. E noi uscimmo in silenzio. In quel breve tempo la marchesa di Spigno s'era interamente trasformata nella mia mente. Fino allora, la prima immagine che mi aveva sempre destato il suo nome, era quella di una signora vezzosa e superba, che passava per la sala d'una reggia, in mezzo a due ali di dame, sfolgorando di gioia. Dopo d'allora non vedo più che una vecchia novantenne, che attraversa, brancolando, i corridoi tristi d'un chiostro, fulminata dal dolore. E perchè la stessa trasformazione, che è l'effetto d'un cambiamento di giudizio storico, s'operi in qualchedun altro, ho scritto queste pagine. Le dedico alla nobile, gloriosa, benedetta memoria del tenente-colonnello delle guardie, conte Paolo Federico di San Sebastiano. LA ROCCA DI CAVOUR La campagna era velata da una nebbia leggiera, in cui erravano dei grandi nuvoli di fumo, sollevati da mucchi accesi di gramigna. Il sole, appena uscito, pareva che avesse una mezza idea di tornare in casa, e andava tentando l'aria con dei raggi pallidi, che ritirava subito indietro, come tentacoli scottati dal freddo. L'aria mordeva in fatti: i pochi viaggiatori seduti nei carrozzoni del tranvai a vapore avevano il becco rosso, e i miei due compagni non finivano più di fregarsi le mani, come se partendo da Pinerolo avessero ricevuto un sacco di buone notizie. Uno era un grosso proprietario, una specie di borghese campagnuolo, appassionato per l'agricoltura, per quella pratica, come diceva lui, non per quella dei professori: una faccia paciona di cinquant'anni, atteggiata a un perpetuo sorriso canzonatorio; l'altro, un ex professore ginnasiale, grande amatore di storia patria, e parlatore compassato e forbito, che s'era offerto gentilmente di farmi da guida storica. Eran gli ultimi giorni d'ottobre, quando la campagna piemontese spiega in tutta la loro bellezza i colori pomposi e tristi dell'autunno. Il treno correva in mezzo a vigneti color di porpora, a macchie di pioppi e di roveri svariati di giallo e di vermiglio, a boschi d'oro, a lunghe file di gelsi color di zolfo e di terra di ocra, macchiate qua e là dalle chiome ancora verdi di qualche albero ostinato a non invecchiare; e di là dagli alberi, fuggivano dalle due parti della via i prati vaporosi e i campi lavorati, nei quali spuntava il grano, come una barbetta rada e fine d'adolescente. La campagna era solitaria; solo qualche villanella bionda, appoggiata al rastrello, alzava gli occhi verso il treno con quell'espressione.... con nessuna espressione. La gente faceva ancora il sonnellino di giunta della mattina, aspettando a svegliarsi del tutto che il sole desse il buon esempio, e i villaggi per cui passavamo, cominciavano appena a schiuder gli occhi e a stirare le braccia. Vedemmo però in un vicolo d'una borgata, passando, una comitiva nuziale di contadini, che aspettavan davanti a una porta: una sposa rossa, con grandi nastri bianchi sulla cuffia, le comari in pompa magna, gli uomini vestiti di nero, tutti immobili impalati, ma con gli occhi accesi dal dolce pensiero della scorpacciata e della sbornia. Siano felici senza moltiplicarsi! A tutte le fermate salivan delle contadine con dei grandi cesti pieni d'ova e di polli; in poco tempo ci fu tanta roba da sfamare una compagnia di soldati alpini. Andavan tutti al mercato di Cavour, che è dei più grossi del circondario; e si capiva dai visi immobili, e dal modo come si fissavano gli uni con gli altri senza guardarsi, ch'eran tutti occupati a sommare, a sottrarre e a dividere i quattrini che speravan di guadagnare: alcuni ragionavan tra sè movendo le labbra, altri facevano il conto con le dita, senza alzar la mano dal ginocchio, per non farsi scorgere. Nessuno discorreva. Si sentiva un odore acuto di cacio pecorino e di tartufi bianchi. Mi pareva di trovarmi in un treno speciale di Francesco Cirio, mandato sotto la mia alta direzione a portar le provviste del banchetto a una festa inaugurativa. * * * Scendemmo all'entrata di Cavour, in pieno mercato d'animali neri, o canarini da ghiande, come si chiamano con gentile metafora in dialetto piemontese. La borgata, che conta circa ottomila abitanti, è tutta fabbricata sul piano, ai piedi della rocca famosa, alla quale deve la sua gloria e le sue sventure. Come tutti i piccini a cui manca l'occasione di paragonarsi, quella rocca ha l'aria di credersi una gran cosa; e in fatti, vista di là sotto, benchè non sia alta più di due volte il campanile di Giotto, e se ne possa fare il giro in mezz'ora, presenta l'apparenza d'una montagna, certe forme larghe e maestose di gigantessa alpina; e pare anche più grande all'occhio per effetto del mantello denso di vegetazione che le avvolge le spalle e i fianchi rocciosi. A primo aspetto, fa colpo, non c'è che dire. Chi capitasse là senza sapere, la crederebbe un monte artificiale, innalzato dal capriccio mostruoso d'un tiranno antico; una specie di colossale osservatorio guerresco, fabbricato per tener d'occhio tutti i feudatarii della pianura, dalle rive del Po alle rive del Sangone. Si capisce come sia stata sempre oggetto di meraviglia, cominciando da Plinio, che scrisse di non aver mai visto _montem a montibus separatum nisi montem Caburri,_ e venendo fino a Carlo Denina, il quale la credette un masso precipitato dalle Alpi, e ad altri che la ritennero uscita tutta sola fuor dalle viscere della terra, quasi all'improvviso, come la testa d'un titano sepolto, curioso di vedere coi suoi occhi come andassero le faccende di Casa Savoia. La sua origine, con tutto questo, non ha nulla di meraviglioso: è l'estrema punta, o come suol dirsi, l'ultimo sperone del contrafforte alpino il quale scende dal monte Granero a dividere la valle del Po da quella del Pellice; sperone il quale si innalza in modo notevole rispetto alla giogaia di cui è termine (il che si vede di frequente), con questo di singolare peraltro: che appare isolato perchè la catena di rocce che lo riunisce al contrafforte delle Alpi è tutta coperta e perfettamente nascosta dai materiali d'alluvione che vi si sono accumulati in tempi antichi. Non è dunque un'avanguardia solitaria, una sentinella perduta dell'immenso esercito alpino; ma la testa d'una colonna non interrotta che fa la sua strada sotto terra. È un peccato. Sarebbe certamente più poetica se fosse ruzzolata giù dal Monviso come il masso della similitudine manzoniana, tanto più che i Cavorresi potrebbero vivere sicuri di non vederla mai riportare in alto da una _virtude amica_. Ma pure senza la origine meravigliosa, questo enorme blocco di gneiss (celebre fra i naturalisti per i bellissimi cristalli di quarzo affumicato che si ritrovarono nelle crepe delle sue rocce) è una fortuna per il paese: è il suo monumento storico e la sua bellezza, gli fa ombra e fresco d'estate, e lo ripara dai venti australi, e serve di rifugio agli innamorati e di belvedere agli artisti, e frutta di tanto in tanto il desinare d'un mineralista o d'un geologo al _Persico reale_ o alla _Posta_. (Domandare il fritto di trote.) * * * La borgata somiglia a tutte le altre borgate del Piemonte: pulita, di colori allegri, nessun monumento, molte osterie. Percorrendo la strada principale riuscimmo nella piazza del mercato. C'era pieno zeppo di gente: delle file di contadine venute da tutti i dintorni, e una doppia processione di uomini e di donne della campagna, pigiati come all'uscita d'una chiesa: per tutto ceste d'ova e di polli, panierone colme di burro, mazzi di capponi alla mano, gabbioni pieni di galline, d'oche, di tacchini, di conigli: una profusione di roba grassa, cicciuta, soda, fresca e sana, ch'era un gusto a vedere. La prima cosa che mi diede nell'occhio furon le polpe colossali di certi preti che passavan tra la folla: delle colonne, Dio li benedica, da disgradarne il Biancone di piazza della Signoria. Poi i cappelli delle contadine, curiosissimi: dei cappelli di paglia gialla, di tesa molto larga, foderati di stoffa di sotto, fasciati di sopra di larghi nastri di seta o di velluto ricascanti fin sulla schiena, coperti d'un velo di tulle nero, frangiati di conterie, ornati di penne, di rose, di mazzi di fiori finti, di catenelle d'ottone, di fermagli della forma di chiavi o di spade: dei veri botteghini da merciaio, con le più bizzarre stonature di colori che si possano immaginare. Molte avevan delle collane dorate a varii giri, dei grossi orecchini da madonna, e dei fazzoletti da collo gialli o scarlatti. C'eran dei bei pezzi di donne e dei bei fusti di ragazze, con dei colori di mela appiola, coi capelli d'un biondo di spiga, serrati sulle forti nuche come nodi di corda; larghe di spalle e di fianchi, tutt'altro che piallate, piantate diritte e salde in terra come pilastri, e così strette le une alle altre, che per passare bisognava strofinarsi alle gonnelle e ai grembiali e si sentivan da tutte le parti delle rotondità resistenti e dei fiati caldi. Era davvero un mercato di contadini piemontesi. Fuor che gli strilli dei merciaiuoli dei baracconi, non si udiva una voce più alta dell'altra: nessun dialogo concitato, nessun gesto impetuoso, nessun viso acceso; una placidità di aspetti straordinaria, le mani quasi immobili, dei sorrisi quieti, un girar lento del capo e degli occhi, un contrattare a parole riposate e sommesse. Mi pareva che tutte quelle donne non fossero mai state agitate da una passione e che dovessero dar l'amore come davan le ova. Eppure.... Ci trattenemmo un poco ad ammirare le bellezze più vistose; ma i nostri sguardi ammirativi, interpretati prosaicamente, non avevano altro effetto che di far alzare le galline verso di noi, in atto d'offerta. Provai però un vero piacere a girare, a sguazzare dentro a quell'abbondanza di tutto, a sentir tutti quei soffi di salute, quell'odor di stoffe da sedici soldi il metro, di capelli lisciati con l'acqua, di latte, di paglia, di piccionaia, di conigliera: mi pareva di purificarmi per un mese di tutti i profumi da parrucchiere, di tutti gli odori acri e misti di cattive salse, di botteghe umide e di teatri sudici, e di libri odiosi e di prove di stampa più odiose, che ero costretto a respirare in città. E non fu così facile levarci di là dentro. Alla uscita della piazza ci trovammo chiusi in mezzo a un gruppo di poderose venditrici di cacio, e ci bisognò fare alle gomitate; poi la cesta di una bella pollaiola mi separò dai compagni; infine non ebbi più che da dividere due maschiotte marmoree che chiudevan la via, e mi ritrovai all'aperto con gli altri, tutto fragrante di latticini e di galliname. * * * Eravamo in un'altra piazza; entrammo un momento nella chiesa maggiore, grande e vuota, dove la voce del prete che diceva la messa era coperta da un cinguettìo sonoro d'uccelli che svolazzavano per le navate; e poi ci avviammo per salire sulla rocca. In quella stessa piazza, dov'è ora una bella fontana di pietra, si crede, da certe iscrizioni antiche state scoperte nel paese, che ci fosse un bagno e una piscina, fatti costrurre in un podere proprio, e poi donati ai suoi concittadini, _municipiis suis,_ da una Seconda Asprilla, sacerdotessa d'un tempio consacrato a Drusilla, sorella di Caio Caligola. — Non solo — mi diceva forbitamente il professore; — ma è tra i cultori di studi archeologici fondata opinione che l'antico bagno traesse alimento dalla sorgente medesima, che fornisce l'acqua alla odierna fontana. — Ma qui fu un vero divertimento, perchè il buon proprietario agricolo professava una tale pietà per tutte quelle _bale_ di erudizione antica, e deplorava così sinceramente che persone di buon senso ci sciupassero il loro tempo invece di consacrarsi all'agricoltura “vero fondamento degli Stati„ che gli pigliava mal di stomaco solamente a sentirne discorrere; e guardava il mio professore con una faccia così provocante, fra la finta maraviglia e la corbellatura, che quello ci s'inverdiva dalla stizza, benchè mostrasse di non badarci. Già, mentre stavamo per entrare in chiesa, a sentir dire che Annibale aveva accampato vicino a Cavour l'ala sinistra del suo esercito (il qual fatto, oltre a potersi dimostrare probabile con certi passi di Tito Livio, veniva provato dai molti denti d'elefante che avevan ritrovati in quelle terre), si era soffermato in mezzo alla piazza, guardando fisso l'amico, come si guarda un matto da legare. Ma quando poi sentì aggiungere quella del regalo del bagno, e d'Asprilla, e di Drusilla, non si potè più contenere. — Non creda, sa, — mi disse; — son tutte cose che combinano fra loro i dottoroni. Già Cavour non è mai stato paese di forestieri. — Il professore fece un sorriso di infinito disprezzo, e ripigliò il suo discorso. La cosa era fuor di dubbio. Cavour era stato una colonia romana, e doveva aver avuto una fortezza e un presidio; negli scavi fatti in vari tempi, s'eran trovati cippi, capitelli con l'effigie di Romolo e di Remo, avanzi di acquedotti, statuette di metallo, lumicini, lacrimatoi, monete, medaglie; fra le quali essendo in maggior numero quelle del tempo di Nerone e degli Antonini, c'era luogo di credere che fosse stato sotto questi imperatori il periodo di maggior floridezza dell'antica Caburrum. In seguito le eran toccate le avventure comuni a quasi tutte le città e alle borgate di quella parte del Piemonte: distrutta dai barbari, ridistrutta dai Saraceni, soggetta al contado di Torino al tempo dei Franchi, castellania sotto i marchesi di Susa; poi posseduta dai Conti di Savoia, conquistata dagli Astigiani, caduta in potere dei principi d'Acaja, ceduta ai signori di Racconigi, tornata daccapo alla Casa di Savoia. E mentre ascoltavo questa litania di trattati, di assedi, d'incendi e di miserie, salivamo su per una viottola petrosa, in mezzo a un bosco di piccoli castagni, di querciuole e di marruche, colorite di tutte le sfumature del giallo, dal cadmio allo zafferano, e ancora verdi qua e là, e come brizzolate da una polvere dorata, che un soffio di vento dovesse portar via. Non c'eran case, non s'incontrava nessuno. Non si sentiva che il verso d'una ghiandaia, su in alto. * * * In mezz'ora arrivammo sulla cima. Sono tre punte, distanti un cento di passi l'una dall'altra: quella di sinistra, chiamata la punta dei cani; quella di destra, del castello; quella di mezzo, del torrione. La prima non è notevole che per un precipizio spaventoso che le s'apre sotto, una specie di Salto di Tiberio, il quale misura tutta l'altezza della rocca, diritta, da quella parte, e terribile, come la muraglia d'una fortezza ciclopéa che minacci gli sbocchi delle valli alpine. Sulla punta di mezzo, non rimane più dell'antico torrione di Bramafame che un pezzo di muro rotondo, alto quanto il parapetto d'un pozzo, con due cannoniere, circondato di rose selvatiche e d'erbacce. La punta che serba maggiori avanzi è quella del castello. Ed è anche la più ardita e selvaggia: un gran masso, una specie di gobbo enorme della rocca, inaccessibile da ogni parte, fuorchè per una scaletta informe, cavata nella roccia viva, e tutta incisa di nomi e di date cubitali; salendo per la quale si riesce con un giro sopra il piccolo spianato dove sorgeva il castello. Qui, per una rete di piccoli sentieri che salgono e scendono tra i pruni, le ortiche e le vitalbe, si gira in un labirinto di rovine, in mezzo a buche di cisterne e di sotterranei, a frammenti di muri forati da feritoie, a traccie malcerte di porte, di scale e di segrete, da cui è quasi impossibile raccapezzare la forma del castello; il quale doveva essere angusto, peraltro, e intricato, e lugubre: uno spauracchio di castellaccio da streghe e da corvi, non meno triste per chi ci stava dentro a difenderlo, che tremendo per chi l'aveva da assalire. Eretto su quella cima, proteggeva mirabilmente la borgata sottoposta, che era tutta chiusa in una cinta rettangolare di muraglie turrite, le quali si prolungavano salendo su per la rocca, fino a congiungersi col castello e col torrione; legati anche questi fra loro da un parapetto, o da altra opera di difesa, intagliata nel sasso, al di sopra dei passi più scoscesi. Tale era la fortezza di Cavour sul finire del secolo decimosesto quando se la disputarono il generale Lesdiguières e Carlo Emanuele I, i due sovrani giostratori di quella guerra avventurosa e memorabile, con la quale il duca di Savoia iniziò la grande politica dell'altalena fra la Spagna e la Francia: ben combinati davvero, e fatti proprio a misurarsi, per temerità di capitani, e per coraggio di soldati, e per prudenza, e per astuzia, e per generosità usata a tempo, e per magniloquenza spiegata sempre. Il castello, si capisce, non poteva esser preso che per blocco. Non riuscì a conquistarlo per assalto il Lesdiguières, neppure dopo essersi impadronito del torrione, e averci fatto tirar su a forza di braccia e d'argani due pezzi d'artiglieria, coi quali fulminava le mura a cento passi, e ogni colpo era uno sdrucio: i quattrocento difensori, comandati dal conte Emanuele di Luserna, non si arresero che per fame. E neanche lo potè pigliare di viva forza Carlo Emanuele, malgrado la gran voglia che ne aveva, e il grosso esercito vittorioso che teneva in pugno: dovette costruire nel piano cinque fortini, e aspettare che al presidio non rimanesse più nè acqua nè pane. E l'una e l'altra volta i difensori uscirono con l'onore delle armi. Poveri cadaveri ambulanti! Doveva essere uno strazio d'inferno l'idea di morir digiuni lassù, pigiati in quella tetra bicocca, frecciati a traverso alle feritoie da quell'aria viva dei monti che mette nel corpo dell'uomo la voracità della fiera, e sentirsi torcere le viscere dalla fame e dalla sete vedendo giù nel piano fumar le cucine dei vivandieri, passare i carri carichi di pane, e correre i rigagnoli argentini in mezzo ai campi! Perchè dovevano veder tutto di lassù, come sulla palma della mano: le corsie degli accampamenti, l'interno dei padiglioni, i giochi e le risse dei bivacchi, e Carlo Emanuele che appuntava i cannoni come un capitano d'artiglieria, e Antonio d'Olivares che discuteva con lui, per distoglierlo, come fece, dal tentare l'assalto, tagliando l'aria tutti e due con dei gesti vigorosi, corrispondenti a de' sonori frasoni spagnuoli, intercalati di _Por Dios_ e di _Por vida mia_ e di _Mal rayo me parta,_ che facevan rattenere il fiato allo Stato maggiore. * * * Nel mezzo dello spianato del castello c'è una piccola cisterna rotonda, quasi tutta piena di sassi e di calcinacci, fra cui son mescolate molte ossa umane. Si dice, e non c'è ragione di non crederlo, che siano ossa di cavorresi trucidati dalle soldatesche del Catinat nel 1690. È piantata là vicino, in memoria di quei morti, una grande croce di legno, che si vede anche dal basso. Quella fu la più miseranda giornata della storia di Cavour, senza dubbio; degno principio di quella orribile guerra della lega, in cui i ministri davan degli ordini da assassini, ed era imposto ai generali l'ufficio di incendiarli, e ai soldati quello di carnefici e di ladroni. La tradizione di quel maledetto macello è ancora vivissima tra il popolo della città e della campagna. Era l'agosto del 1690. Scoppiata appena la guerra, il generale Catinat mosse l'esercito da Pinerolo verso Cavour. Se il bravo marchese di Parella, che stava con quattromila soldati, fra i quali molti valdesi, nelle vicinanze di Luserna, fosse stato avvisato poche ore prima di quella mossa, avrebbe fatto ancora in tempo a sopraggiungere; e allora si sarebbe visto un bel ballo. Sventuratamente, ricevette la notizia troppo tardi. La città era aperta, il castello diroccato da molti anni; il presidio non si componeva che d'una compagnia del reggimento di Monferrato e di pochi drappelli di milizie valdesi. Un'avanguardia comandata dal marchese di Plessis Belloire venne accolta a fucilate da alcuni contadini, che furon subito respinti nell'abitato. Il Catinat mandò a intimare la resa. Il presidio rifiutò. Una colonna francese si slanciò all'assalto con quattro pezzi d'artiglieria. La difesa fu valorosa, ma inutile. Le trincee furono superate, tutto l'esercito irruppe. E allora i soldati, irritati dalle lunghe marcie, infiammati dal sole, e inaspriti dalla resistenza inattesa, saccheggiarono, incendiarono, uccisero ufficiali e soldati, donne, vecchi, contadini, bambini, per le strade, nelle case, nelle chiese, nelle cantine, a calciate di fucili e a colpi di partigiana e di baionetta, sordi a ogni preghiera e ad ogni pianto, senza discernimento, senza tregua, senza misericordia. Una parte degli abitanti e del presidio s'era rifugiata in cima alla rocca: gl'invasori vi s'arrampicarono come un branco di tigri affamate, e trafissero e sgozzarono quanti c'erano. Solo ottanta persone, fra le quali il governatore, alcuni ufficiali, e il resto donne e ragazzi, riuscirono a salvar la vita rifugiandosi in una casa di Cavour, nella quale era entrato il Catinat a prendere un rinfresco da uno speziale, di cui s'è serbato il nome: Marentino. La città presentò per varii giorni uno spettacolo da agghiacciare le vene e da far rizzare i capelli: le piazze ingombre degli avanzi del sacco, quasi tutte le case bruciate, mucchi di cadaveri a ogni passo, rigagnoli di sangue giù per le scale e per le strade, i muri chiazzati di sangue, i cortili allagati di sangue, e in quella orribile solitudine grida di moribondi e risate di pazzi. Nelle memorie del Catinat si danno più di seicento persone morte, tra uomini, donne e bambini; il marchese di Quincy parla di ottocento soldati e di trecento cittadini macellati; un priore, testimonio e narratore del fatto, afferma che di cinquemila abitanti, quattromila furono uccisi. E questo si fece nel secolo di Luigi XIV, sotto Luigi XIV, da soldati del tempo del Pascal, del Descartes e del Corneille, nel paese dov'era passato da mezzo secolo il Galileo. Eppure tutto è dimenticato e ignorato.... a quattro miglia di distanza da Cavour. Solo le contadine dei dintorni salgono una volta all'anno, il giorno dei morti, a fare il giro della cisterna, in lunga fila, recitando il rosario per le “anime della rocca.„ E sarebbe un ufficio pietoso e onorevole, se ci andassero soltanto per i morti. Ma ci vanno anche per raccomandare “alle anime„ il seme dei bachi da seta. * * * Mentre parlavamo di quella orrenda giornata, vedevamo sotto la piccola città fresca e allegra, una distesa di tetti d'un bel grigio chiaro, con qualche macchia rossa e verde di muri di case coperti da un tendone di pannocchie di gran turco o da una cortina di pampini. Vedevamo la piazza del mercato e la strada maestra nere di gente, e ci arrivavano all'orecchio, con una sonorità straordinaria, al di sopra del mormorìo sordo e continuo della folla, grida stentoree di venditori, muggiti di bovi, canti di galline, rumori di carri, i rintocchi argentini d'una campana accompagnati dai colpi d'un martello sopra un'incudine, dei grugniti e dei latrati lontani, una voce acutissima che urlava: Le mutande a una lira! a una lira! a una lira! — e un vocione di basso che gridava: L'America! — ossia la cuccagna, la roba per niente; e di tratto in tratto, a intervalli uguali, un altissimo e lunghissimo raglio di somaro. Fuori della folla, la pace solita dei piccoli paesi: delle stradicciuole solitarie con dei bimbi che giocavan lungo i rigagnoli, un crocchio di signori davanti a una farmacia, dei terrazzini interni di case dove delle donne stendevan la biancheria ad asciugare, un prete in maniche di camicia dentro a un orto; si vedeva ogni cosa da un capo all'altro dell'abitato, e intorno intorno, il collegio, la piazza d'armi, il camposanto, il passeggio: tutto quello che basta da per tutto a qualche migliaio di persone per ripararsi dal freddo, fare gli affari propri, odiarsi e morire. Poveri accampamenti umani, poveri mucchi di baracche! Che misera cosa son mai, visti dall'alto, con quel piccolo campo chiuso da quattro muri, dove tutto va a finire! * * * Alzati gli occhi dalle case, si vede tutto il cerchio delle alpi dal Monte Viso al Monte Rosa, e tutta la pianura piemontese, così vasta ed aperta, che quando è un po' velata di nebbia, come quella mattina, vien fatto di cercarvi all'orizzonte le vele dei bastimenti e gli spennacchi di fumo dei piroscafi; e par di trovarsi sulla cima d'un'isola rocciosa, dentro a una grande baia, che si stenda da Saluzzo a Cumiana, dai colli dove Silvio Pellico scrisse i suoi più dolci versi, ai campi dove Vittorio Alfieri domò i suoi più focosi cavalli. Ma a me piaceva di più guardar lì sotto quella bella campagna, così uniforme e così varia insieme, tagliata in quadrati verdi e lisci, come panni tesi di scrivanie, in trapezi di terreno lavorato, d'un colore delicatissimo di caffè e latte, rigati di file grigie di salici; in losanghe d'un rosso chiaro, spallierate di siepi nere, contornati di filari d'alberelle d'un giallo cromo; in triangoli bianchi di calce, terminati a un vertice dal vermiglio acceso della vite d'un capanno. E al veder tutta quella terra così accuratamente misurata, spartita e difesa, pensavo di quante riflessioni e di quanti conti era argomento ciascuna di quelle piccole figure geometriche, quanta carta bollata avevano fatto imbrattare, quante chiacchiere di avvocati e di procuratori avevan provocato quelle redole e quei rigagnoli, e quanti viaggi tristi alla città, e aspettazioni eterne nelle anticamere dei tribunali, e inimicizie di famiglia, e giuramenti di vendetta, e crepacuori, e partenze disperate per paesi lontani. E allora mi parve che tutti quei poligoni coloriti, così tranquilli e sorridenti poco avanti, si premessero coi lati, e cercassero di ferirsi con gli angoli acuti, e di spaccarsi a vicenda, e di sovrapporsi gli uni agli altri, e di travolgersi, come grandi zattere variopinte di due flotte nemiche e confuse. E pensai ch'era così infatti, e che la battaglia durava da secoli, e che sarebbe forse finita un giorno con qualche gran sottosopra, in mezzo agli urli d'innumerevoli naufraghi; per ricominciar poi più accanita e durare più lungo tempo, appena si fossero riformati gli equipaggi e riparate le flotte. * * * Il buon agronomo, intanto, seduto in disparte sopra un rudero, con le braccia incrociate, e gli occhi rivolti alla campagna, pareva immerso in una profonda meditazione; e il professore ne approfittava per svolgermi intorno una specie di panorama storico della pianura di Pinerolo. Io non dovevo mica lasciarmi ingannare da tutti quei villaggi che si vedevan di là, e che presentavano un aspetto così gaio, in mezzo al loro bel verde. Avevan l'aria di buoni proprietari di campagna e di pastori tranquilli; ma eran tutti vecchi soldati travestiti, coperti di cicatrici e pieni di ricordi terribili. Quel grosso paese che si vedeva là a poche miglia, con quel chiesone rosso, che gli dava un'apparenza di beata pace, Vigone, aveva visto scacciare l'esercito di Carlo Emanuele I dagli ugonotti multicolori del generale Lesdiguières, e subìto uno dei più orrendi saccheggi del secolo decimosesto. Ma chi poteva contare i sacchi e le fiammate di quell'anima persa del Lesdiguières? Era stato l'Attila della pianura pinerolese, quel cane di vecchio arciere e di ex leguleio. Non c'era uno di quei poveri paeselli che non fosse stato bollato a fuoco da lui. Così, rabbioso di non aver potuto strappar Carlo Emanuele da Cavour, aveva messo a ruba e a sangue Buriasco, un bel villaggio che io vedevo a destra di Pinerolo, come una piccola macchia rossiccia. È vero che ci son pure molti tristi ricordi di famiglia da quelle parti. Di qua da Buriasco, c'è Macello, dove passava il confine tra Francia e Piemonte, quando Pinerolo era dei francesi: lì, per esempio, intorno al castello antico, si ammazzarono fraternamente i soldati di Giacomo d'Acaja e i soldati di Barnabò Visconti. Più in qua di Macello, c'è Garzigliana, dove rimane un torrione del castello di Montebruno, vicino al quale toccò una sconfitta dagli Astigiani quel disgraziato Tommaso II di Savoia, che fu liberato di prigione dai suoi nemici per esser cacciato in carcere dai propri sudditi. A poche miglia di là, sulla destra di Vigone, si vedono i tetti di Pancalieri, un grosso borgo, che Carlo II di Savoia abbandonò al furore delle sue milizie, per punire Claudio di Racconigi, signor del luogo, dopo aver fatto impiccare tutti i soldati del marchese di Saluzzo, che l'avevano aiutato a invadere il Piemonte. Accanto a Pancalieri, Polonghera, presa d'assalto e malmenata da Ludovico d'Acaja, per dare un ricordo salutare al feudatario Riccardo Provana, che aveva amoreggiato col marchese di Saluzzo e coi Visconti. Abbiamo fatto un bel lavoro anche noi altri in casa nostra, come si vede. Lì appunto, vicinissimo alla rocca di Cavour, biancheggiano le case di Villafranca, una delle ventisette Villafranche dei due emisferi, che può dire d'averne visto una grigia nei tempi andati: il comandante della cavalleria di Leone X, Prospero Colonna, il quale, dopo essersi vantato d'acchiappare _come uccelli in gabbia_ quanti francesi fossero calati dalle Alpi, si lasciò sorprendere dagli uccelli, mentre era a tavola in cimberli, e far prigioniero con tutti i suoi cacciatori. E pare che ci sia stato un influsso maligno del bicchiere in questo tratto di paese. Laggiù sulla via di Pinerolo si vede il campanile di Osasco: c'era di presidio nel 1705 una compagnia del reggimento di Monferrato, comandata da un capitano; avevan molto buon vino dei luoghi; presero una necca madornale; una necca così fatta che, essendo sopraggiunti i francesi, e avendo intimato la resa con minaccia di ferro e fuoco, nessuno si trovò in grado nè di resistere nè di negoziare, e ne sarebbe seguìto l'incendio e la strage, se non trattava coi nemici una governante savoiarda dei conti di Cacherano, alla quale il paese dovè la sua salvezza, e il presidio una capitolazione onorata. Insomma, non c'è che miserie da ricordare da tutta quella parte. Per confortarsi un poco, bisogna girare a sinistra di Pinerolo: a Bricherasio, dove c'è l'assedio vittorioso di Carlo Emanuele I; a Bibiana, sulla cima del colle di San Bernardo, dove Vittorio Amedeo fece il voto della basilica di Superga, coronato un mese dopo con la splendida vittoria di Torino; a Luserna, dove il marchese di Parella investì, ruppe, fugò, sterminò i tremila soldati del Feuquières, nella guerra del 1690. Ma.... ohimè! da Luserna in avanti, ricominciano le dolenti note. Bagnolo, preso, ripreso e rovinato da francesi, da savoiardi e da spagnuoli. Barge, dove il Denina insegnò la grammatichetta, tartassato pure a venti riprese da imperiali e da francesi nelle guerre del decimosesto secolo. E poi peggio, Revello, e poi anche peggio, Staffarda, e Moretta, dove si raccolse tumultuosamente l'esercito di Vittorio Amedeo, dopo quella tremenda disfatta, protetto ancora nella fuga dal coraggio tranquillo del principe Eugenio. Ma non c'è dunque altre memorie che di batoste e d'ingiurie straniere in questo disgraziato paese? Che roba è questa, signor professore?... Un momento. Eravamo rimasti a Moretta. A Moretta passa la Varaita. Non c'è legato qualche buon ricordo a questa Varaita?... Ma sì, corpo d'un cannone da costa. Una grande giornata, una sfolgorante vittoria, l'esercito di Luigi XIII, accorso in aiuto del duca di Nevers, assalito, sfondato, sbaragliato, ricacciato come una mandra atterrita al di là delle Alpi da Carlo Emanuele I, nell'anno di grazia milleseicento e vent'otto. Dalla parte di Dio! Ecco quasi accomodate le partite. Ero lì lì per buttarmi via, in parola d'onore. — Che gliene pare? — mi disse forbendo le frasi il professore. — È davvero una specola istorica la rocca di Cavour. Io ci vengo una volta ogni anno, tutto solo, e mi assido su questi rottami a rimirar la pianura, e a riandar meco stesso le mie letture predilette; e facendo con la fantasia armeggiare gli eserciti e tuonare le bastite, rivivo, per dir così, nel passato, _e in me stesso m'esalto_.... come dice il divino Alighieri. — * * * — Ebbene, cosa ne dice? — mi domandò il faccione dell'agronomo, avvicinandosi. — Son buoni terreni, glielo assicuro io. Terreni da frumento e da foraggi, da duemila a quattromila franchi l'ettaro. L'inconveniente è che mancano i buoni concimi. Cosa vuole? Fabbriche d'artificiali non ce n'è, lo stallatico non lo sanno conservare, e così bisogna farlo venir quasi tutto di lontano, che costa un occhio, per via dei trasporti. A Pancalieri, per dirle un caso, si fanno venire il guano da Carmagnola. Guardi là.... Campiglione e Fenile. Terre da vigna. Ci abbiamo delle uve eccellenti da queste parti: nebiolo, avarengo, del negretto anche, del fresia. Se si dessero un po' dattorno a perfezionare i metodi, che non la vogliono intendere, potrebbero fare dei vini numero uno.... E stiamo bene anche a bestiami, sa lei. Dia un'occhiata ai nostri mercati: ottime condizioni fisiche, il bue da ingrasso da venti a venticinque marenghi, grande esportazione di buoi da lavoro. E poi burri, ricotte, formaggi, da leccarsi le mani, quantunque fabbricati all'anticaccia.... siamo sempre lì. _Tome_ da cinque franchi il _miria_, la _bontà personificata_.... Quello che dobbiamo confessare, piuttosto, che è una vergogna, è che si sta male, ma molto male in quanto a stalle. Per questo, non s'è all'_altezza dei tempi_, no proprio. Degli orrori. Basta; è meglio non discorrerne.... Dove guarda? Laggiù c'è Osasio. Da quelle parti si coltiva la canapa. Ci abbiamo una bella varietà di coltivazione, nel circondario. Per esempio, dalle parti di Virle e di Castagnole si coltiva il _ravizzone_ e il pistacchio da terra; in altri luoghi la barbabietola; e anche un po' di riso, lungo il Po. Ciascuna parte ha la sua specialità. Vada a Luserna, alla Maddalena: ci trova l'estrazione di fecola di patate. Vada invece a Bibbiana: c'è l'estrazione dell'alcool dalle rasche. Poi c'è un po' da per tutto l'olio di noce, coi torchi, che è un'industria che ha la sua importanza. Senza parlare della pesca, chè tutti lo sanno: bardi e anguille nel Chisone; tinche nel Pellice, e anche dei ghiozzi; dei lucci, dei carponi _magnifici_ nelle diramazioni del Po; e da ogni parte trote e trote, non molte grosse, ma.... lei ne avrà mangiato. Ci son cinquecento pescatori soltanto a Villafranca! E poi, e i boschi, e i castagneti? Ce n'è la bagatella di settecento ettari solamente a Virle, Pancalieri e Lombriasco.... Curioso nome, non è vero? Lombriasco, Piossasco, Frossasco, Osasco, Subiasco.... Buriasco.... Cervignasco.... Famolasco.... Cercenasco.... Ci abbiamo anche dei buoni minerali, di rame, d'antimonio, che so io? dei marmi, da fare una discreta figura a una esposizione. Non c'è che dire, insomma; è uno dei meglio circondari del Piemonte. Soltanto, ecco il gran guaio: manca l'istruzione agraria, mancano i capitali, che vanno tutti in quelle maledette carte dello Stato;... mancano delle buone stazioni di monta. E poi, il peggio di tutto, l'imposta spropositata, che mangia le piccole proprietà, e obbliga il contadino a emigrare. Eh sì, c'è molto, ma molto da fare ancora. Bisognerebbe mettercisi proprio tutti con le mani e coi piedi. Bisognerebbe distribuir meglio le acque d'irrigazione, prima di tutto, chè c'è chi n'ha da sprecare e chi non n'ha abbastanza; regolare un poco la pesca, chè tutti fanno alto e basso; provvedere alla sicurezza campestre, che va come Dio vuole; migliorare le case coloniche, applicare le nuove macchine, rimboschire.... e sopra tutto, prima di tutto, come le dico, diminuire l'imposta, che è una disperazione. Quando tutto questo sia fatto, il circondario di Pinerolo sarà un paradiso. Vede laggiù Osasco? C'è un magnifico stabilimento di pollicoltura: un gallo e due galline di Concincina, quarantadue franchi, compreso l'imballaggio, e cinquanta centesimi l'uovo. Su queste cose dovrebbe scrivere. * * * Poco lontano dallo spianato del castello c'è una cascina solitaria, con poca terra coltivata, che appartiene alla famiglia Benso. Il borgo venne dato in feudo da Carlo Emanuele III, col titolo di marchesato, ai Benso di Chieri, signori di Santena, i quali presero d'allora in poi il soprannome di Cavour. Quella cascina fu proprietà del conte Camillo, che ci fece fare intorno degli scavi, da quanto dicono, per cercare degli oggetti antichi; e fu trovato appunto in quegli scavi, forse, la grossa palla da cannone, del peso di venti chilogrammi, che i ragazzi della cascina fanno correre per l'aia: un coriandolo di Carlo Emanuele I, probabilmente. Certo il grande ministro dev'esser salito parecchie volte lassù, quand'era anche molto lontano dal prevedere che avrebbe fatto discendere un giorno da quelle montagne duecentomila soldati francesi, e sconvolta l'Italia, e agitato l'Europa. E forse meditò sopra quella cima, con lo sguardo errante per la pianura, qualcuna di quelle grandi imprese agricole, che occupavano allora tutto l'animo suo. La casetta è fabbricata sopra un masso di roccia, che sporge innanzi a modo di tettoia sopra un piccolo tratto di terreno verde, leggermente inclinato verso il piano, e sparso di garofani di campagna e di fiori di cicoria; sul quale vengono a far merenda delle brigate allegre dei paesi vicini. Quando vi scendemmo noi, non c'era nessuno. Si vedevano ancora sull'erba le traccie d'una ribotta, e un pezzetto di giornale. Mi chinai a guardare: era un terzo di colonna del _Figaro,_ con un frammento di resoconto d'una nuova rappresentazione dell'_Ambigu;_ un vero areolite, un frammento d'un altro mondo, che mi fece uno strano senso in quella solitudine, tra quelle ossa di morti e quelle memorie tragiche, attraversate così, improvvisamente, dall'immagine degli splendori e dei piaceri dei _boulevards_. Intorno allo spianato precipita da ogni parte la roccia. Fino lassù, forse, fino all'orlo roccioso di quella terrazza verde, s'erano spinti nella notte del venti di novembre i più agili soldati del Lesdiguières, mandati ad assalire il castello di sorpresa; e saranno caduti là, spossati, col viso dentro quell'erba, trattenendo il respiro, e schiacciandosi contro terra, ad aspettare quei che seguivano. E questi si arrampicavano nelle tenebre, rimpiattandosi dentro alle crepe, strascicandosi fra i cespugli spinosi, incoraggiandosi a voce bassa: dei furiosi che bestemmiavano, dei timidi che raccomandavan l'anima a Dio, dei giovani audaci e tristi, che salivano col presentimento della morte, pensando confusamente alla loro casa lontana; una lunghissima fila flessibile, come un mostruoso rettile nero, strisciante sotto la minaccia d'un tallone gigantesco; e andava su, il mostro, lento e orribile, ansando per cento bocche, e aggrappandosi alle rupi con cento artigli, e sbarrando tutti i suoi occhi verso la cima; sulla quale un altro mostro, nero e immobile, gravido di ferro e di fuoco, lo aspettava in silenzio, per folgorarlo nel buon momento, e seminar la rocca delle sue ossa rotte e delle sue viscere lacerate.... Ma non c'è dunque un palmo di terra dove non non s'abbia da dire, ripensando al passato: — Qui si scannò, si trucidò, si bruciò, si fece l'inferno! — In verità, dopo quattro mesi di passeggiate storiche, a furia di sentir ripetere da tutte le parti quello eterno ritornello del sangue, si finisce col non veder più che rosso, e non si prova più orrore, nè pietà; ma nausea e rabbia e odio; e si vorrebbe aver una voce miracolosa da farsi sentire a tutti gli esseri umani presenti e passati, per urlare: — Stupidi! Imbecilli! Bestie! Siete tanto bestie che avete fatto bene, che fate bene, che farete sempre bene ad ammazzarvi come le bestie! — Ma si avrebbe torto. A che cosa serve? Un'ora dopo saremmo tutti disposti a piantare la sciabola nel ventre a chi ci desse un urtone passando. Io dissi bene quelle parole in cima alla rocca di Cavour, ma il piccolo omicida che porto dentro anch'io come gli altri, mi rispose con una scrollata di spalle. * * * Intanto il cielo s'era coperto, la nebbia montava; si discese. La strada era deserta come alla salita. Non trovammo che una persona, circa a mezza china, e me ne ricorderò per un pezzo. Era una vecchia contadina, alta di statura, magrissima, e curva; un viso austero, di quelle vecchie straordinarie, quasi spaurevoli, che disegnò il Doré nella Spagna. Veniva su a stento, soffermandosi ogni tanto a riprendere fiato, e pareva che soffrisse. Che diamine andava a far lassù, tutta sola? Quando fu a tre passi da noi, glielo domandammo. Si fermò, e ci guardò fisso l'un dopo l'altro con due occhi grigi chiarissimi. Poi disse in tuono severo, lentamente: — Vado a pregare; — e ci ripiantò gli occhi in viso, come sospettando una canzonatura. Era venuta da Bibbiana, malata com'era, strascinandosi a gran pena, e faceva quella salita, con quella nebbia, per andare a pregare ai piedi della croce del castello; non era venuta a Cavour con altro fine. — Ma perchè salir fin lassù, — le domandò il professore, — mentre potreste pregare in chiesa? — Parve che quell'osservazione la ferisse. Si rizzò sulla vita, alzando la testa bianca, e levando la mano per aria, e disse con una voce solenne, che ci fece stupore: — Dio è dappertutto! Dio è in chiesa, Dio è sulla rocca, Dio ci vede sempre, Dio ci vede tutti. Bisogna pregare per la salute dell'anima. Pregare per noi, pregare per gli altri, per i vivi e per i morti, per tutti quanti. Non si perde mai niente a pregare. Possiamo morire oggi, possiamo morir domani, io, loro, tutti, da un momento all'altro, possiamo morire. Preghino anche loro. Nessuno sa quel che l'aspetta. Dio è in chiesa e sulla rocca! Dio è da per tutto e ci vede tutti! — E rimase ancora un momento col braccio in alto, in atteggiamento ispirato, guardandoci con due occhi grandi e vitrei di moribonda, con una espressione tra minacciosa e compassionevole, ma così fissa, intensa e strana, che restammo tutti e tre senza trovar parola, guardandoci. Poi riabbassò la testa, e ripreso il cammino lentamente, si perdette nella nebbia che s'addensava sul castagneto. * * * La vecchia non aveva ancora toccata la punta del castello, che i miei due amici si scalmanavano in una grande discussione, seduti con me a una tavola della _Posta_, in una di quelle stanze tipiche degli alberghi di borgata, che il padrone suole accordare graziosamente alle “buone pratiche„ perchè pranzino tranquillamente lontano dal chiasso dei beoni e dalle tanfate di rifritto: un letto matrimoniale da una parte, due salici piangenti di carta sopra il cammino, Vittorio Emanuele e Garibaldi sulle pareti, e la bandiera nazionale ravvoltolata in un angolo, che aspetta la festa dello Statuto. L'argomento della discussione era gravissimo. Il professore sosteneva la primazia del vino di Campiglione e l'agronomo, che aveva dei terreni a Bricherasio, negava, voleva che si riconoscesse la superiorità del vino di Bricherasio. La questione era trattata da una parte e dall'altra con una serietà, con un calore, con uno sfoggio di argomenti e di termini tecnici, che non se ne può fare neanche un'idea chi non è nato nel paese del Grignolino e del Barolo. Chi avesse visto le faccie e i gesti senza intender le parole, avrebbe creduto che discutessero uno dei più alti problemi di filosofia. Tutti e due, ragionando, movevano davanti a sè la mano destra, con le punte del pollice e dell'indice riunite, e l'altre dita distese, a modo dei predicatori; e alzavano di tratto in tratto gli occhi al cielo, allargando le braccia, in atto di dire: — Santissimo Iddio, perdonategli questa bestemmia! — Infine, — disse l'agronomo, — il nostro amico giudicherà; — e chiamò l'albergatore, vinaio illustre e consigliere comunale, per domandargli se era in grado di fornirci gli elementi del giudizio. L'albergatore sorrise in atto di compatimento: ci aveva dell'uno e dell'altro, di cinque o sei anni, dinnonplussutra, come dicon le ciane fiorentine. Eran domande da fare a un par suo? Tutto il circondario conosceva la sua cantina. Ci servì subito. Fui eletto arbitro. Mi misero una bottiglia di Bricherasio a destra e una di Campiglione a sinistra, e mi fecero un cenno tutti e due, che significava: “Giusto giudicio dal tuo labbro caggia.„ Quella solennità mi fece ridere. Ma l'agronomo non scherzava; si ebbe anzi quasi a male del mio ridere. — No, scusi, — mi disse, col viso serio, — la quistione è abbastanza importante perchè... lei scrive, e se dà un giudizio... non ponderato, mi perdoni, potrebbe anche far del danno all'esportazione. Mi faccia il favore di provare, rifletta, e poi dia un giudizio spassionato. — Allora mi feci serio anch'io, e cominciai a bere alternatamente un bicchiere di qui e un bicchiere di là, sotto gli sguardi fissi e interrogativi dei due commensali. Ma come fare a dar un giudizio? Ero incerto davvero. Dentro di me davo sempre la palma all'ultimo. Mi trovavo come un giudice fra due litiganti egualmente arguti e facondi, che prova un gusto matto a sentirli, e li fa ripigliar daccapo cento volte, fingendo di non aver capito. Eran due vini superbi, qualche cosa che abbracciava lo stomaco, e andava giù, come dice il portinaio dell'_Assommoir_, fino alle caviglie, accomodando per via tutti gli affari dell'anima e del corpo. Finalmente, a un certo punto, decisi... di decidere. Ma era troppo tardi. Gli elementi del giudizio s'eran già confusi. I due litiganti dicevano le loro ragioni dentro parlando tutti e due insieme, in maniera che non raccapezzavo più nulla. — Ma insomma, — domandò l'agronomo, incrociando le braccia sulla tavola; — che cosa scriverà? — E non ci sarebbe stato più scampo, se, per fortuna, i miei due commensali non avessero fatto anch'essi una serie interminabile d'assaggi, con lo scopo di confermarsi sempre più nel loro parere; per il che non mi fu difficile di stornare garbatamente il discorso. E lo stornai così bene che cominciò a saltare di qua e di là a rompicollo, dalle ultime elezioni comunali alla maschera di ferro, e dall'attore Toselli a un nuovo sistema di cavatappi, fin che andò a cadere e a rialzarsi in una appassionata discussione intorno ad un uomo celebre, il cui nome si ricorda a ogni passo per quella pianura e su quei monti, perchè vi raccolse la gloria e vi fu maledetto, e vi lasciò di sè un concetto sempre disputato e ancora incerto: il maresciallo Catinat. * * * — Un tristo condottiero, come gli altri! — gridava il professore, infocandosi. Egli non capiva come avesse potuto acquistare “una nominanza„ d'uomo generoso e mite, un generale che aveva permesso l'eccidio di Cavour, che aveva lasciato perpetrar le stragi di Val San Martino, dove teneva al suo seguito un giustiziere e due birri, che aveva fatto ammazzare le donne valdesi “per aver molestato i soldati coi sassi„ e che abusava della corda in maniera, da far dire persino ai francesi che “impiccava troppo.„ _Il pend trop!_ E tutti a gonfiare il buon Catinat, il generoso Catinat, “grande, buono, semplice e sublime,„ come diceva il suo bugiardo elogio funebre; “il saggio, il filosofo,„ _les talents du guerrier et les vertus du sage_, anche il Voltaire, col suo impudente distico dell'_Henriade_. E il bello era che aveva finito con crederlo anche lui, tanto da sperare che — l'umanità con cui aveva trattato i valdesi gli avrebbe procacciato l'amor degli uomini — e da dire che n'era più altero che delle vittorie della Marsaglia e della Staffarda! Ci voleva della disinvoltura! _Sciagurato!_ — Come se le più infauste pagine delle istorie subalpine non recassero vergato in fronte il suo più infausto nome! Sentiamo, che cosa avrebbe ella da allegare in contrario? — E ingollava una bicchierata di Campiglione per premiarsi della sua eloquenza. Veramente, io avevo una gran voglia, anzi un gran bisogno di ribattere le sue ragioni con lo stesso impeto e con altrettanta voce; ma risposi invece con molta mansuetudine, considerando che il sentimento patriottico, quando è rinvigorito da un buon vino, anzi da due buoni vini, va particolarmente rispettato. No, non la pensavo come lui, nient'affatto. Mi pareva che si potesse dire come il Carutti: — Il bravo e buon Catinat. — Bisognava giudicarlo in relazione col suo tempo, come tutti gli uomini. Le stragi che si commisero in nome suo, sarebbe ingiustizia addebitarle a lui. Tutte le volte che gli fu possibile, le impedì, come nelle Provincie di Juliers e di Limburgo, malgrado gli ordini espressi del Luvois; più volte, anzi, s'attirò addosso le collere dell'implacabile ministro, per aver risparmiato la vita, come fece a Susa, ai presidii vinti delle fortezze. Ma non _poteva_ impedire. Ecco il punto. Quando scese in Italia la prima volta, meno che mai. Gli eserciti lo amavano, perchè era affabile coi soldati, perchè soccorreva e consolava i malati e i feriti, perchè si privava del necessario per loro, perchè era buono e giusto, in fin dei conti. Ma nel furore degli assalti e delle vittorie, non gli obbedivano più, gli sfuggivano affatto di mano, e nè lui nè altri avrebbe avuto la forza e i mezzi di tenerli in freno. Soldati usciti dalla peggior canaglia delle città grandi, imbarbariti dalle guerre selvaggie d'oltralpi, indisciplinati per consuetudine, in specie quelli che condusse in Piemonte, consapevoli degli ordini del Louvois che voleva una guerra sterminatrice, corrotti, eccitati alla indisciplina dagl'intrighi di Corte di cui erano testimoni nello stesso campo del loro generale, — intrighi orditi a danno di lui e per maggior disgrazia del paese che invadevano, — come gli avrebbero obbedito, quando irrompevano vincitori in una città o in un villaggio nemico, dopo un combattimento feroce? E chi teneva in freno gli eserciti di quel secolo, gli imperiali a Mantova nel 1630, le truppe del duca di Lorena in Francia durante la minorità di Luigi XIV, i soldati del Wallenstein nei loro medesimi paesi? Ciò non di meno, egli dava spesso degli esempi terribili; faceva impiccare i _maraudeurs,_ era “senza pietà coi soldati senza pietà„; andava molte volte, travestito, a interrogare i contadini, anche in paese nemico, per sapere se avessero patito sevizie; e rendeva delle giustizie solenni. Ma quello che valeva a tenere i soldati in soggezione nei campi, non valeva più una volta ch'erano sguinzagliati al sangue e alla morte, e che non c'era più un solo uffiziale che potesse tener nel pugno un solo soldato. No, tutta la sua vita lo difendeva dall'accusa di barbarie: la modestia mostrata in tutte le occasioni, l'affetto che ebbero per lui il Fénélon, il Vauban, il La Rochefoucauld, gli uomini più illuminati e più gentili del suo tempo; la solitudine austera in cui visse gli ultimi anni, nella sua terra di Saint-Gratien, riverito e amato dai suoi contadini; la sua coltura, il suo amore per la famiglia, il suo disinteresse, la semplicità della sua vita, tutte le sentenze e i motti che rimangon di lui, segnati dell'impronta di un'intelligenza alta e serena.... No, non era un barbaro. Sarebbe una vera ingiustizia il mettergli il marchio del sangue sopra la fronte. Scoraggiato, indignato, qualche volta egli può non aver neppure tentato d'impedire gli eccessi del suo esercito, per non uscire esautorato da un tentativo di repressione impotente; ma egli ne sentì sempre orrore in cuor suo, e li deplorò sempre con amarezza, o non si ha più diritto di giudicare la natura umana. Non aveva scritto a Parigi, dopo la battaglia di Staffarda: “Bisogna pure aver compassione di questi disgraziatissimi popoli: che cosa s'ha da fare?„ E tutti sanno quello che gli risposero: “Bruciare, bruciare, bruciare.„ No, che cosa volete! Mi è simpatico. Anche la sua figura, quel parruccone arricciolato che gli casca fin sulla corazza, quella fronte spaziosa, quegli occhi grandi e buoni, quella bocca filosofica, quell'aria in cui si riconosce qualche cosa dell'ingenuità dell'antico avvocato che abbandona l'avvocatura per aver perduto una causa che riteneva giusta, mi piace. Ci siamo battuti con lui per vent'anni, ce n'ha date, se n'è prese, è stato vittima dell'ingiustizia nella vecchiezza, ha sopportato l'avversità con animo altero, pigliava fra le braccia i soldati che morivano, morì disprezzando gli onori e la gloria. Rispettiamolo. È così bello esser giusti con un nemico! — Sta bene, — concluse il mio agronomo, scrollando il capo; — ma ha fatto del gran danno alle campagne. * * * Il Catinat ci fece far notte. Quando uscimmo, la rocca di Cavour non era più che una macchiaccia nera che si staccava sul cielo di cattivo umore “incombendo sinistramente„ come diceva il mio professore, alla città già illuminata. Nella stazione del tranvai, dove il piccolo treno aspettava, non c'era che una famiglia di contadini, una nidiata di ragazze e di ragazzetti, carichi d'involti, che s'installarono in un carrozzone di seconda classe, in silenzio. Una donna dai capelli grigi, che pareva la madre, piangeva. Di lì a poco arrivò di corsa un contadino, d'una cinquantina d'anni, secco, una faccia di uomo logorato dal lavoro, ma d'espressione risoluta; salì sul treno, diede un'occhiata alla famiglia, e poi venne ad appoggiarsi al parapetto esterno in faccia a noi. Il nostro agronomo lo riconobbe: era un contadino delle parti di Bagnolo, dove possedeva una piccola vigna e un piccolo prato, una casetta, e un po' di bosco. — Dove si va, compar Drea, con tutta la baracca? — gli domandò il mio compagno. — Eh! eh! — rispose quello, placidamente, accendendo la pipa; — vado lontano. — Poi soggiunse con un gesto vago: — In America. L'agronomo rise. — Voi scherzate, — gli disse — E la vigna? — Venduta. — Siete matto. Com'è possibile? Possedete della terra qui e la lasciate per andare in America? — Che cosa vuole? Son due o tre anni che mi accorgo di _far del brodo consumato_. N'esce più di quello che entra. Bisogna bene che mi dia le mani dattorno fin che sono ancora in tempo. — Ma come mai, se le terre di quelle parti son così buone? — Buone, va bene. Ma senta un po'. La mia vigna, a volerla far rendere, bisogna rinnovar le viti. Io non ho quattrini. Non posso far la spesa delle viti e dei pali. E poi c'è il mantenimento della famiglia: undici bocche. Sicchè lei vede. — Ma la vostra famiglia lavorerà, m'immagino. — Ma che lavorare! Son quasi tutte femmine. Si sa bene il lavoro che possono fare le femmine. Il primo maschio è entrato negli undici anni alla Madonna d'agosto. — Ma le ragazze, non avete pensato a mandarle a servire, le ragazze? Sarebbero tante bocche di meno. — Tante bocche di meno; lo so anch'io. Ci ho pensato sicuro. Ma veda un po' come andò. La maggiore non sa fare che tre pietanze, e i signori non s'accontentavano. La seconda, lasciando stare che non sa di cucina, ha un umore un po'... duro, sa, la sua maniera di fare che è il motivo che non potè mai reggere con nessuno più di tre o quattro giorni. La terza, una settimana dopo partita, gli s'è attacata la _pecòndria_, e me la son vista ricascar a casa come le altre. — Oh insomma! mi pare impossibile che non ci sia una maniera di cavarsela, senz'andare in America! Un uomo alla vostra età con tutta quella famiglia.... È un affar serio, sapete. Pensateci bene. Sareste ancora in tempo a cambiar idea. — Cosa vuol cambiare idea, santo Iddio! Se avessi trovato quattromila lire in prestito a un piccolo interesse, da poter far la spesa delle viti e il resto, sarei rimasto qui, si capisce. Ma dove trovarlo quel galantuomo? Gli domandammo in quale America andava. Ci disse: — Bonosaire. Gli domandammo se sapeva almeno presso a poco in che parte del mondo si ritrovasse quel paese. — Cosa vuole ch'io sappia? — rispose. — So che c'è trenta giorni d'acqua. — Avete mai viaggiato per mare? — Non l'ho mai visto. — Avete delle lettere di raccomandazione? — Che lettere vuol ch'io abbia? — Conoscete qualcheduno laggiù? — Nessuno. — E che cosa farete appena sbarcato? — Ma! Ci guardammo. Era proprio il caso, come dicono i giornali, di omettere i commenti. Egli fumava tranquillamente la sua pipa, guardando l'orizzonte nero. La sua famiglia se ne stava rincantucciata nella carrozza, con gl'involti sulle ginocchia, tutti pensierosi. La madre aveva in braccio un bimbo di pochi mesi, e un altro bimbo d'un paio d'anni che le dormiva col capo sulle ginocchia. Forse mentre scrivo queste parole essi son tutti in un mucchio, sfiniti dal digiuno, con gli occhi fuor del capo, pallidi come cadaveri, rotolanti da due o tre giorni l'un sull'altro nel sudiciume, e agghiacciati dal terrore del naufragio, dentro a un camerone di terza classe d'un bastimento italiano, sbatacchiato come un guscio di noce dalle onde enormi dell'Atlantico, a duemila miglia di lontananza dai due mondi. Oh! arrivino salvi alla nuova terra, con quei due bimbi sani, povera gente, e vi siano accolti con carità, e vi trovino il pane e la pace. I DIFENSORI DELLE ALPI _Al Colonnello Federico Queirazza_ Comandante del 2º Reggimento alpino. Riuscii a infilarmi nell'ultimo grande palco di destra nel punto che v'entrava il signor Rogelli, spingendosi innanzi la lunga cugina inglese, la signora Penrith, venuta apposta da Torino, e non trovammo più che tre palmi di panca all'entrata, dove stava aspettando da un'ora quella beata faccia d'agronomo, che mi aveva accompagnato a Cavour. Il buon Rogelli era trionfante. Quell'idea del ministro della guerra, di radunare nella sua città natale, nell'occasione delle grandi esercitazioni estive, tutti e venti i battaglioni alpini, per celebrare il decimo anniversario della loro istituzione con una sfilata solenne davanti al Re d'Italia, era, per lui, un'idea sublime; e da quindici giorni urlava quell'aggettivo per tutti i caffè di Pinerolo, offerendo del Campiglione a quanti gli facevano coro, e dicendo roba da chiodi dei giornali che avevan gridato allo sperpero del danaro pubblico. Vi son dei capi originali dei cittadini maturi e pacifici, che s'innamorano d'un Corpo dell'esercito, come certi artisti dilettanti, d'una data scuola di pittura; e non bazzicano che quelli ufficiali, s'infarinano dei loro studi, ripetono i loro discorsi, in modo che a vederli e a sentirli chi non li conosce li scambia con antichi ufficiali del Corpo che adorano: il che è la più dolce delle loro soddisfazioni. Il signor Rogelli era di questi, e aveva la passione degli Alpini: una passione che gli vuotava la borsa, ma gli riempiva la vita. Egli era amico intrinseco di maggiori e di capitani, teneva dietro alle compagnie nelle escursioni in montagna, pagava da bere ai soldati, raccoglieva fotografie di gruppi, conosceva a fondo il servizio, e aveva sulla palma della mano la topografia delle zone e sulla punta delle dita la tabella del reclutamento. Non vedeva nell'esercito che gli Alpini, e gli pareva che riposassero sopra di loro tutte le speranze d'Italia. Non era proprio un ramo, era un ramocello di pazzia: il suo amor di patria aveva le mostre verdi e portava la penna di corvo. Una passione schietta, peraltro, e nobile, in fondo: nata dall'amor della montagna, dov'era cresciuto, e dalla simpatia per l'esercito, in cui aveva un fratello, e da vari altri gusti e sentimenti, di cacciatore, d'acquarellista, di gran mangiatore e di buon figliuolo, mescolati e riscaldati da una fiammella segreta di poesia, che mandava fuori una volta all'anno la scintilla d'un cattivo sonetto. E per ciò era raggiante di gioia quella mattina, e appena mi vide, mi gettò un sonoro: — Ci siamo! — accennandomi la lunga fila di palchi imbandierati che il Municipio aveva fatto inalzare nella gran piazza, a destra e a sinistra del padiglione del Re. Il Municipio aveva fatto le cose per bene. Il signor Rogelli si stropicciò le mani, levò dal braccio della signora il canestrino di fiori, per ridarglielo al momento opportuno, e prese posto in piedi, appoggiato a una delle antenne della tenda, nell'atteggiamento d'un generale vittorioso. La sfilata doveva cominciare alle dieci. I palchi eran già tutti neri di giubbe, variopinti di signore, scintillanti di divise, brulicanti come vasti alveari; e un mare di gente, in cui mettevan foce molti torrenti, fiottava, rumoreggiando, su tutto lo spazio che corre dalla porta di Torino alla porta di Francia. Nelle grandi case della piazza pareva che si fossero ammontati tutti gli abitanti di Pinerolo, e che volessero schizzar fuori dalle finestre, come gocce di liquido compresso dalle commettiture del recipiente; i terrazzi rassomigliavano a enormi giardiniere, riboccanti d'ogni specie di fiori di montagna; e nei palchi e per la piazza innumerevoli fogli volanti, sui quali erano stampati i nomi dei venti battaglioni, e dei paesi dove si levano, s'agitavan per aria e giravano per tutte le mani, macchiettando la folla di mille colori, come grandi farfalle prigioniere. Dal giorno dell'entrata d'Emanuele Filiberto, Pinerolo non aveva più visto, certo, ribollire tanto sangue, fremere tanta festa tra le sue mura. A grande stento era tenuto sgombro un angusto spazio per il passaggio dei battaglioni, tra i palchi e i portici, ed anche quel piccolo solco, aperto di viva forza nella piena umana, continuamente si richiudeva, quasi che la folla ne soffrisse come d'una ferita. Gli Alpini dovevano sfilar per plotoni, venendo giù dalla valle del Chisone: da due giorni erano accampati là, dall'abbadìa fino a Perosa, e ne formicolava tutta la valle, come se fosse calato un esercito dal Delfinato. La testa della colonna era già alle prime case di Pinerolo. Tutto era proceduto e procedeva bene, anche lassù, dove s'eran dileguate fin dall'alba, sotto gli sguardi severi del Rogelli, le ultime nuvole d'un breve temporale della notte. Allo scoccar delle dieci, annunziato dagli squilli di cento trombe e accolto da un applauso che parve il fuoco di fila d'una divisione, comparve il Re. Nello stesso punto si videro spuntare in fondo alla piazza la penna bianca del Comandante del primo reggimento, e le penne nere del primo battaglione. Un aiutante di campo portò l'ordine di cominciar la sfilata, le bande suonarono, la folla immensa si scosse, come corsa da una scintilla elettrica, e poi tacque per alcuni secondi, profondamente. Il colonnello del primo reggimento s'avanzò. Il battaglione _Alto Tanaro_ si mosse. All'apparire delle nappine bianche della prima compagnia, scoppiò un applauso e un evviva che fece rintronare la piazza, e dalle finestre e dai palchi venne giù un diluvio di fiori. Tutti quei soldati alti, forti, e la più parte biondi, con quei cappelli alla calabrese, con quelle penne ritte, con quelle mostre verdi, d'un aspetto poderoso a un tempo e leggiero, e quasi arieggianti un'altra razza, e pure così italiani negli occhi, destarono un primo senso vivissimo di maraviglia e di simpatia. E anche l'applauso fu più caldo perchè era un battaglione singolare, composto di piemontesi e di liguri, levati in quel triangolo delle antiche Provincie, che poggia a Oneglia e a Savona, e tocca col vertice Mondovì: figli della montagna e giovani della marina, dai visi bianchi e dai visi bruni, diversissimi d'occhi, di lineamenti, di capelli. La folla acclamò alla rinfusa i paesi delle due parti delle Alpi: — Viva Garessio, viva Albenga, Bagnasco, Finalborgo, Pamparato, Diano! — E a tutti balenò alla mente, come visto per uno squarcio della catena, un declivio grigio d'olivi, e il villaggio bianco, circondato d'orti e di boschetti d'aranci, spiccanti sul mare azzurro, picchiettato di vele. Sfilavano in una maniera ammirabile. E nel voltarsi tutti a sinistra, di tratto in tratto, per correggere l'allineamento, mostravan le teste ben costrutte, i colli taurini, le guance vivamente colorite. La signora Penrith, piena di benevolenza protettrice per l'Italia, prorompeva in esclamazioni ammirative, dicendo che non avrebbero sfigurato accanto alle guardie della regina Vittoria. Il Rogelli non toccava più terra, pareva che li avesse impastati e modellati lui tutti quanti. E sclamava: — Guardi che casse forti di toraci! — Veda che travatura di corpi! — Magnificava il sistema di reclutamento: quello dell'esercito dell'avvenire. Non eran battaglioni misti di gente d'ogni provincia: erano pezzi viventi d'Italia che passavano, coi loro nomi e con le loro tradizioni; e avevan ciascuno una propria alterezza di famiglia, innestata sul largo sentimento dell'amor di patria e dell'onor nazionale. — Guardino che frontispizi di galantuomini! — Montanari di cervello dritto, coi concetti del tuo e del mio ben distinti, logici come quattro e quattr'otto, dai quali s'ottiene tutto ragionando, persuadendoli che le mancanze sono “cattive speculazioni„; affezionati ai loro uffiziali, coi quali prendon familiarità, senz'abusarne, nella vita comune della montagna; punto attaccabrighe, neppur quando trincano; sani e schietti come l'aria delle loro vallate. — Viva il battaglione _Alto Tanaro!_ — gridò, alzando il cappello. — Viva Savona! Viva Mondovì! Viva Oneglia! — gridò la folla. E tutto il primo battaglione passò, — fra quelle rumorose acclamazioni della patria, ch'egli sentiva per la prima volta, — tranquillamente, — come se non fosse il fatto suo; e portò al Re d'Italia il primo saluto delle Alpi e del mare. E vennero innanzi le nappine rosse di _Val Tanaro,_ salutate due volte da diecimila grida. Mi parve di riveder passare il primo battaglione. Ma non v'erano più i visi bruni della marina. In questo erano i figli di tutti quei villaggi segnati dalla storia, i cui nomi sono per noi come schianti e lampi di fulmine, che rischiarano il viso pallido di Buonaparte: i figli di Cairo, di Montenotte, di Dego, di Millesimo; di quei memorabili monti, dove i piemontesi contrastarono per quattro anni, di rupe in rupe e di gola in gola, il passo alla Francia. Erano soldati delle terre dove il Genovesato e il Piemonte si toccano, confondendo i linguaggi e le costumanze; nati fra gli alti boschi di castagni e di faggi, tormentati dai venti del mare, che spandono per le solitudini un lamento pauroso e solenne; degni veramente di chiamarsi liguri fra i loro vicini della marina e piemontesi tra i loro fratelli del Monferrato; saldi al lavoro, arrendevoli alla disciplina, bravi come i molti padri loro che onorarono il sangue italiano nella legione immortale di Montevideo. E venivan tra loro i piemontesi pretti di Murazzano, di Donesiglio, di Dogliani, i figliuoli dell'altera Ceva, già dura ai denti di Napoleone, e quelli che le madri portarono in fascie a baciar l'altare della Madonna di Vico. — Viva Ormea! — gridò la folla. — Viva Bossolasco! Viva Sassello! — L'agronomo avrebbe voluto gridare: — Viva il vino Dolcetto; — ma confidò il suo pensiero a me solo. Il Rogelli, pratico di quei paesi, ricordava le belle prese di pernici e le grandi canestrate di tartufi bianchi. E riprese a decantare il reclutamento alpino, grazie a cui una buona parte dei giovani nei battaglioni son conoscenti vecchi. Vi si trovano accanto il padron di casa e il suo inquilino; e molte volte il proprietario d'un podere, soldato semplice, e il suo affittavolo, caporale; o i figliuoli di due consiglieri comunali nemici, che si riconciliano al fuoco del bivacco; od anche i corteggiatori d'una stessa ragazza, per i quali il servizio nell'esercito è come un periodo di pace armata, dopo di che ricomincierà più ardente la lotta. Bisogna sentire le loro conversazioni, che _sapor locale!_ E come commentano il _Popolo_ del sabato, che porta la cronaca del comunello! — Guardino quei zappatori! — esclamò, e gongolò in fondo all'anima all'applauso che salutò i zappatori dell'ultima compagnia: otto colossi, che parevan stati scelti fra mille, e che s'avanzavano maestosamente, a passi da commendatori di pietra, col coltellaccio alla cintura, armati di badile, di gravina, di picozza e di maranese, sorridenti e disinvolti sotto quel carico come se portassero degli oggetti d'ornamento. E gittò un grido squillante: — Viva _Val Tanaro!_ — al quale rispose la moltitudine in coro; e poi si voltò dall'altra parte urlando: — Viva _Val Pesio!_ — e la folla rispose: — Viva _Val Pesio!_ — e si girò verso il nuovo battaglione, che mostrava già in fondo alla piazza le sue cinquecento nappine verdi. Il battaglione _Val Pesio_ s'avvicinò, in mezzo ai battimani e alle grida. Eran daccapo piemontesi e liguri confusi, compaesani dello statista Botero e del romanziere Ruffini, del presidente Biancheri e dell'autore di _Monsù Travet;_ figliuoli di Taggia piena di viole, di Bordighera coronata di palme, di San Remo inghirlandata di ville, di tutti i più incantevoli paesi della riviera di ponente; e con loro i soldati di Carrù, di Trinità, di Villanova, della Chiusa, dalle rudi voci, dagli aspri dialetti, dai fieri volti. — Giovani di nerbo e di testa, — esclamò il Rogelli; — dopo cinque settimane di servizio son soldati! — Vini forti e secchi, — disse l'agronomo; — dopo cinque anni di bottiglia, sono un'essenza da principi! — Sono bella gente, — osservò la signora. — Sono Alpini, — rispose modestamente il cugino. — E come ci tengono! Lei dovrebbe vedere alla visita di leva, quando si dice a un aspirante Alpino: — Sei troppo debole, — come si fanno rossi dal dispetto e dalla vergogna. — Ma io ne porto un paio di zaini! — rispondono; perchè vogliono entrar negli Alpini a ogni costo; anche per non allontanarsi da casa, si capisce; ma molto più per amor proprio, in faccia alle ragazze del paese, a cui voglion far la corte con la penna in capo. La signora avrebbe voluto ritrarre il battaglione con la fotografia istantanea. — Ma che! — esclamò il Rogelli. — Questi non sono Alpini! — Bisognava coglierli in marcia, all'apparire d'un villaggio, dove sperano di ballare la sera, quando tutti si rianimano e s'aggiustano sul cappello le _stelle di montagna_, che non c'è verso di fargliele levare, a quei don Giovanni alpestri ambiziosi. Bisognava vederli dall'alto, quando formano una striscia nera e serpeggiante su per i fianchi nevosi del monte, lunga a perdita d'occhi, che si spezza, si riannoda e lampeggia, facendo risonare la valle deserta di risa e di canti, ripercossi dall'eco di cento gole. Bisogna vederli sfilare come fantasmi sulle vette altissime, velati e ingigantiti dalla nebbia, o far la catena nei passi pericolosi, con la neve fino all'anche, stretti per mano gli uni agli altri, o legati con le corde alla cintura; o camminar brancicando nella _tormenta_, col berretto calato sugli occhi, col fazzoletto annodato intorno al capo, col bastone in pugno e le _crapette_ ai piedi avvolti e accecati dal nevischio; o correre di notte per la montagna, come un branco di pazzi, in mezzo ai tuoni e ai baleni, dietro alle tende portate via dall'uragano. Bisogna vederli quando precipita un loro compagno non si sa dove, e occorrendo quattro arditi per andarlo a prendere, venti buttan via il cappello e la daga, e sono già sotto a rischiar la pelle, che gli ufficiali gridano ancora: — Prudenza! — Là si vedon gli Alpini! — E come se avesse inteso quelle parole, la folla salutò l'ultimo plotone di _Val di Pesio_ con uno scoppio tonante di evviva, che parve l'urrà d'un assalto. Un'altra penna di colonnello biancheggiò in fondo alla piazza, e vennero innanzi le nappine bianche del battaglione _Col di Tenda_, i giovani nati tra le foreste brune e le forre cupe delle due alte valli, in cui scrosciano il Gesso e la Vermenagna; i grossi Limontini dalle facce color di giuncata e di sangue, i fratelli delle Tendesi robuste che portano come un diadema intorno al capo biondo il nastro di velluto nero, e i pastori del vasto altopiano di Vallasco, tempestato di fiori azzurri e bianchi, e delle montagne di Valdieri; molti dei quali, giovinetti, incontrarono mille volte per le loro erte viottole Vittorio Emanuele solitario, vestito da alpigiano, che li salutò col _ciau_ famigliare. Duri soldati, nati in villaggi di duri nomi, stridenti come comandi soldateschi: Entraque, Roccavione, Robillante, Roaschia; cocciuti come quel loro comune famoso, che negò al Re per molti anni il privilegio di cacciare nelle sue terre. E venivano innanzi a passi lunghi, calcando il piede come per provar la saldezza del terreno, e guardando diritto davanti a sè, senza badare agli applausi e agli evviva. — Questi sono solidi! — esclamò il Rogelli. — Frammenti di roccia; tutte ossature di zappatori; trentatrè chilogrammi addosso e via come caprioli; quattr'ore a quattro gambe per la neve a cercare i sentieri coperti; tre giorni filati in mezzo alla furia dei temporali; dei capitomboli da sbriciolarsi il capo, e su, dopo una fregatina di neve alle orecchie, come se niente fosse, con un compagno ferito sul dorso, se occorre; e gelati dal vento che fende la faccia o saettati dal sole che affoca le rocce, su ancora, su sempre; e quando arrivano alla tappa, capaci di scaraventar lo zaino in un burrone per far la scommessa d'andarlo a riprendere, o di scivolar per tre miglia giù da un monte, facendo slitta della giacchetta, afferrati alle maniche come a due briglie. E con questo, in _ottantasette giorni_ di seguito, non un malato nella compagnia! Degli appetiti da Gargantua, e tutti matti per la vite. Li sanno a mente come i dì della settimana, per nome e cognome, i sindaci e i farmacisti che hanno la buona abitudine di offrire il bicchiere ai bravi Alpini! E nelle osterie meglio provviste ci fanno piazza pulita in un quarto d'ora. — E a una domanda della signora: — Dei soldi? — rispose; — sono i Nabab dei soldati degli Alpini; ci pensano i padri e i fratelli che fan quattrini fuor di patria; piovono i vaglia internazionali. Viva il battaglione _Col di Tenda!_ — E quel grido, risuonando in un momento di silenzio, destò l'eco d'altre mille grida, e fece cadere un nuvolo di fiori davanti ai soldati dell'ultimo plotone, che li guardavano stupiti, come per dire: — Fiori?... Bottiglie avrebbero ad essere. E il plotone passò, urtando con l'ala sinistra, spinta in fuori da un ondeggiamento del centro, contro lo steccato d'un palco, che scricchiolò come per un colpo di catapulta, provocando un nuovo scoppio di grida festose e d'applausi. Ed ecco le trombe arrabbiate e la lunga penna d'aquila del comandante del battaglione _Val di Stura_. Io vidi lontano il villaggio severo di Vinadio, aggruppato sul pendio della montagna, come un pugno d'armati alla difesa, e il forte minaccioso in alto, e la strada ferrata in fondo alla valle, serpeggiante sui ponti mobili e sotto i voltoni a feritoie, accanto al torrente rotto dalle rocce; e più in là la gola sinistra delle Barricate, allagata di sangue francese; e il colle dell'Argentera, sfavillante delle legioni di Pompeo. L'agronomo vide invece il villaggio di Castelmagno in Val di Grana, celebre pel suo formaggio azzurreggiante, e le belle colline di Caraglio, di cui conosceva il vino, _grosso, ma buono_. Il battaglione procedeva nella piazza, franco e ordinato, mostrando le sue cinquecento facce rosate e virili, su cui pareva espresso un pensiero solo. Mistress Penrith credette di vedervi un'espressione generale di tristezza, e domandò se quella fosse l'indole degli abitanti delle due valli. — Lei mi fa celia! — rispose il Rogelli, ridendo; — qui fanno gli impostori. — Era da vedersi, come aveva visto lui, con che matta furia, dopo dieci ore di marcia “effettiva„ davano la caccia ai corvi, per l'ambizione di quelle benedette penne, o gareggiavano a far ruzzolar pietroni dai precipizi per snidar camosci dai nascondigli, con la speranza d'assaggiare un boccone da buongustai. E descriveva le scene amenissime dei pasti: gli Alpini su in cima che salutano festosamente l'apparizione dei muli carichi giù nella valle, chiamandoli per nome un per uno, come fratelli; lo squillo del rancio accolto con cento grida di gioia; e via tutti di volo a cercar legna e rododendri a mezzo miglio all'intorno; e in pochi minuti rieccoli carichi di fasci enormi e di tronchi d'alberi interi; i fuochi brillano, le gamelle bollono, gli esperti di culinaria tiran fuori l'erbe colte per la via, lo zucchino o il pomodoro portato in tasca per sette miglia, qualche volta il porcospino o lo scoiattolo cacciati la mattina; e allora salti e allegrie; e chi trita, e chi pesta, e chi soffia: impasticcian salse maravigliose e soffritti incredibili; s'ingozzano di fragole spiaccicate, s'annerano il viso di sugo di more e di bacche di mirtillo, succhiano la borraccia fino all'ultima gocciola, e su, che è risonata la tromba: tutto quel festino è durato trenta minuti, tra apparecchi e primo chilo, e sono già in fila un'altra volta, che ricomincian la salita, affettando e macinando pane placidamente per spazzare il canale cibario, che tornerà a gridar soccorso fra un'ora. — Brochi! Brochi! O Brochi! — gridò improvvisamente il Rogelli, dando in una risata di cuore. — Chi è? Cos'è? — domandarono intorno. Aveva visto nell'ultimo plotone un soldato di sua conoscenza, un mangiatore famigerato, privilegiato di doppia razione e sempre rimpinzato dai compagni, e pure eternamente famelico. Ma il suo grido andò perduto nel clamore della moltitudine che dava l'ultimo saluto a _Val di Stura_. I figli del Monviso, signori! — gridò uno studente. Era il battaglione Val Maira che veniva avanti; un battaglione levato nella valle di quel nome e nelle due valli di Saluzzo; i nati su Le alpestri rocce di cui, Po, tu labi; cresciuti lungo le umili sponde del rigagnolo che porterà all'Adriatico il tributo di dieci fiumi e di mille torrenti. Giovani di alta statura, di viso pacato e benevolo, con quell'andatura _a ondate_ della gente avvezza a salire; soliti in buona parte di emigrare in Francia l'inverno, o di scendere al piano per le mietiture e per le vendemmie. La folla gridò: Viva val Varaita! Viva Saluzzo! — La prima compagnia ricevette una canestrata di miosotidi da un gruppo di signore saluzzesi affacciate a un terrazzo. Molti soldati avean tra la folla le loro famiglie scese dai monti per salutarli. C'eran dei nativi di Crissolo, che da ragazzi s'erano avventurati tremando nelle tenebre della grande caverna del Rio Martino, echeggiante di fragori misteriosi; e dei Paesanesi, usati a indicare al forestiero la casa leggendaria dove spirò Desiderio; e montanari di Casteldelfino, pratici della foresta stupenda di pini cembri, a cui il Monviso deve il bell'aggettivo di Virgilio. Villaggi, borgate, dove durano ancora costumanze bizzarre antichissime. Parecchi di quei soldati, per esempio, — quelli di Sampeyre, — li aveva portati a battesimo il padrino, con le spalle ravvolte in un fazzoletto bianco, simboleggiante il suo ufficio donnesco. Essi medesimi, al desinare degli sponsali, sarebbero passati in piedi sopra la tavola per andar a schioccar un bacio alla sposa, sotto la cuffia carica di trine fatte in casa. Altri riceveranno da lei, il dì prima del matrimonio, il regalo consacrato del pagliericcio e il loro corteo nuziale sarà romanamente preceduto da un giovinetto portante una conocchia fasciata di lana. E per molti il letto matrimoniale sarà il primo letto in cui avran la consolazione d'allungarsi, poichè nei paesi loro, per tradizione, il celibato non ha diritto che al fenile. — Sono sposi di buona stoffa, — disse il Rogelli; — lo garantisco io! — E tutti risero; ma egli non rise. Sì, certo, egli li aveva visti lavorar senza zaino. Con lo zaino, maraviglie; senza zaino, prodigi. Salgono su per l'erte più ripide, diritti come statue, col respiro inalterato; camminano su per massi mobili di roccia bilicati sull'orlo dei precipizi; s'arrampicano su per le nevi ghiacciate, per pareti di sasso quasi verticali, attaccandosi a crepe, a sporgenze leggerissime, a bassorilievi di pietra liscia appena afferrabili, e sotto i loro piedi c'è la morte, e sopra il loro capo una croce; che importa! Dove gettan la mano, è un artiglio; dove piantano il piede, è inchiodato; e mentre chi li guarda trema, essi ridono! — Evviva! Viva! Viva! — gridò con quanto n'aveva in gola. E vedendo che la folla non aveva bisogno d'eccitamento all'applauso, il buon _chauvin_ delle Alpi rimase un minuto immobile, con lo sguardo come smarrito dietro alla fantasia prepotente, che lo trasportava forse nei valloni silenziosi e profondi e nelle grandi foreste di larici e di abeti, da cui eran discesi i suoi “figliuoli.„ Lo riscossero le trombe “laceratrici„ di _Val Chisone_. Allora si vide una festa di famiglia bellissima, un battaglione che entrava trionfalmente in casa propria, soldati nati a un passo fuor di Pinerolo, figliuoli della forte Fenestrelle, della ridente Perosa, della bella Giaveno, ricevuti nella loro piccola capitale, dove li aspettavano i parenti, gli amici, le belle, che s'erano conquistati i primi posti tra la folla a furia di gomitate, e che aspettavano da varie ore quel sognato momento: non v'erano d'estranei che quei di Cesana e della città di Rivoli, l'Auteuil di Torino. Si vedevan nella calca molte donne dell'alta valle di Fenestrelle con quegli strani cuffioni bianchi, che paiono grandi elmi di carta; molte di quelle vispe montanine di Pragellato, che nei loro balli tradizionali, a una nota convenuta del violinista, s'arrestano, e danno e pigliano dal ballerino un lungo bacio sulla bocca; e centinaia di ragazze degli opifici, con gli occhi lustri e antiche facce di nonni, ch'eran forse calati dai loro villaggi per l'ultima volta. Non aspettarono che passasse le prima compagnia: scoppiarono all'apparire dei zappatori. Pareva che non li avessero più visti da anni. Urlavano e ridevano, agitavan le braccia, chiamavano i soldati per nome, si cacciavano in mezzo ai plotoni, volevano romper le file. Gli altri spettatori, commossi, non applaudivano più. La signora inglese inumidì le frange del suo ventaglio. Essa credeva che quell'espansione affettuosa fosse l'effetto di una lunga separazione. Ma il Rogelli la disingannò. Si vedevan molto sovente, anche troppo. Era il lato debole degli Alpini quello di passar troppo spesso vicino a casa. Si poteva dire che le uniche mancanze loro erano gli scappamenti. Innamorati del loro angolo di mondo, come tutti i montanari, quando vedono di lontano il campanile del villaggio, sono affascinati: sanno quello che li aspetta dopo la scappata, non monta; svignano che il diavolo li porta, e ritornano poi col capo basso e col viso lungo, rassegnati al castigo previsto, che scontano senza rifiatare, ruminando i lieti ricordi; e se qualche cosa li trattiene talvolta, non è il timor del castigo, è il terrore d'esser ripescati a casa dall'arma benemerita, e di farsi vedere nella propria valle in mezzo ai cappelli a due punte. — Poveri uccelli di montagna! — esclamò il Rogelli. — Bisogna vederli poi l'inverno nelle città grandi, dove non han mai messo piede, che altra gente diventano, come paion piovuti dalle nuvole! Tornano dal teatro sbalorditi, si smarriscono per le vie di pieno giorno, corron come matti al suono della ritirata, scantonando a casaccio, presi dalla furia e dall'affanno; e guai alle costole degli urtati! E sempre sospirano l'estate che li ricondurrà alle loro montagne e ai loro parenti; ai quali, nel frattempo, scrivono delle lunghe lettere faticose, su fogli comprati uno alla volta, col soldato alpino sul margine. E intanto il battaglione _Val Chisone_ era passato, e i soldati degli ultimi plotoni si scotevano in fretta dai cappelli e dalle spalle i rododendri e le margherite, che cadevano insieme ai pensieri della famiglia e dell'amante, nel cospetto del Re. Un'altra indiavolata musica di trombe, un altro battaglione d'atleti rosei, e di nuovo mille grida in un grido: — Ecco i Valsusini. — S'avanzava il battaglione Val Dora, il meglio dei figliuoli della valle famosa, del canale d'eserciti, a cui dà il nome la vecchia Susa, _chiave d'Italia_ e _porta della guerra,_ che vigila le vie del Monginevra e del Moncenisio, e guarda le Alpi Graie e le Cozie. Eran giovani d'ogni parte della lunga valle, dal ventaglio di vallette che s'apre intorno alla fredda Bardonecchia, fino ai bei laghi di giardino, che danno grazia e fama a Avigliana. — Che pezzi di colonne! — esclamò il Rogelli, inorgoglito; — veri pilastri di cattedrale! — Tali erano infatti. Si trovavano là in mezzo degli intrepidi pastori che avevan passato l'adolescenza a guidar pecore fra gli aquiloni che flagellano le cime del Rocciamelone e della Ciaramella, dei tenaci lavoratori delle cave di Bussoleno; dei membruti contadini d'Oulx, nati in fondo a un sepolcro immane di montagne. L'agronomo lanciò un'esclamazione solitaria, ch'era come il frammento vocale d'un soliloquio muto: — Il vino di Chiomonte.... ah lo credo! — Lepide usanze! — disse, come fra sè, il Rogelli. C'eran lì i soldati di Gravere, che quando si presenteranno alla casa della sposa per condurla in chiesa, troveranno sull'uscio una vecchia sformata e cenciosa, la quale vorrà darsi in cambio della ragazza, e ne seguirà un diverbio di commedia, fin che la vecchia butterà una mestolata di riso in faccia al giovane, che scapperà coi compagni ridendo. Quelli di Monpatero, invece, avranno il comodo di poter calcolare la dote delle ragazze dal numero di strisce rosse che portano in fondo al gonnellino nero nei dì di festa. Altri vedranno scappar la sposa di chiesa dopo il _sì,_ e dovranno andarsela a cercare per molte ore, fin che la troveranno in un nascondiglio... che sapranno prima. V'erano nel battaglione anche dei giovani di San Giorio, i quali, nel giorno del Santo Patrono della cavalleria, accompagnano la processione, vestiti d'ogni sorta di carnovalesche divise, brandendo mostruosi spadoni, e battendosi per via, a capriole e a versacci, fin che si ribellano al loro duce, e ammazzatolo, lo copron d'erba, e ne eleggono e portano un altro in trionfo. Chi avrebbe sognato mai quelle fantocciate guardando quei visi composti e quegli occhi fissi! Curiosa gente, a cui le montagne enormi, e i giochi strani della luce e le oscurità spaventose dei luoghi ove vivono, volgono la mente alle superstizioni. E credono e raccontano storie miracolose d'inabissamenti di monti e di apparizioni terribili, e consultan gli stregoni e ragionan coi morti la notte. — Con quelle facce lì, sì signori! — gridò il Rogelli guardandoli, col suo largo riso paterno. — E porteranno nelle marce le tasche piene di minerali per il loro tenente, od anche una marmotta viva, o un miriagramma di muffa per farsi il letto; ma un teschio trovato fra le rocce, per il museo alpino del maggiore, ah! mai al mondo.... Ah i miei cari semplicioni! Evviva la faccia vostra! Evviva _Val Dora!_ — E la folla ripetè entusiasticamente: — Evviva _Val Dora!_ Evviva Susa! Evviva Avigliana! — fin che fu intronata alla sua volta dalla fanfara infernale di Val Moncenisio. Era il battaglione gemello di quel di Val Dora, levato nella stessa Comba di Susa e nelle tre valli sorelle per cui scendono a salti sonanti i tre rami della Stura di Lanzo, e sui poggi ameni di Corio, di Rivara, di Fiano, di Ceres, seminati di borghi floridi e di ville. O belle memorie di scampagnate domenicali, di cene sotto le pergole e di balli nei giardini illuminati! Bei valloni boscosi e freschi, e santuari altissimi, luccicanti come perle bianche sull'immenso manto verde della montagna! A veder le facce di melagrana di quei soldati, venivano al pensiero le fiorenti balie di Viù, ingioiellate come madonne, che spandono intorno un odor di latte e di salute, e le vezzose montanine di Lemie, col loro cappello di feltro nero calcato baldanzosamente sur un orecchio. Mi parve di riconoscerne molti, di averli veduti ragazzi, con le racchette ai piedi, scendere per le viottole coperte di neve, che conducono a quelle povere scuole della valle, dalle cui finestre non si vede cielo. Certo v'eran fra loro dei frequentatori della Comba selvaggia, dove andavano a cacciar l'orso i principi Savoiardi, e di quei che vivono sotto la minaccia perpetua di Roccapendente, e dei nati in quel triste villaggio di Bonzo, al quale per sessantanove giorni dell'anno non si mostra il disco del sole. Quante ne dovevano aver già passate a vent'anni, quali dure prove doveva aver già vinto quella loro gagliardissima tempra! I figli dell'ultima Balme, più di tutti; molti dei quali avrebber potuto raccontare orrende istorie di parenti schiacciati dalle frane, e di tristissimi mesi di prigionia, trascorsi nelle case sepolte, in mezzo alle provvigioni accumulate come per un assedio, che poteva finir con la morte. — Qui ci son degli orfani delle valanghe, — disse il Rogelli, scotendo il capo. La signora Penrith buttò giù una manata di semprevivi. — Viva Lanzo! — gridò improvvisamente la folla. — Viva Viù! — Viva Groscavallo! — Anche i figli di Groscavallo passavano, i discendenti degli audaci minatori che i Duchi di Savoia portavan con sè nelle guerre, i figli di Chialamberto, del piano d'Usseglio, d'Ala di Stura, che scendono l'inverno a fare i brentatori o gli spaccalegna, o vanno fuori di Stato a guadagnarsi la vita coi più duri mestieri, con quell'unica suprema ambizione di riuscire a mettere l'una sull'altra quattro pietre dei loro monti, per morirvi sotto, dicendo: — Muoio nella mia valle e in casa mia! — Ed era ancora l'amore appassionato dei loro monti che metteva in tutti quei capi un solo proposito, visibile negli occhi intenti e nelle fronti corrugate; l'impegno di mantenere le file diritte e parallele a prova di spago, perchè si dicesse: — Come hanno sfilato bene quelli delle tre valli di Stura! — E i cinquecento montanari passarono, allineati come veterani, rispondendo appena con un leggerissimo sorriso degli occhi immobili all'acclamazione della folla; la quale li seguitò con lo sguardo e col grido, fin che apparve dall'altra parte della piazza una nuova penna candida di colonnello, che annunziava i figli d'altre valli e d'altre montagne. Dal movimento che si fece nella folla si poteva argomentare che il primo battaglione che veniva innanzi dovess'essere un battaglione di conoscenti e di vicini. Era quello di _Val Pellice_, infatti; formato di giovani di Torre, di Bobbio, di Rorà, d'Angrogna, del fiore dei montanari scomunicati; ma già dimentichi del passato, nati già oltre a dieci anni dopo la redenzione civile dei loro padri; e frammisti ai figli della Rocca di Cavour, ai compaesani del Pellico, del Denina e del Brignone, e ai soldati di Cumiana e di Villafranca. Appena il primo plotone comparve, qualcuno gettò un grido: — I Valdesi! — E quel grido, quell'idea di veder confusi con gli altri quei soldati, in un battaglione nominato dalla loro valle, destinato a combattere sulle loro montagne, in difesa della patria di tutti, fu come una scintilla che fece divampare e prorompere in grida altissime mille sentimenti generosi. Si videro agitarsi tra la folla centinaia di cuffiette bianche di Valdesi; da una finestra cadde una corona con l'emblema della candela della fede; e mistress Penrith, balzata in piedi, ricacciò dentro a stento un grido d'entusiasmo protestante. Cinque barbuti ministri delle valli, ch'erano in un angolo del nostro palco, s'alzarono, scoprendosi il capo. Ma al Rogelli passò un triste pensiero. — A chi sa quanti di costoro, — disse, — è già entrata in capo l'America! — All'agronomo era entrato in capo il vino di Bricherasio, come se l'alito di quei soldati gliene avesse portato alle nari l'aroma. — E rimangon così calmi, — osservò la signora, — così placidi, in mezzo a tante dimostrazioni! — Che vuol lei! — riprese il Rogelli; — sono Alpini. Son tutti così. Ma vedono e sentono tutto, non dubiti. Come in montagna. Vanno su zufolando, e paion distratti; ma nulla sfugge al loro sguardo e al loro orecchio: nè il pietrone accanto alla via, che l'anno passato non c'era; nè una scorciatoia che faccia risparmiar cinque passi; nè il suono d'una voce lontanissima che noi non udremmo neppure un miglio più avanti. Ah! i sensi degli Alpini, signori! Dove noi non distinguiamo una casa da un masso, essi distinguono una donna da un uomo; odorano l'erbe da insalata a dieci passi di distanza, sentono al fiuto l'acqua nascosta e la nebbia che s'alza; indovinano il sentiero invisibile, prevedono il burrone lontano, capiscon dallo scroscio del torrente se si può o no guadare, vi segnano la pioggia e la neve dove voi non vedreste una grandine di formaggi d'Olanda, e riconoscerebbero le orme d'una cavalletta. E son quei lupi di montagna lì, quelli lì proprio! — esclamò, accennando i soldati. E in quel momento appunto i _lupi_ della prima compagnia sfilavano davanti al palco reale, e quelli dell'ultima davanti al nostro, rilevando il largo busto e la fronte ardita sotto la calda carezza della patria. Avanti il battaglione _Val d'Orco!_ Avanti il bel Canavese verde, padre dei vini generosi e dei gagliardi lavoratori, dall'anima aperta e dal sangue bollente, impetuosi nell'ire e nell'allegrezza come le piene dell'Acqua d'oro! Avanti i calderai infaticati di Cuorgnè sonora, i fabbricanti di cucchiai d'abete della romita Ceresole, e i vignaioli dalle gaie canzoni, che rompono i silenzi dei castelli d'Agliè e di Valperga! In mezzo a questi, venivano i montagnoli dell'industriosa Val Soana, gli zingari del Piemonte, buoni ad ogni arte e ad ogni mestiere, e parlanti fra loro uno strano gergo furbesco; e quelli di Valchiusella, curiosi e cortesi, e di bell'aspetto; — i più tenaci faticatori delle tre valli; — i quali, per compenso di non poter pronunciare le _esse_, posseggono le più appetitose ragazze della regione; dei visetti provocanti di santarelle fallite; — quelle di Rueglio; — vestite d'una sottana che stringe il ventre e s'arruffa dietro in mille piegoline, e d'un giubbetto ricamato, su cui s'appoggiano e tremano i più sodi tesori del Canavese. La folla salutò il battaglione con grida gloriose di: — Viva Ivrea! Viva Castellamonte! Viva Locana! — quando una voce stentorea dal palco vicino urlò: — Viva Pietro Micca! — Perdio, aveva ragione: v'erano nel battaglione i figliuoli della Manchester d'Italia, i compaesani di Quintino Sella; v'erano i giovani di Val d'Andorno. Mille grida echeggiarono: — Viva Micca! Viva Andorno! — E tutti gli occhi cercarono in mezzo alle file gli abitanti di quel fresco paradiso di Val del Cervo, ordinato e pulito come un parco reale, dove tutti san leggere e nessuno tende la mano; cercarono quei muratori nati, quei minatori d'istinto, quelli scalpellini partoriti apposta, che vanno a fare il gruzzolo e a onorar la fibra italiana in tutte le plaghe dei venti; altrettanti rozzi Quintini per ardimento, pertinacia e buon senso; e a tutti passarono per la mente le loro grandi ragazze, curve sotto l'ampia gerla, in cui porterebbero l'amante sulla Mologna; biancorosate che paion dipinte dal Rubens; con quegli occhi color di zaffiro, e quel fazzoletto a colori serrato intorno alla fronte bianca, e quelle maniche di camicia tagliate al gomito, che lascian vedere le braccia di lottatrici. — Ah che bellezza di battaglione! — esclamò il Rogelli. — Ah! il buon vino di Valdengo! — sospirò l'agronomo. E la signora buttò una rosa per aria dicendo: — A Pietro Micca! — E la moltitudine vibrò un lunghissimo grido, in cui si sentì un fremito d'affetto per il salvator di Torino. E tutti quei giovani passarono, sorridendo di gratitudine, come per dire che nei lontani paesi dove sarebbero andati a guadagnarsi il pane per la vecchiaia, non avrebbero dimenticato quel grido. E allora si sollevarono dinanzi a noi i quattro prodigi delle Alpi: fu come una rapidissima sfolgorante visione del Monte Rosa e del Monte Bianco, del Cervino e del Gran Paradiso, di dieci valli, di cento laghi, di mille picchi, e di formidabili abissi, e di castelli merlati, e di torri e d'archi romani, e di vasti boschi d'abeti e di pini, imbiancati dalla luna e squassati dal vento dei ghiacciai. Benvenuti i granitici figli della grande vallata. A tutti parve di veder guizzare tra le file le gonnelle rosse delle ragazze di Gressoney, e alzarsi i larghi cappelli rotondi e i capricciosi berretti neri delle montanare di Challant e di Cogne. E tutti intesero gridare il nome del loro paese, le guide di Valsavaranche e i pastori di Valpellina, i vignaioli di Valtournanche e gli spazzacamini di Rhêmes, i tessitori di Valgrisanche e i figliuoli d'Aosta, italiani tutti nel cuore, qualunque sia il linguaggio che suoni sulle loro labbra, e prodi, certo, alla prova, come i loro padri della vecchia brigata, che il Piemonte venera ancora. — _Viva Aosta la veja!_ — gridò la folla, rimescolandosi. — Viva Crodo! Viva Domodossola! Viva Val Sesia! — Poichè v'erano pure nel battaglione i figli di quella nobile valle, sulla quale spira come un'aura gentile la gloria di Gaudenzio Ferrari, che suscita e tien vivo nelle anime più incolte un sentimento amoroso dell'arte; di quei recessi profondi e tranquilli, di dove si vede lì come a un trar di mano sorridere e arrossire il Monte Rosa sotto il primo bacio del sole; di tutti quei bei villaggi di linguaggio e d'aspetto tedesco, che presentano ciascuno, come un fiore proprio, un costume di donna tutto grazia, colori e bizzarria. Passavano dei cacciatori d'aquile e di marmotte, degli stuccatori e dei marmoristi, dei giovani altissimi, delle teste bionde come il grano, dei nativi di Fobello, che ha fama di dar le più belle ragazze delle Alpi, graziosamente incoronate di nastri verdi e vermigli, ricadenti sopra le spalle: dei fratelli, dei fidanzati forse di quelle forti Margherite dell'alta valle di Sesia, che veston i giustacuori neri e scarlatti, trapunti d'oro e d'argento, scintillanti al sole come corazze di principesse guerriere. E la moltitudine gridava: — Viva Ivrea! Viva Vercelli! Viva Novara! — Era l'ultimo battaglione piemontese che passava, gli ultimi figli del grand'arco dell'Alpi che va dal Monte Rosa al Colle di Cadibona; i cuori batteron più forte, i fiori piovvero più fitti, i saluti presero il suono d'un addio, e si prolungarono.... Quando a un squillo delle nuove trombe che venne d'in fondo alla piazza, tutta la folla si voltò da quella parte impetuosamente, e il cielo risonò d'un grido solo: — La Lombardia! Fu un'apparizione splendida e cara, un'ondata di poesia manzoniana che c'entrò nell'anima. Il battaglione Valtellina, i figliuoli del Resegone, chi non li conosceva? i compaesani di Lucia, d'Azzeccagarbugli e di Don Abbondio; le cui sorelle e le amanti portano ancora nelle trecce la raggera di lunghi spilli e il busto di broccato a fiori e la gonnella corta di filaticcio di seta. Ah! quelli sì avrebbero fatto la meritata accoglienza ai lanzichenecchi del Conte Rambaldo! Buona e prode Valtellina, che si gloria di non aver lasciato combattere battaglia nazionale, dal quarant'otto al sessantasei, senza farvi correre un rigagnolo del suo nobilissimo sangue. _Devota morti pectora liberae,_ ancora, come contro alle legioni di Claudio Marcello e di Publio Silo. Venivano, e a noi pareva d'attirarli con la forza della simpatia profonda che c'ispiravano. La folla salutò il battaglione con un grido d'allegrezza. Erano bei soldati, d'aspetto montanino; ma singolarmente sereni, e quasi brillanti nel viso, che facevan pensare a cinquecento Renzi vestiti a festa, che andassero a domandare _il giorno_ al curato. L'agronomo, invece, pensò al buon moscadello bianco e grigio dei loro paesi, lamentando la crittogama che aveva rovinato quei preziosi vigneti per dieci anni. — Ah! se fosse vivo Donizetti! — esclamò il Rogelli; — Donizetti che _sentiva_ la montagna, che marce avrebbe composto per il suo battaglione alpino! — V'eran lì dei compaesani di Tommaso Grossi, dei giovani cresciuti fra i giardini deliziosi di Bellagio, dei figli delle tre pievi della riva occidentale, e della _pianura infame,_ e della malaugurosa gola di via Mala, confusi a pescatori di Riva, e lavoratori della bella e selvatica Valassina chiusa nell'abbracciamento amoroso del lago, e a pastori dei monti bergamaschi, avvezzi al fragore della cascata del Brembo, o scesi dai villaggi che sentirono primi il fremito e l'eco del giuramento di Pontida. — Buona e brava gente, — disse il Rogelli; — dai petti di ferro e dai cuori d'oro, belli egualmente a vedere quando porgono la mano all'ospite e quando l'alzano sul nemico. Molti di quei soldati avevano padri e fratelli nella Nuova Zelanda o in Australia, dove lavorano al taglio dei boschi o alle miniere, e ricevevan denari di là; e non pochi di essi vi sarebbero andati, forse; ma per ritornare, certamente, poichè per la patria essi rovesciano il proverbio: Lontana dagli occhi, vicina al cuore. Una rosa alla Valtellina, mistress Penrith! — Viva i Valtellinesi! — gridò la folla. — Viva Lecco! — Viva Bergamo! — Viva Chiavenna! — E ci parevan più belli e più trionfanti quei soldati italiani, perchè vedevamo con la fantasia, di là da loro, come il fondo oscuro d'un quadro lieto, la miseranda Lombardia del seicento; e pioveva fiori da tutte le finestre e da tutti i palchi; e brillava negli occhi di tutti un sorriso, un'espressione di gaiezza insolita, come se vedessero tutti all'orizzonte la riva maravigliosa del lago di Como, fuggente sulle acque azzurre e sotto il cielo rosato. Un altro battaglione, un'altra visione. Si levano a destra i monti scoscesi ed altissimi che fanno cintura da settentrione a Val Brembana e a Val Camonica e le cime bianche della giogaia del Tonale, di là dalla quale è il Tirolo tedesco; a sinistra la muraglia immensa delle Alpi, una fuga di coni e di guglie che fendon le nuvole, un ammasso prodigioso di ghiacciai, oltre i quali è il Canton dei Grigioni; e fra queste due formidabili pareti salta l'Adda giovane e sfrenata, disputando il fondo della valle alla grande strada che risale dalla pianura lombarda ai gioghi dello Stelvio, e trapassa l'intera catena. — Viva l'alta Valtellina! — s'udì gridar da ogni parte, e da un capo all'altro della piazza. — Viva _la madre delle valli!_ — gridò il Rogelli. — Qui ci sono i figliuoli di quei temerari tiratori bormiesi che condussero per il passo della Reit la colonna dello Zambelli a sorprender la compagnia austriaca nel fortissimo sito dei Bagni vecchi. C'è dei giovani della gola del _Ponte del diavolo_ che hanno visto da fanciulli fuggir gli austriaci sotto le fucilate delle guardie nazionali del Guicciardi. — E voi non v'entusiasmate? — domandai all'agronomo. Questi rispose che non conosceva i vini della valle. Ma ammirava l'aspetto guerresco dei soldati: carnagioni più sanguigne, occhi e capelli più chiari di quelli del battaglione della valle bassa, visi ossuti e gravi, su cui pareva improntata l'austerità selvaggia dei loro luoghi nativi. Erano vigorosi montanari del bel bacino di Sondrio e delle valli solinghe del Livrio e di Venina, giovani nati nella spaurevole bellezza di Val Malenco e alle falde del monte delle Disgrazie; figli della turrita Bormio, triste della sua gloria caduta; cresciuti in quel labirinto di valli, di balze, di gole, d'abissi, gioia e disperazione degli alpinisti, che si stende e s'inalza intorno a Bormio fino al gruppo dei giganti dal capo eternamente candido, a cui impera l'Ortler titano. — _Ludri!_ — gridava Rogelli pien d'entusiasmo; — ragazzi con le gambe d'acciaio e col fegato di bronzo, che cimentan la vita per andar a strappar gli ultimi fili d'erba sull'ultime roccie che pendon sui loro villaggi; lestofanti che, dopo una marcia da ammazzare i muli, domandano un permesso di dodici ore per andarne a passare una e mezza a casa loro, e partiti a piedi a mezzanotte, ritornano al campo a mezzogiorno, a restituire la penna d'aquila che si son fatti imprestare dal compagno per far colpo sull'amorosa. Questo particolare fece sventolare il fazzoletto alla signora Penrith, che s'attirò uno sguardo riconoscente d'un caporale della terza compagnia. Molte persone si levarono in piedi, le grida raddoppiarono. Alcuni gridavano a caso dei nomi sconosciuti di paesetti rimpiattati fra le rupi, — nidi di fabbricatori invernali di sedie e di culle, nei quali il parroco è maestro, medico, oste e scrivano; — e qualche soldato, al suon di quei nomi, voltava il viso, con una vaga espressione di curiosità e di compiacenza; e allora molte voci e molte mani lo salutavano. E così passò l'ultima compagnia assordata dagli evviva, ricacciando a destra e a sinistra, coi suoi plotoni inflessibili, le onde irrompenti della folla. Seguirono alcuni momenti di silenzio e poi scoppiò una di quelle tempeste di voci umane, di cui si porta l'eco nell'anima per la vita. Erano i figli della _lionessa d'Italia,_ era il battaglione della valorosa Val Camonica, che s'avvicinava, bello, serrato, superbo; svariato di tipi singolarissimi, dai giovani tarchiati, di viso largo e diritto, di naso ricurvo e d'occhi neri, rivelanti l'antica immigrazione umbra ed etrusca in Val dell'Oglio; alle alte figure bionde, dal viso rotondo e dagli occhi celesti, che tradiscono gl'innesti slavi, longobardi e alemanni; un mirabile battaglione davvero, un torrente di sangue caldo e generoso, di gioventù audace e possente, altera del nome bresciano, pronta in pari modo alle violenze dell'ira e alle ispirazioni d'ogni affetto più nobile; dal cui linguaggio tronco e vibrato traspare la bontà risoluta e sincera. Nell'altissimo grido: — Viva Brescia! — che alzò la moltitudine, v'era un saluto agli eroi della grande difesa del 49: — i soldati capirono; — e tutti quegli occhi corruscarono come carboni accesi. Erano abitatori degli aspri monti forati come madrepore dalle cave di ferro; figlioli del solitario Bagolino, discendenti dei _bellicosissimi hominum,_ rispettati da Bruto; ardimentosi cacciatori d'orso di Monte Vaccio; e aitanti mandriani di Mù e di Saviore; eran lavoratori di metallo di Val Gobbia, lavoratori di marmo di Rezzato, tagliatori di pietra di Cortenèdolo, e carbonai di Pezzo, cresciuti sotto la selva sacra degli abeti e dei larici giganteschi, da cui scende a valle di notte il prete favoloso che cresce di statura a ogni passo. E ci balenava alla fantasia il romantico lago d'Iseo, mentre passavano, e l'Idro alto e triste, e la faccia tetra del Lago nero, e i riflessi argentei del Lago bianco; e la piccola Salò, madre gentile di figliuoli forti; e tutti quei poggi e tutte quelle valli, già rosseggianti di divise e di sangue garibaldino, i cui nomi ci avevan fatto tanto battere il cuore nel 66; e sentivamo tra gli squilli delle trombe sibilare al vento le fitte selve di quel piccolo Eden alpestre di Val di Scalve, e ruggire precipitando l'Ario furioso, coronato di mille arcobaleni. Chi sa che non ci fosse un soldato di quell'indimenticabile villaggio di Cimbergo, appiccicato alle altissime rupi come un nido d'aquila? o l'ufficiale che battezzò il _passo della tredicesima_ ai piedi del Monte Adamello? Il Rogelli conosceva tutti, chiamava dei sergenti per nome, salutò con espansione il comandante della fortunata compagnia che si gode l'estate all'ombra dei colossali castagni d'Edolo, nell'antico luogo di passo dei pellegrini diretti a Roma e a Terra Santa; e non sentiva la voce insistente dell'agronomo che gli chiedeva notizie del vin di Volpino; mentre la folla gridava freneticamente, agitando fazzoletti e cappelli: — viva Val Camonica! viva Brescia! viva gli eroi del 49! e gli ultimi due plotoni passavano, con l'anima e gli occhi rivolti al Re, lasciando come un ribollimente di procella in tutto quel sangue italiano. Altre trombe squillarono, un nome sonò, e mille nuove immagini, come un getto di scintille di mille colori, ci luccicarono alla mente: colli verdi, antiche torri, un gran fiume, e Giulietta, e l'Arena, e le tombe, e Dante esule, e Catullo, e i grandi quadri del Veronese: quanta Italia! S'avanzavano le compagnie dei _Monti Lessini_, dei giovani alti, di forme fatticce e svelte, e d'occhio vivo: nati in buona parte su quei benedetti colli che sentirono tuonare il cannone della speranza nel 48, nel 59 e nel 66, e tre volte videro la speranza svanire all'orizzonte col fumo delle ultime cannonate. La folla li accolse con una musica strepitosa di battimani e d'evviva, dominata dal bel nome di Verona. — Son facce simpatiche, — disse la signora; — ci son già dei tipi veneziani. — Ci son dei nativi di Valpolicella, — osservò l'agronomo, scotendo il capo, come per dire: — fortunati mortali! — Il Rogelli inneggiò alle bellezze dei Monti Lessini, vestiti d'un verde di smeraldo, picchiolati di centinaia di fattorie, dove si beve un latte da principini ereditari, di cui gli alpini si fanno delle spanciate da vitelli. Egli era stato l'anno innanzi con una compagnia alpina nella valle di Bertoldo, dove l'illustre Bertoldo è nato, ed era andato ad affacciarsi al grande baratro del vallon di Campegno, a quello spaventevole pozzo, dove si conserva il ghiaccio eterno; — e aveva tirato indietro per i capelli, appena in tempo, uno di quegli scervellati ragazzi, che faceva la marionetta sull'orlo. Aveva praticato tutt'e quattro le compagnie. V'erano giovani di tutte le parti del Veronese; di quelli degli ultimi gioghi del regno, nati alle porte sospirate del Trentino; coltivatori dei campi di battaglia di Pastrengo e di Rivoli; e colligiani cresciuti sulle ariose alture da cui minacciano ancor la campagna i castelli diroccati degli Scaligeri. — O bel paese! — esclamò. — O Caprino! O Bardolino! O San Pietro Incariano! — Ah sì, gli si poteva far eco. O bel monte della Rocca di Garda, dai burroni fasciati d'ulivi e di mirti, che si dipingon sull'acque! O bell'orto d'Italia, monte Baldo glorioso, dalle smisurate radici, che vedi da una parte ai tuoi piedi la calata maestosa dell'Adige, aspettato all'amplesso dalla sua metropoli armata, e dall'altra quella bellezza infinita d'isole e di penisole, di castella e di porti, e d'inaccessibili rupi e di fosche selve, e i battelli scorrenti sull'acque limpidissime del Benaco, o i cavalloni furibondi che sollevano sino al tuo capo il muggito della tempesta! Bella e cara terra, amata d'un amor sacro e triste da chi ti vide per la prima volta dalle alture insanguinate di Monte Croce! — _Bei e cari fioi pieni de cor e buon umor!_ — esclamò il Rogelli. Marcerebbero tutto il giorno per poter ballare tutta la notte! E raccontò che mentre egli arrivava morto alla tappa, essi facevano sbucare le montanine non si sa donde, e ballavano a suon di tromba e a lume di luna per tre ore gonfiate, e poi andavano ancora a implorar dal capitano un'ultima polka, con l'aria di chi chiede la grazia della vita. — Viva gli Alpini, _ost...!_ — gridò. — E mille voci ripeterono: — Viva gli Alpini! Viva i Monti Lessini! Viva Verona! — E un visibilio di fiori cadde sui talloni delle ultime file, che disparvero nel polverio della piazza, insieme alla visione del Lago di Garda. E s'avvicinò il battaglione Val di Schio. A noi parve d'udire uno strepito diffuso d'opifici, e di veder sorgere alle falde dei bei monti vicentini centinaia di case d'operai, fiancheggiate d'orti: una piccola città americana, piena di scuole e d'istituti benefici, formicolante d'operai lanaioli, con la gazzetta spiegata fra le mani; e davanti tutte le alture, la forma graziosa di Monte Summano, colorito di fiori. La folla si cacciò innanzi dalle due parti, curiosa, gridando viva Vicenza, viva Schio, viva Thiene. Eran soldati vivaci, facce espressive, fisonomie di montanari sagaci e ragionatori. Il Rogelli si vantava di distinguere una valle dall'altra, di riconoscere i valdagnesi d'origine nordica, scesi dai monti dirupati di Recoaro, da quelli dell'angusta valle dell'Astico, nati all'ombra del _Capel del Dose_. Ma era pura millanteria. Il battaglione, peraltro, presentava una varietà notevole di volti, e tutte le sfumature immaginabili del biondo dei capelli e del rosso delle carni. Erano bei fusti di giovanotti, degni rampolli di quegl'indefessi contadini del Canale di Brenta che lavorano da tre secoli a convertire in campi fecondi le nude rocce; figli della antica lega dei Sette Comuni, gloriosa dei suoi cinquecento anni di governo autonomo, e della sua fedeltà cavalleresca a San Marco; ingagliarditi alle aure “pregne di vita„ dei boschi e dei pascoli sull'ubertoso altipiano che si leva tra la provincia di Vicenza e Valsugana. Chi sa! Ve n'eran forse parecchi nati in quei villaggi fuori di mano, dove si parla ancora il dialetto cimbro; v'era certo qualcuno di quegli ossuti ed agili montanari che tiran giù le slitte al fondo della valle dal bel villaggio d'Enego; e non pochi, senza dubbio, che avevan già fabbricate molte migliaia di quei milioni di scatole e di secchie che portano sin di là dall'Oceano il modesto nome del loro paese. Vaghi paesi, leggiadre borgate dai tetti aguzzi, dove suona il canto melanconico delle bionde intrecciatrici di paglia, solitudini predilette dalle fate bianche che regalano le matasse miracolose, o infestate dai nani rossi, che scarmigliano i capelli alle ragazze; riposte valli dalle leggende eroiche e dalle tradizioni misteriose, piene di poesia e di bellezza, troppo ignorate da noi, vagabondi cercatori d'ispirazioni straniere! E tu pure ci avevi in quelle file il tuo sangue, o bella madre di pittori, vecchia Bassano dai verdi poggi, donde scende la Brenta al mar tacita e bruna, e tu Marostica industre, che tendi al cielo, come un braccio titanico, il nero torrione di Can Grande; e tu, tomba famosa dell'insuperabile cantor maccheronico, o Campese; e tu, Asiago ridente, che spandi per monti e per valli gli accordi armoniosi delle tue campane, vibranti ancora nell'anima dei tuoi figli lontani come la dolce voce dei parenti! — Viva Bassano! — gridò la folla. — Viva Recoaro! — Viva Valdagno! — Il Rogelli urlò: — Viva i Sette Comuni! — Ma la signora l'interruppe per domandargli se sapeva delle parole cimbre. Ed egli disse rapidamente: — _Kersa, pluma, langez, sbalbala, taupa, veuer, stearn, sela, engel, Got_. — E siccome l'entusiasmo lo metteva in vena di galanteria, tradusse con un crescendo appassionato: — ciliegia, fiore, primavera, rondine, colomba, foco, stella, anima, sole, angelo, Dio. — E matto, come si dice? — domandò mistress Penrith. — _Narre!_ egli rispose, esaltandosi. Ebbene? Sì, oggi son matto, e dico che un vecchio italiano che non diventa un po' matto, al veder passar tutti insieme per la prima volta i figliuoli armati delle Alpi, ha meno cervello in capo di quelli che lo perdono! Ah! poveri patriotti morti, poveri nostri vecchi sepolti, che non li potete vedere! — Ed eccitato com'era, si sarebbe lasciato soverchiar dalla commozione, se gli applausi fragorosi che salutavano Val di Schio, non fossero stati interrotti improvvisamente da uno squarciato grido: — Val Brenta! — che annunziò un nuovo battaglione. — Val Brenta! — rigridò la folla voltando le diecimila teste verso il battaglione che s'avvicinava. Fu come un soffio d'aria di Venezia che ci venne in viso. — L'agronomo fece l'atto della deglutizione, socchiudendo gli occhi, e sclamò: — Ah! l'eccellente _Verdiso!_ — Ecco gli Alpini di là dove il Sile a Cagnan s'accompagna. Era Treviso che veniva innanzi, la prediletta amica di Venezia, la giovanile e arguta Treviso, felice della divina ricchezza d'acqua, d'aria e di verde che le dà salute e fragranza. Eran soldati d'aspetto geniale, d'occhi sfavillanti, d'andatura viva e sciolta; figure di montanari, molti, ma come ingentiliti anche di fuori dallo spettacolo d'una bella natura, illeggiadrita dall'arte; molti visi che facevano supporre una vena di bizzarria piacevole, estri di capi originali, fantasie vivide e mobili come fiammelle agitate. — Questi son di buon umore! — esclamò il Rogelli. — Non c'è caso che lascin languire la conversazione al bivacco o morire il canto per via. E una destrezza a menar le forbici! Ma da ragazzi di garbo, senza forare la pelle. Hanno il folletto in corpo. È uno spasso. — La folla li assordava d'evviva, essi sorridevano. Si pronunziavano da ogni parte, come nomi d'amici, i nomi dei loro paesi, così noti e simpatici a tutti; e la prode Conegliano passò, con le sue torri e i suoi cipressi, bella come un sogno di pittore, e quel beato angolo di terra di Valdobbiadene, quasi diviso dal mondo, e i colli di Montebelluna, sparsi di ville, vestiti di pampini, irti di frutteti, e l'adolescente Vittorio, chiusa fra le braccia dell'Alpi. — Ah signori, Asolo! — esclamò la signora Penrith, appuntando il dito bianco sulla tabella di reclutamento. — Pensare che ci saranno dei soldati di Asolo! Cugino, indicatemi i soldati d'Asolo! — Questo superava la percezione e la presunzione anche del Rogelli. Ma la signora non insistette, chè già l'aveva portata l'immaginazione all'Asolo del cinquecento, davanti alla pomposa Regina di Cipro, seduta all'ombra dei baldacchini di broccato d'oro, in mezzo a una corona di letterati e di principi; e udiva le grida delle cacce e delle giostre, e come la musica, lontana di quel breve regno gentile. — Viva Treviso! — gridò la folla. — Viva Conegliano! — Viva _l'amorosa marca!_ — gridò il Rogelli. — Signori, vent'anni sono, in questo medesimo giorno, entrava in Treviso il primo drappello dell'esercito italiano! — Queste per Asolo! — disse la signora, gettando una pugnata di viole ciocche. E tutta la moltitudine, come obbedendo al cenno d'un solo, gridò in coro anche una volta: — Viva Val Brenta! — E gli ultimi soldati passarono, poderosi ed alteri come le quercie della loro “magna selva Fetontea„ girando sugli spettatori le pupille chiare e potenti, come quando nei dì sereni si voltano dalle loro alture a guardare all'orizzonte Venezia, somigliante a un'isoletta azzurra perduta tra i vapori dell'Adriatico. E altri squilli di tromba echeggiarono, e un altro battaglione s'avanzò, d'un aspetto nuovo.... Salve, Belluno antica, cinta di monti superbi che affondan le fronti bianche nel cielo; salve, o piccola Pieve immortale, sfolgorante della gloria del tuo Tiziano; orrida gola del Cordévole, tagliata a picco nelle alte rupi dolomiche, dalle forme mostruose; salve, o conca paradisiaca d'Agordo, cerchiata di montagne splendide, simili a sterminate piramidi di candido marmo, o maravigliosa muraglia di Monte Civita, o gigante Antelào, o inespugnabile nodo di gioghi e di boschi, Scozia d'Italia, popolata di villaggi di legno, su cui brillano le chiesuole nivee, e s'alzano come lance i campanili snelli ed acuti, gloria a voi, poetiche valli dal sorriso triste, così belle allo sguardo, così dure alla vita; e ai figli vostri, e ai figli dei lottatori impavidi del 48, ai Cadorini dal saldo petto, così pronti sempre a invermigliare di sangue le loro rocce per ricacciar gl'invasori. La folla li salutò con uno slancio d'affetto caldissimo, gridando parole che scotevan tutte le fibre, ed essi passavano composti, con una cert'aria di curiosità riflessiva, come di gente venuta da lontano. — Viva Auronzo! si gridava da ogni parte. Viva Pieve di Cadore! — Viva Perarolo! — Viva Lorenzago! — E a quei nomi alzavan la faccia, e guardavan qua e là, come se dovessero veder qualche cosa dei loro paesi; ed eran facce che dicevano una vita di sacrifizi e di ardimenti: facce di cavatori di rame dei monti d'Agordo, di conduttori di zattere del Piave, di boschieri, abituati a parlarsi a cenni nello strepito assordante delle cascate d'acque e dei venti, e a giocar la vita ogni giorno fra i torrenti e le rupi; facce d'antichi _scottoni,_ che da fanciulli avevan portato il cibo ai boscaiuoli, a prezzo di pericoli mortali e di stenti terribili, visi dai lineamenti risentiti e gravi, che nella loro freschezza giovanile raccontavan già la storia di molte emigrazioni oltre l'Alpi, di fatiche, di privazioni di molti anni accumulate in pochi mesi, per metter da parte e riportare a casa qualche scudo; visi d'una bellezza loro propria, irradiata dall'anima indomita, che faceva correr la mano al saluto reverente prima che all'applauso festoso. Era il penultimo battaglione, eran del Cadore; la folla li costrinse due volte a fermarsi; una tempesta di fiori cadde su quelle larghe spalle e su quelle braccia di ferro; le acclamazioni copersero il suon delle trombe. La signora Penrith, consapevole della particolare simpatia dei concittadini pel Cadore, si credette obbligata a mostrare una commozione insolita, ricordando con rotte parole la sua gita a Pieve, alla casa del Tiziano, convertita in beccheria. Il Rogelli gettava ai soldati delle frasi cadorine: _Fra nos, nos bos, nos vacis, faron nos fatis;_ ma morivan a mezz'aria negli applausi. Il comandante dell'ultima compagnia lo riconobbe, passando, e gli fece un cenno. — Ah! capitano, — gli gridò dietro il Rogelli, esaltato da un ricordo improvviso, — la nostra gita a Caprile con gli alpinisti! L'abbraccio alla vecchia colonna col leone di San Marco! La colezione davanti alle due bandiere della Serenissima! Ah! il mio Cadore adorato! — Ma gli portò via la parola il doppio acutissimo grido della moltitudine, che mandava l'ultimo addio a _Val Cadore_ e il primo evviva a _Val Tagliamento_. Ed ecco il Friuli, finalmente; il Piemonte orientale d'Italia, gli ultimi figli delle Alpi carniche, i lavoratori invitti e pazienti, ponderati e accorti, forti come tori, e mansueti, quando il vino non c'entra, e buoni, quando il cuore li muove, come i canti affettuosi e mestissimi delle loro montagne; e quando calano il pugno, tremendi; alti della persona, e di viso onesto; belli agli occhi nostri della poesia dei lontani, e della fierezza pensosa di avanguardie della patria. Al primo scoppio di grida, succedette nella moltitudine un mormorio lungo e quasi carezzevole, come d'un mare che bacia le sponde; e in mezzo a quella musica sommessa di saluti, più eloquente e più cara d'ogni plauso, s'avanzarono a passi pesanti, coi visi alti e seri, atteggiati a una certa espressione di stupore di gente ignara del mondo, i bravi figliuoli di Cividale, di Gemona, di Tolmezzo, i nati ai piedi delle Alpi Giulie, in faccia alle sentinelle avanzate dell'Austria, i campagnuoli delle terre di Venzone, che restituiscono intatte dai secoli le salme umane, i pastori cresciuti fra gli urli selvaggi del Tagliamento, e nel triste canale del Ferro, ai confini delle nevi eterne, frammisti ai biondi Slavi di San Pietro al Natisone e agli Slavi solitari dell'altopiano di Resia. Salute! Salute a voi, fratelli austeri e fedeli! Salute ai vostri operosi padri emigranti alla valle del Danubio! Salute alle vostre donne fortissime e dolci, che la fatica atterra e l'amore risolleva! Salute, Friuli bello e onorato! Tutto questo sentiva ed esprimeva confusamente la folla con le grida potenti che le usciron dal profondo dell'anima quando passaron le ultime file. E allora l'entusiasmo divampò come un incendio al soffio d'un aquilone, e in mezzo a quel delirio di tutti, nessuno s'accorse del buon Rogelli, che scaraventò il cilindro in mezzo alla piazza. Non era più il popolo d'una provincia, era l'Italia intera che salutava i suoi nuovi battaglioni, che battezzava il suo nuovo corpo di difensori, che consacrava il principio della sua storia; era la grande patria, che gli affidava solennemente i varchi della sua sacra frontiera, e gli diceva: — Confido in te, e sii benedetto! — Tutte le fronti si scoprirono, gli spettatori dei palchi sorsero in piedi, la moltitudine innumerevole agitò le braccia convulse, sprigionando un ultimo formidabile grido. E poi, come per incanto, tutto tacque. Tutti rimasero muti ed intenti a guardare quella fiumana d'armati che si perdeva lampeggiando nel polverìo dello stradon di Torino, — tutti immobili, e come stupefatti ancora d'un sogno prodigioso, come se dietro a quei venti battaglioni avesse girato rapidamente intorno a loro, dal colle di Cadibona al Picco dei due signori, sonando le glorie di tutti i suoi popoli con le campane di tutte le sue valli, la giogaia sublime che ci divide dal mondo. LA SCUOLA DI CAVALLERIA Bella signorina che, a quanto pare, finirà con legarsi per la vita e per il vitino a un ufficiale di cavalleria, e sarà punta a suo tempo, come molt'altre, dal sottilissimo acúleo della gelosia retrospettiva, non si dimentichi, quando vorrà strappar le confessioni a suo marito, di domandargli conto dei suoi amori o del suo amore di Pinerolo, perchè uno almeno ci dev'essere stato, come è certo che splende il sole. E s'egli negherà, ed ella insista, assalendolo risoluta, come se fosse sicura del fatto suo. Ma non avrà bisogno di ricordarsi dei miei consigli maligni, poichè sarà condotta al sospetto da altre voci e per altre vie. E già mi par di vederla e d'udirla, accesa nel viso, sfoderar la sua requisitoria coniugale con quella esagerazione amenissima, che rende così cara, anche a chi ne è vittima, l'eloquenza d'una donnina sdegnata. — Se si può negare! Ma se siete stati innamorati tutti, in quell'anno, chè è una regola, un articolo sottinteso del regolamento. No? Non sarà stato a Pinerolo, sarà stato a Torino; ma Pinerolo era la base d'operazione, in ogni modo. Dunque.... è vero. Un amor doppio, forse.... o senza forse. Uno che _mosse il màntaco ai sospiri,_ ed uno.... od altri.... d'altra natura. Bisogna che per quelle quindici miglia di strada ferrata si vedano passar cappelli e penne di tutti i colori: una vera esposizione ornitologica ambulante ha da essere, con biglietto d'andata e ritorno. E la chiamano “scuola di perfezionamento.„ Oh! il passato della cavalleria. E dire quante ragazze del mezzogiorno d'Italia penseranno all'amico o al cugino lontano con questo conforto, che è lontano, sì, ma fuor d'ogni tentazione e d'ogni pericolo, in quella piccola città severa, quasi perduta fra le montagne, con le nevi eterne a due passi, e sei mesi d'inverno polare. Povere grulle! Eh! taci. È inutile. T'odio. Chi sa quante belle bocche avranno detto qualche cosa di simile, dal quarantanove in qua! Poichè fin dal quarantanove v'è la Scuola di cavalleria a Pinerolo, fin dall'anno in cui fu sciolta la Scuola d'equitazione della Venaria reale, di già antica memoria. Questa era stata aperta nel 1823, era vissuta sempre sotto le cure dirette dei Sovrani, e non si può dire che facesse mala prova, grazie, in parte, al famoso Vagner, che vi fu capo cavallerizzo molti anni, e vi fondò un metodo eccellente d'insegnamento, non sapendo d'italiano che due parole: _no_ e _bestia,_ che gli bastavano; a quel Vagner che, partito di qua capitano, andò poi a offrire il suo frustino a Pio IX, il quale gli diè il comando d'un reggimento di dragoni, da cui uscì generale. Lo scopo di quella Scuola era il medesimo di quella d'ora; ma gli usi conformi ai tempi, che è quanto dire molto diversi. Gli ufficiali andavano a Corte al baciamano in calzoni bianchi, il professore di lingua francese e italiana aveva trenta lire di gratificazione ogni due mesi, e i cavalli invalidi erano dati ai frati, che ne facevano regolare richiesta a Sua Maestà. Ma non tutti gli usi eran diversi, poichè fin d'allora Sua Maestà voleva impedire le _troppo frequenti corse degli ufficiali a Torino_, dove par che smontassero in piazza Emanuele Filiberto, all'albergo della _Rosa bianca_, che fu celebre; e le brillanti scapestrerie non eran rare, benchè fossero scarsi gli allievi. Da questa piccola Scuola piemontese, durata un quarto di secolo, nacque più grande, arricchita di altri studi, e italiana, la Scuola di Pinerolo, a traverso alla quale, più volte ampliata, trasformata e ricorretta, passarono tutti gli ufficiali di cavalleria del nuovo esercito, dal più vecchio generale al più giovane sottotenente, tutti quelli venuti dall'esercito meridionale, o dall'austriaco, o da quello dell'Emilia. Nove comandanti, dei quali son raccolti i ritratti, come quei dei dogi di Venezia, in una sala del club, ancora minaccianti arresti e fortezze, si succedettero finora nella direzione di questa grande fabbrica d'ufficiali, che da trentasette anni lavora senza riposo. Ed ebbe anni di produzione copiosa e affannosa, nei quali i cavalleggeri, i lanceri, le guide, gli usseri uscivano rapidamente di sotto alle sue ruote, abbozzati appena, ma scintillanti d'entusiasmo, gettando il loro grido di guerra in tutti i dialetti d'Italia; ed ebbe i suoi anni pacati, come questi, in cui lavora lenta e in silenzio, fortificando e ripulendo con cura l'opera sua, per dare all'esercito cavalieri perfetti “elegantemente saldi e spensieratamente arditi.„ Trentasette anni sono trascorsi, un esercito d'uffiziali è passato; di mille vite avventurose e strane, splendide e tristi, qui balenarono i presagi e tempestarono le prime passioni. Quando di sul colle di San Maurizio si fissa lo sguardo giù sopra i tetti di quel vasto edifizio, risuonante di nitriti e di squilli di tromba, la fantasia vede confusamente ufficiali di cavalleria lanciati alla carriera per vaste pianure verdi, rigate di bianco dalle divise tedesche; e sale da ballo dorate, dove altri ufficiali trionfano, in mezzo a una flora volante di donne belle; e boscaglie illuminate dalla luna, fumanti ancora di una mischia solitaria d'esploratori dove dei cavalli mutilati si dibattono nell'agonia; e poi sciabole incrociate e visi accesi di duellanti, in giardini su cui spunta l'aurora; ed altri visi immoti e pallidi, intorno a tavolini da gioco; e dietro tutti questi, più lontani e più confusi, altri cavalieri, altri balli, altri duelli, altre sale da gioco, altri cavalli che agonizzano in mezzo a boscaglie solitarie, su cui la luna risplende. Ma pure la luna di Pinerolo ha da averne visto la parte sua, di scene tragiche no, ma di lepide e ardite follie, al tempo in cui la gioventù militare era più scapigliata e più allegra. E sarebbe ameno d'andare a chiedere a un vecchio generale severo: Si ricorda ancora di quando scendeva a cavallo da Santa Brigida, di notte, vestito all'Ernani, rischiando la vita in una corsa disperata, e svegliando la città a colpi di pistola? O a un altro generale canuto e venerabile: Se la sentirebbe ancora, generale, d'arrampicarsi in cima a un albero d'una piazza, una notte di pioggia, per vedere a traverso ai vetri d'una finestra su che fianco s'addormenta una signorina? O a un vecchio colonnello, pien di gravità e di dolori: — Non le pare che le farebbe bene, colonnello, di rituffarsi nudo nel Chisone in una bella notte di gennaio, com'ella faceva nel buon tempo antico? Molti di quegli ufficiali giovanissimi, che Pinerolo vide brillare per le sue vie, accumularono gli anni e i galloni; altri, ancor nel fiore dell'età, li tolse all'esercito una ferita gloriosa; parecchi morirono eroicamente sotto le sciabole della cavalleria austriaca, a Montebello, a San Martino, a Custoza, usciti appena dalla Scuola. Gittar l'anima di là dall'ostacolo, prescrive il cavallerizzo tedesco, e slanciarsi subito ad afferrarla: essi la gittarono fra i nemici, e non la riafferrarono più. E ci sentiamo battere il cuore ritrovando nei registri della Scuola i loro nomi, con l'elenco delle punizioni subite per le loro scappate giovanili, nate da un bisogno imperioso di divorar la vita, come se la presentissero breve. E ritroviamo con quelli i nomi di tutto il patriziato d'Italia, i quali ci risveglian nell'anima un'eco di quella divina musica del cinquantanove, al cui suono correvano ad arrolarsi i duchi, i conti e i marchesi, e strigliavano allegramente i cavalli, impazienti d'imperlare i loro stemmi di sangue. La Scuola d'allora formava l'ufficiale; quella d'oggi non fa che compirlo; ma è più faticosa e più austera dell'antica. Licurgo troverebbe poco a ridire sopra l'orario. Gli ufficiali inforcan gli arcioni appena arrivati, e si può dire che restano in sella per nove mesi: non scendon da cavallo che per andare agli attrezzi di ginnastica, passano dalla ginnastica alla sala di scherma, scappano dalla scherma alla scuola d'armi da tiro e d'ippologia, corrono dal maneggio al campo degli ostacoli, dal campo degli ostacoli alla scuola di campagna, dalla scuola di campagna al quartiere, continuamente incalzati, sobbalzati, scrollati, svegliati prima dell'alba, spossati prima di sera, tenuti a mensa tutti insieme, vigilati da vicino e da lontano dall'occhio paternamente terribile d'un colonnello che li conosce un per uno come figliuoli, e li governa col regolamento da una mano e l'orologio dall'altra. Venuti dalla Scuola di Modena, dove prevale la penna al fucile e il tavolino al cavallo, ricevono qui una scossa violenta, quasi brutale, che li sopraffà a tutta prima; ma che riconoscon ben presto necessaria e benefica nella forza duplicata dei muscoli e in un nuovo e come impetuoso sentimento della salute. In quei pochi mesi segue in quasi tutti una trasformazione fisica, come per effetto d'una seconda e rapida adolescenza. Vengono giovanotti, ripartono uomini; entrano studenti, escon soldati. E questo si propone la Scuola, e per questo da rude educatrice li affatica e li sferza, quasi mirando a domar la carne e a castigar le passioni.... Ma non doma e non castiga nulla. Tutta quella gioventù smaniosa di vita non bastano a contenerla nè i lacci serrati della disciplina, nè la mano ferrea del colonnello, nè la cerchia angusta di Pinerolo: essa ribolle e zampilla fuori come vino spumante da una botte forata. Torino l'accende, come un grande specchio ustorio, e l'attira, come una gigantesca tromba aspirante. E le gite lecite e le corse clandestine s'avvicendano, come s'alternano tra i fidanzati, sotto gli occhi dei parenti, le carezze permesse e palesi e gli ardenti baci furtivi. Ah le belle scappate! beato ultimo treno del sabato! deliziosi tuffi a capofitto nel veglione vietato, dati con la voluttà del nuotatore fanciullo che si slancia nudo nel fiume, in barba alla guardia municipale! E saran terribili i ritorni, nell'ore più fredde della notte, in calesse, col vento e la neve in faccia, con l'ansia di non arrivare in tempo pel primo esercizio della mattina; nè riuscirà difficile al colonnello, che avrà udito da letto lo scalpitio accusatore dei cavalli, riconoscere sull'alba i profughi, o ai morsi dei cavalli capovolti, o ai colbac messi al rovescio nel dormiveglia, o agli occhi pesti e ai capelli arruffati dalla mano febbrile del carnevale. E ci sarà pure il rischio, sonnecchiando in sella, di perder l'equilibrio al primo salto di montone del maremmano ombroso, e di risvegliarsi in grembo alla madre terra, fra quel maledetto urlìo dei compagni: — Paga! Paga! Paga! — Ma che monta! Si faranno le frizioni di spirito canforato e si pagherà il fio e lo Champagne.... ma si sarà slanciata l'anima a volo come un cavallo alato a traverso a una notte ardente di Torino, si saranno tracannate d'un fiato otto ore di libertà e di pazzia, con la gioia frenetica della ribellione e del trionfo. E quell'anno di Pinerolo rimane nella memoria di tutti gli ufficiali di cavalleria come uno degli anni più saporiti della giovinezza, forse appunto per ciò, che il più caro dei piaceri, quello della libertà, non vi si beveva che a stille, a traverso ai buchi del regolamento, ed ogni stilla riusciva come un'essenza potente che dava il profumo e l'ebbrezza di dieci calici. Molte volte, fra le cure e le amarezze che crescon via via, col crescere dei fili d'argento sopra il berretto e di sotto, essi lo ricordano con desiderio quell'anno fresco e vivace, che spicca come un fiore vermiglio nella filza in gran parte scolorita di tutti gli altri. E ritrovandosi dopo lungo tempo nei campi e nei presìdi, subito, e sempre, si rammentano l'uno all'altro con loquace allegrezza le sciabolate date insieme alle teste di cuoio nel campo degli ostacoli, e le cavalcate su per la collina di santa Brigida e per i sentieri da capre del monte dei Muretti, e i capitomboli fatti e scansati, e quella sala da pranzo chiara e sonora, che intese tante proteste gastronomiche, smentite dal lavorìo precipitoso degli “avorii„ giovanili, e quelle eterne clamorose discussioni tecniche sul cavallo ungherese e sull'italiano, e sulla sella antica e la nova, e sull'incrociamento orientale od inglese, e sulla cadenza delle andature e sull'equitazione di campagna e di maneggio e tutti quei bei sogni ad occhi aperti, tutte quelle dorate immaginazioni di guerra e d'amori, di cariche vittoriose e di ritorni trionfali, che si spensero poi ad una ad una sull'orizzonte decrescente della vita, come le fiammelle d'una luminaria lontana. Ah sì, e quel fabbricone della Scuola era uggioso e quell'orario spietato; ma un verso festoso risonava in ogni parte e rallegrava ogni cosa, ed era quello che il cuore canta una volta sola in settant'anni. Ed ella pure, signorina, ha da aver per la Scuola un po' di gratitudine, perchè qui imparò il suo tenente, e non sotto alle sue finestre, a stare a cavallo come ci sta, senza rompere la comandata perpendicolare che scendendo dalla punta della spalla e rasentando a mezza via quello che è prescritto passa a quattro dita dal tallone; e se vuol dire la verità, ella s'è prima innamorata della perpendicolare che dell'anima. E deve qualche cosa alla Scuola anche lei, signora contessa; le deve la soddisfazione che provò all'ultimo _paper-hunt_, di vedere il suo capitano far così maravigliosamente la volpe a traverso a fossi, e a tronchi d'alberi e a siepi, e metter tanto spazio in pochi istanti fra sè e i cacciatori, ch'ella sola, spronando a furia la morella, riescì a scoprirlo e a raggiungerlo in una solitudine verde; la quale risonò d'una nota armoniosa, che non era la nota d'un usignuolo. Ed anche Pinerolo ama la sua Scuola, che mantien vive le sue tradizioni di città militare, e ch'è oramai così intimamente legata con essa, che al suono di quel nome — Pinerolo — passa per la fantasia d'ogni italiano una cavalcata sfolgorante di ufficiali ventenni. Ed essa li accoglie assai più che come ospiti, come figli, da vecchia gentildonna piemontese, nata di valorosi e cresciuta fra l'armi; e volta il capo in là con un sorriso, a suo tempo, da madre ragionevole e indulgente, che intende la giovinezza. E la Scuola le aggiunge vita e leggiadria. Il movimento degli elmi argentini e dei colbac neri, e delle divise strisciate di bianco, di rosso, di ranciato, di giallo, e il via vai rumoroso dei cavalli e dei soldati dello _squadrone d'istruzione,_ le dà l'aspetto d'una città di frontiera quando è imminente la guerra. Oltre che quell'accolta di giovani è come un focolare continuamente riatizzato, che tien l'aria accesa di faville amorose, a cui volgon gli occhi ed aprono il cuore le figliuole gentili della _fortissima hosti_. Perchè grande è ancora la virtù seduttrice di quell'Arma, la quale unica forse, negli eserciti moderni, serbò un riflesso dell'antica poesia guerriera, e un certo nome di romanzesca spensieratezza, sdegnosa delle gretterie della vita. Quel pensiero della _tomba aperta_ desta nei cuori femminili un vago senso di trepidazione, che è un principio d'amore. Lo scalpitare del cavallo adombrato chiama alla finestra un visino inquieto. Gli sguardi s'annodano. Qualche testa bruna di cavaliere, già accaldata dai colbac, s'accende; e più d'una testina dalle trecce bionde sogna un titolo patrizio e il golfo di Napoli o la Conca d'oro; e molte speranze paterne germogliano e fioriscono come pianticelle coltivate in segreto. Ma sopraggiungon gli esami, lo scoppio del primo temporal d'estate rompe i sogni, il primo vento d'autunno porta via i fiori, e qualche lagrima verginale cade a terra, e qualche sospiro paterno s'alza al cielo. Ma ecco, al cader delle foglie, altri elmi, altri colbac, altri blasoni, e nuovi baietti e morelli e saurini, e allora i sogni ricominciano, e i fiori rispuntano. Ma il raggio degli occhi azzurri penetra qualche volta così addentro sotto alla divisa del cavaliere, che il _no_ dei parenti lontani non gli fa che inasprir la ferita, e terminato a un tempo il celibato e la scuola, egli porta via in groppa la sua subalpina; e allora la città, che commentò per un anno tutte le vicende del romanzo cavalleresco, applaude alla chiusa felice come alla carriera finale d'un torneo, mentre la Maldicenza cancella due nomi dal registro giallo, scrivendoci sopra — Saldato. E si va aggiungendo in tal modo qualche filo di seta ai vecchi e forti legami che stringono la Scuola a Pinerolo; la quale dimostrò nobilmente l'animo suo, tre anni sono, piangendo come una sventura cittadina la morte del bravo ufficiale, che era ai suoi occhi quasi l'immagine vivente di quell'istituto. Egli era stato un mirabile esempio del come la rettitudine dell'animo e l'adempimento amoroso e costante dei propri doveri possano accumulare per sè soli sopra un uomo modesto ed oscuro tanta simpatia, tanta onorabilità, da confondersi quasi con la gloria. Nato di famiglia povera, aveva cominciato la sua vita militare a sedici anni, trombettiere nei Cavalleggeri di Saluzzo; ed era entrato sergente _istruttore d'equitazione,_ poco più che ventenne, alla Scuola; nella quale, esercitando sempre lo stesso ufficio, aveva raggiunto il grado di maggiore, e finito la carriera e la vita. Egli aveva insegnato l'equitazione a tutti gli ufficiali di cavalleria dell'esercito italiano, che tutti, anche lontani e dopo molti anni, lo ricordavano sempre con affetto e con gratitudine. Maestro impareggiabile a cavallo, appassionato dell'arte sua in fondo all'anima, aveva un aspetto soldatesco, un gesto imperioso, un comando fulmineo, che parevan l'espressione d'un anima di ferro; ed era buono e ingenuo come un ragazzo. Fuori di servizio, gli ufficiali gli andavano attorno, celiando, come a un babbo buon diavolo, di cui si faccia quel che si vuole. In fatto di coltura, era rimasto poco più che soldato; maggiore, parlava ancora piemontese ai napoletani e ai toscani che s'ingegnavan di capirlo dai gesti. Ma così fatta era la stima che ispirava l'uomo e il maestro, che sarebbe parso ignobile il sorridere di quello che mancava all'ufficiale. Tutta Pinerolo lo conosceva, ed egli conosceva tutti, e passava in mezzo ai saluti e ai sorrisi della città amica, che lo vedeva tutti i giorni, da quasi trent'anni, semplice e affabile nella sua dignità matura d'ufficiale superiore, come era stato nella sua alterezza giovanile di sergente. Un giorno che egli tornava da una passeggiata, il cavallo gli s'inalberò all'improvviso, e gli cadde addosso riverso, dandogli col capo nel ventre una percossa mortale. Portato a casa insanguinato e fuor dei sensi, fu assistito dì e notte dai suoi ufficiali, che si diedero il cambio al capezzale, finchè visse. E i suoi ultimi pensieri, le sue ultime parole furon per loro. Delirando, s'affannava per un allievo che gli pareva pericolante all'esame, e lo difendeva con la Commissione, gridando che lo dovevan provare con un cavallo anziano, non con un cavallo giovane; o ne vedeva un altro cader di sella nel campo degli ostacoli, coi piedi impigliati nelle staffe, e gridava: — Fermate! fermate! — cacciandosi le mani nei capelli, povero Baralis. E così, tutto al suo dovere anche nell'agonia, spirò. E l'antico trombettiere ebbe le onoranze d'un principe. La città intera si affollò dietro al suo feretro, e la cavalleria italiana gli pose sulla fossa un busto di marmo, che il suo valoroso e gentile colonnello, Eugenio Pautassi, scoprì, salutandolo con le più nobili parole che possano uscir dal cuore d'un soldato. E così i comandanti e i maestri invecchiano e muoiono, e la Scuola è sempre giovane: essa riceve ogni anno un'onda di sangue vivo e ardente, che gorgoglia alcuni mesi fra le sue mura, e si rispande poi per tutta Italia a inturgidire e a rinfiammar le vene dei venti reggimenti di cavalleria, un po' svigoriti e tediati dalla lunga aspettazione della prova. Poichè lo stato d'animo d'un esercito che dura nella pace da molti anni, è molto simile a quello d'una ragazza, a cui il tempo fugge e l'amor non arriva. E la stessa dubbiezza stanca e impaziente ad un tempo è nell'animo di chi ne parla o ne scrive, perchè se è inumano da un lato il desiderar la guerra per la guerra, non ci è possibile dall'altro il salutare e ammirare questo tesoro sacro di giovinezza, di forza e di ferro, senza che ci trascini l'affetto, ogni momento, al desiderio di vederlo operante e glorioso. O terribile domani, pieno di oscurità e di silenzio, che cosa nascondi? Quale sarebbe il grido che ci fuggirebbe dall'anima se ti rischiarasse un lampo, un lampo solo, ai nostri occhi? E forse ci vedresti già segnata la tua sentenza, o bell'ufficiale dei lancieri, che spingi il tuo grande baio oscuro sulla via di San Secondo: invano tu spererai sul tuo letto d'ambulanza di portar saldata ai baci dell'amante l'orrenda ferita che t'aprirà la fronte. E tu ti sentirai piegar sotto, fulminato in mezzo al petto, quello stesso saurino che ora accarezzi, o futuro dragone di _Piemonte,_ e saranno gli stessi cavalli del tuo squadrone, sventurato, che a pochi passi dal quadrato nemico frangeranno il tuo bel corpo giacente. E a te, o bel cavaliere dalle mostre gialle, sarà un colpo di lancia vibrato nelle tenebre quello che ti segnerà sul petto il posto della medaglia dal nastro azzurro, la quale non giungerà in tempo a sentire il palpito del tuo cuore. Ma questa previsione non vi turba, bravi giovani; voi rispondete con un sorriso: — Che importa! — e, spronato il cavallo, vi slanciate a briglia sciolta nell'avvenire, offrendo gioiosamente la fronte al bacio della Patria e della Morte. DAL BASTIONE MALICY Ecco perchè finisco il libro sul bastione Malicy. Il giardino della villa Accusani copre per l'appunto il terrapieno dell'antico bastione Malicy dov'era una delle più grandi fonderie della Francia, e il muro alto che lo sostiene è ancora quello della fortezza di Luigi XIV. A un'estremità di questo muro c'è una finta facciata di castello, dalla quale sporge un terrazzino, che dà sull'aperta campagna. Di lì si vede, a destra, l'imboccatura della valle del Lemina, di fronte, quella della valle del Chisone, più in là a sinistra, quelle delle valli di Luserna, del Po e della Varaita, e al di sopra di un mezzo cerchio di colli e di monti floridi, le alpi Cozie, dominate dal Monviso, il quale par piccolo, come sogliono i grandi a chi li avvicina. Sotto al terrazzo, alle falde del colle di San Maurizio, ci son due poderi di due sorelle, la morte e la guerra: da una parte il cimitero, dall'altra la piazza d'armi, e in mezzo, fiancheggiata dalle ultime case sparse di Pinerolo, passa la strada diritta che conduce a Penosa e a Fenestrelle, attraversando il bel villaggio dell'Abbadia. Più lontano si vede San Secondo, al piede d'un monte, e nel piano, la rocca di Cavour. Un paesaggio vasto, vario, fresco, che sale, trasformandosi gradatamente, dal sorriso verde dei campi e dei giardini, alla maestà bianca e celeste delle più alte montagne d'Italia. Fu quella bellezza che mi fece scrivere. Non si direbbe; ma è della bella natura come delle belle donne, che fanno commettere delle corbellerie. Composi quasi tutto il mio libro sul bastione Malicy: per questo ce lo finisco. Non ci ho quasi colpa; ci fui forzato. Vadano a picchiar dei pugni nel bastione, i critici. * * * Ci passai tante belle ore, solo e tranquillo, a meditare dei capolavori che non farò mai e a fabbricarmi delle ville che non avranno mai fondamenta! È vero che anche là, qualche volta, m'arrivano delle amarezze e delle noie, in busta e sotto fascia, suggellate e raccomandate, con francobolli di tutte le forme e di tutti i colori. Ma che volete? Non attaccano. Il vento se le porta via, insieme a tutte quelle piccole teste multicolori di re, di imperatori e di presidenti di repubbliche, che dopo avere un po' volteggiato per aria, si vanno a posar sui pampini del vigneto di sotto. E poi, ho delle cose ben più importanti da pensare, la mattina per tempo, quando m'avvio al terrazzo con la posta sotto il braccio. Ci sarà o non ci sarà il Monviso stamani? Sarà tutto ammantato, o solamente incoronato, o avrà le spalle coperte e il capo nudo? Con che grillo si sarà levata sua maestà? A che ora potrò riverire il Cornour, il Frioland, il Servin, e le altre eccellenze canute? Che spettacolo avremo a Corte quest'oggi? Il terrazzo è chiuso da una porta. Alle volte, apro la porta del paradiso: è uno splendore immenso di verde, di azzurro, di neve, di sole, e come l'effetto d'un prodigio, che abbia spinto le Alpi innanzi di dieci miglia. Altre volte, è un malumore universale, una musoneria così chiusa e cocciuta, che lascio subito ogni speranza: non mi attento neanche a domandare il più piccolo favore. Certe altre mattine, invece, è una mutabilità di umore, un via vai di nuvoloni, un errare incerto di fiocchi bianchi e di grandi veli grigi lacerati, un lavorìo, un fare e disfare inquieto e faticoso, col quale mi sembra che la natura risponda alla mia domanda: — Non so.... vedremo.... sto cercando.... vede bene che non sto con le mani in mano.... Ripassi fra un'ora. — Ma io resto là, appunto per veder le prove, coi gomiti sulla ringhiera del mio palchetto, fino all'ultima scena del quint'atto, in cui tutto viene in chiaro e s'aggiusta. * * * Sotto il terrazzo passa una stradetta, fiancheggiata da un muricciolo, la quale forcheggia in quel punto: un ramo va giù verso il cimitero, l'altro discende, nascondendosi quasi subito, per il fianco del colle di San Maurizio, fino a Pinerolo. Il bivio forma come una terrazza, da cui si vede la pianura e le montagne. Per questo passan di lì, salendo e scendendo, quasi tutti i pinerolesi peripatetici, che fanno il giro del colle verso sera. Anche ai tempi della fortezza, ci doveva correre una strada, o un sentiero, un po' più lontano, prediletto dagli amanti dell'aria libera, che facevan delle passeggiate _extra muros_. Ecco, per esempio, è un gran divertimento, per me, nelle lunghe ore che passo là, veder venire innanzi i giovani fratelli Bochiardi, Paolo e Antonino, stretti a braccetto, tutti e due grandi e belli, che concertano a bassa voce il viaggio da Pinerolo al Corno d'oro, dove difenderanno eroicamente la porta d'Adrianopoli contro l'esercito del secondo Maometto; e poi scendere lentamente, tenendosi su la tonaca di domenicano, e fantasticando forse qualche nuova birberia da affibbiare a Zanni di Bergamo, quel capo ameno di Matteo Bandello; e dietro di lui, un'amazzone snella e ardita, la contessa Ortensia di Piossasco, ancora tutta trionfante d'aver salvato la città dalla scalata notturna dei soldati del Lesdiguières; e poco dopo, una cavalcata pomposa dello stato maggiore del cardinale Richelieu, e una frotta d'ufficiali cappelluti del Direttorio, e una folla d'italiani d'ogni provincia, i nostri bei volontari di cavalleria del cinquantanove, che passano declamando i versi del Berchet e di Gabriele Rossetti.... L'ultimo è sempre il generale Brignone, grigio e curvo, con quell'aria di sant'uomo; che passa solo solo, a passi brevi e stanchi, meditando sulle sue battaglie e sulle sue sventure. * * * La mattina, peraltro, c'è quasi sempre vita nel piano. Nella piazza d'armi galoppano rumorosamente, lampeggiando, dei drappelli di lancieri, comandati dagli ufficiali della Scuola; ci son non so dove (vicino al camposanto, mi pare) i trombettieri del distretto che s'esercitano a straziare gli orecchi e le anime; e dal cortile d'una caserma, in cui vedo dentro, vengon su sonore e distinte le voci dei soldati che rispondono all'appello su cento tuoni, come una tastiera di cembalo picchiata a caso da un bimbo. Intanto vien giù per la strada di Fenestrelle un gran tintinnìo di sonagli, un armento dietro l'altro, dei torrenti enormi di lana, che traboccano nei fossi, e par che minaccin d'allagare la campagna; scendon file di carri carichi di lastre del Malanaggio; sull'aie vicine si batte il grano coi correggiati; arriva il tranvai di Perosa, sbuffando; il Lemina brontola, e qua e là in mezzo ai campi fumano, come tede gigantesche, gli altissimi camini rossi delle officine. Qualche volta, in quell'ora, passa là sotto fra gli alberi, per la strada bassa del cimitero, un feretro, seguito da molta gente con le candele accese; e allora fa un contrasto stranamente drammatico quel mormorìo lamentevole di preghiere, che vuol dire: — Tutto è finito, — con quei nitriti violenti, con quelle grida giovanili d'ufficiali, per cui la vita incomincia: — Aaaaavanti! Caaaaricate! — grida alle quali tien dietro la pesta precipitosa di cento cavalli sfrenati. * * * Poi seguon dell'ore di silenzio e di solitudine, e allora il mio spettacolo preferito è una casetta rustica, lì accanto, abitata da una piccola famiglia: una vecchia vedova, che fa la lattaia; un suo figliuolo, che lavora da muratore; la moglie del figliuolo, che fa la balia, e una ragazzetta, figliola della vecchia. Tutto il loro avere è un pezzetto di prato e un par di vacche. Campan di nulla, e paion contenti. La sposa è una trovatella, presa bambina dalla lattaia, e allevata da lei. Il figliuolo se ne innamorò e la volle. L'adorano tutti. È allegra, canta dalla mattina alla sera, col suo bacherozzolo in braccio. Io tengo dietro a tutte le loro faccende e conosco tutte le loro abitudini. Quando ritorna dal lavoro, il figliuolo conduce le vacche nel prato, e così, per spasso, gira il braccio intorno al collo ora all'una ora all'altra, mentre è chinata che pascola, le arrovescia la testa in su, e la bacia nel muso amorosamente. Sull'imbrunire, mangiano una minestra, seduti davanti all'uscio. Dopo cena, gli sposi fanno una passeggiata di trenta passi, fino al bivio, dove rimangon un po' di tempo appoggiati al muro, a guardare i monti. Rincasano; brilla un lume a una finestrina per un quarto d'ora; poi si spegne, e tutto è finito. E così tutti i giorni, e tutto l'anno. E io provo un piacere, una commozione di fanciullo, a raffigurarmi cento volte un vecchio milionario malato, che va a bussare una sera a quella porta con una carta della Maternità fra le mani, ed entra in quella casa; e sento un grido: — mio padre! — e uno scoppio di pianto, e il rumore d'una caduta, e voci confuse di meraviglia e di gioia, e il frullo dell'ali della pace che vola via da quel nido per sempre.... * * * Quel gran silenzio della mattina, qualche volta, è rotto da molte voci insolite, dai discorsi di un gruppo d'amici, venuti di lontano, che discutono concitatamente per dimenticare una colezione infelice; e quelle mattine si spandono dal terrazzo per la campagna, come uccellacci esotici portati là in una gabbia, le più bizzarre frasi del mondo, delle parole d'una lingua misteriosa e sinistra, che fanno correre un fremito per le fibre dei gelsi vicini.... — .... ma quell'animazione antropomorfa che s'infiltra per tutti i meati del mondo zolesco.... — .... no, tu confondi coi piccoli omotteri della famiglia dei coccidi che si trovan negl'internodii delle piante monoiche.... — dice che l'anima dell'individuo, entrando per opera dell'amor platonico negli ordini operativi, partecipa alla vita universale della psiche cosmica e si congiunge col Logo.... — .... sai che interessa interiormente l'estremità posteriore delle tre circonvoluzioni temporo-sferoidali e una parte della porzione posteriore della circonvoluzione parietale inferiore.... — Ed è un ridere allora a vedere lo stupore profondo delle due vacche della lattaia, e l'aria triste d'incredulità con cui scrollan la testa, come per dire col Manzoni: — Neghiamo tutto e non proponiamo nulla.... * * * Appena c'è un po' d'ombra, s'ammucchia lì sotto tutta la spazzatura di bimbi del vicinato. È un altro spettacolo che non darei per molte commedie in cinque atti. Oramai li conosco quasi tutti, quei tometti. C'è dei bei ragazzi, cresciuti all'aria forte di San Maurizio, che arrivano a gran passi, _abbambinando_ fra le gambe larghe i fratellini d'un anno; delle cecine alte tanto da terra, che portano in collo dei bofficioni, con delle faccie come melanzane; e poi dei mangiapagnotte di tutte le misure, delle pance tonde, delle vere palle di cavolfiore, dei minuzzoli che si reggono appena, dei cosi lunghi che si poppano il dito grosso, col cappello a sghimbescio, una bretella sola, la giacchetta tutt'occhi, i calzoncini a bracaloni, le calze a giambardella, le scarpe a ciabatta, e la camicina che sboccia di dietro. Povere mamme! che canaglia! Bisogna vederli, come si svoltolano nella polvere e strascicano il sedere sui sassi e struscian la pancia sul muricciolo, tutti in riga, col capo spenzolato in fuori e la coda di tela per aria, giocando a chi sputa più lontano. E stan lì delle mezz'ore, a contrattare il baratto d'un bottone, d'un chiodo, d'un osso di pesca, d'un cencino rosso, facendo un chiocchiolìo interminabile per ogni uccello e per ogni cane che passa, finchè delle voci minacciose li chiaman per nome di lontano; e allora si sparpaglian tutti ciabattando, ranchettando e ballonzolando, fuorchè uno o due, le anime perse della compagnia, ribelli a ogni legge umana e divina; i quali rimangono appoggiati al muro in atteggiamento affettato di noncuranza, succhiando i mozziconi dei miei virginia. * * * Più tardi passano delle coppie d'amanti rustici; delle ragazze tozzotte, con due tendoni di capelli lustri appiccicati alle tempie, e con un nastrino di velluto nero intorno al collo; dei giovani col cappello a cencio e coi calzoni alla francese. Quando arrivan lì, credon sempre di esser soli. Guardano bene intorno, molte volte; ma, poveri giovani! al solito non si ricordan mai di guardare in alto. E poi che si può vedere, con quegli occhi in solluchero? Le teste si chinano sulle spalle, le braccia girano intorno alle vite.... e il fotografo, dal terrazzo, conta i minuti secondi. Qualche volta c'è degl'indiscreti, e allora le ragazze piegano indietro il busto tutto d'un pezzo, come popattole spezzate alla cintura, e ributtano i nasi temerarii con dei colpi di ventaglio da cavare il sangue; e i battuti si vendicano azzeccando dei pizzicotti da intaccar la pelle ai rinoceronti. Poi s'acquetano, e s'appoggiano al muricciolo; discorrono lungamente; la ragazza con gli occhi bassi, facendo scorrere tra le dita l'orlo del grembiale nero; lui, coi gomiti appuntati, in atto d'adorazione; e s'indovina dalle risa dell'uno e dall'occhiate di rimprovero e dai rossori dell'altra, le scioccherie grasse e i complimentacci impertinenti.... coi quali ricomincian gli assalti e le ventagliate.... fin che la ragazza alza gli occhi al terrazzo; e allora restan là, due statue di sale, in un atteggiamento così miserevole, che mi sento preso da paterna pietà, e rientro rapidamente nel mio casotto, come un grosso automa d'orologio. * * * Passano anche delle coppie coniugali, borghesi, belline; per metà, s'intende; e scordan quasi tutte, anche queste, di guardarsi dal bastione di Malicy. Una signora fa quattro passi di polka; un'altra si stacca dal braccio del marito per contraffare l'andatura d'un'amica grassa. Sento dei frammenti di diverbio, delle botte e risposte secche, di quelle che fan fare i lucciconi alla signora, e mangiare il sigaro all'altro. — Hai torto, hai torto, hai torto. — Oppure: — Questa non la spunti, sai, Giorgetta! Tientelo a mente. — Delle coppie vanno per un tratto divise, l'uno a destra e l'altro a sinistra della strada, sbadigliando, e guardando da due parti opposte, con tutta l'aria d'esser mortalmente seccati del settimo sacramento; e poi, all'improvviso, sentendo dei passi davanti o di dietro, si avvicinano in fretta, e si parlano, sorridendo da buoni amici, per salvare il decoro del cuore. Delle signore si fermano qualche volta per richiudere un orecchino che scappa, o stringere una cintura che si scioglie, o levare una pietruzza dalla scarpetta scollata. E sarebbe mandata da Dio quella pietra. Ma è un caso tristo: c'è sempre il marito davanti.... e son così opachi! Ma non importa, mi ci diverto; con qualche danno, peraltro; come la malaugurata sera di quel barbone, che riannodando il velo del cappello alla moglie, per di dietro, le stampò nella nuca un maledetto bacio, di cui sentii fra capo e collo il contraccolpo, come un pugno ben assestato di _boxeur_ inglese. * * * Passano dei solitarii, e non son quelli che mi diverton meno. Li so già tutti a memoria, quasi. So che a quell'ora precisa vedrò spuntare il tale e il tale altro: degli ufficiali pensionati, degli impiegati in riposo, dei convalescenti che fan la salita tutti i giorni, per ordine del medico; dei “benestanti„ larghi e lenti, che vengon su con lo stecco in bocca, con le mani strette dietro la schiena, guardando qua e là con un sorriso vago, e andando a cercare i ciottoli per buttarli da parte col piede: desiderabili segni di quelle chilificazioni soavissime, che si fanno soltanto nelle città piccole, dopo una giornata di lavoro tranquillo. C'è un vecchio prete mingherlino che passa ogni sera alle sette e tre quarti, tira a destra per la strada del camposanto, ripassa sotto il terrazzo alle otto e mezzo, col breviario aperto fra le mani, senza mai alzar gli occhi, senza mai cambiare il passo, senza soffermarsi mai un secondo; e fa quella passeggiatina in quel modo da più di trent'anni. Un vecchio signore panciuto passa costantemente con la canna ritta contro il braccio destro, e il panama infilato nella canna. Un altro piglia infallibilmente la sua presa di tabacco nel momento che passa accanto a un tiglio che ombreggia la strada. E io mi diverto a indovinare le altre abitudini di quei buoni signori, i pasti regolati appuntino, quelle ore di sonno sacramentali, l'aborrimento profondo di certe salse, certe fissazioni strane invincibili in fatto d'igiene, la fascia di lana intorno alla vita, la piccola cantina scelta pei casi di malattie, e la piccola farmacia di casa, rifornita a tempo con grande cura. E sporgendo il capo indolenzito e stanco dallo scribacchiamento di tutto il giorno, li seguito tutti fin che spariscono, con un sospiro d'invidia. * * * Verso sera, passan pure dei soldati, che vanno a spasso per la campagna, quasi sempre a due a due. Sento degli accenti napoletani, siciliani, toscani, lombardi. Alcuni cantano. C'è un toscano che solfeggia _dove vai, dove vai, ricciolina_, deliziosamente, e molto bene accompagnato da un tappetto di fantaccino che dimena le spalle alla becera. Discorrono delle loro faccende: la consegna, la riparazione alle scarpe, il nuovo orario, _la arne attiva, u capurale, quel bagolon d'un furée_.... — Qualche volta esprimono dei sentimenti d'ammirazione per delle signore incontrate poco prima. — _Chilla è bona!_ — _Ah! che bonbonin!_ — Ce ne passan degli scompagnati, che si fermano a piluccare le more delle siepi con una ghiottoneria di bambini. Corron dietro alle lucertole, si chinano a frucar coi fuscelli nei formicai. Son capaci di perdere un'ora a cercare un uccello di cui sentono il verso dentro a un cespuglio o tra i rami d'un albero, grondando di sudore a forza di girare, di accoccolarsi, di torcersi come le biscie. Scendon giù verso i campi, tornano indietro con dei mazzi di fiori selvatici infilati nella tunica, felici di poter far quattro passi fuor delle scatole, col cinturino sulla spalla e con le mani nelle tasche, aspirando gli odori dei prati e dell'aie, dove son nati e cresciuti. E qualcheduno si volta a guardare in su, con una espressione di curiosità amichevole, che mi compensa di un mese di rompimenti. * * * A una cert'ora, ci ho un altro spettacolo: vedo risalire per la strada di val di Lemina dei gruppi di vecchi e di vecchie del vicino Ricovero, vestiti di rigatino grigio, che ritornan dalla passeggiata. Poveri vecchi! Passando sotto il terrazzo, quelli che possono, alzano il viso; e allora posso dire anch'io che “quaranta secoli mi contemplano.„ Par che tornino da una battaglia. Vengono prima gli uomini, delle facce d'arancie seccate sopra le caminiere, dei corpi segaligni, nodosi come le calocchie, dei nani sbilenchi che paiono usciti di sotto un torchio, delle anime lunghe che spenzolano da tutte le parti, delle figure bizzarre, in cui non si raccapezza più la fisonomia, e rammentano i famosi struldbruggs di Laputa, condannati alla decrepitudine eterna, nel libro del Gulliver; delle andature che presentano insieme tutti i ciondolii e tutti i tentennamenti d'un mazzo di marionette tenuto dalla mano d'un paralitico. Quanto trista e maligna è la natura a imporci insieme a quel modo l'ilarità e la compassione! Poi vengon le povere donne, dei cubi, delle piramidi equilatere, delle esse, degli otto, dei visi pelosi e infunghiti; fra i quali pure si riconoscono degli occhi pieni di benevolenza e di dolcezza, che esprimono ancora un amore lieto della vita, e promettono ancora delle buone azioni, dei piccoli sacrifizi utili a qualcheduno. Ma chi mi dà a pensare più di tutti è uno sbilungone tutto rotto, vecchio come il primo topo, con una barba che pare un granatino sudicio, una faccia buffa, che dev'essere il bell'umore della compagnia, che racconta sempre qualche cosa, con una voce di trombone affiochito, degli aneddoti lepidi, da quanto sembra, perchè provoca intorno delle risate faticose, degli scotimenti di gobbe, degli accessi di tosse, dei milioni di rughe, uno scombussolìo da mandare per il medico. Che cosa diavolo dice? È una curiosità che mi tormenta. Deve ancora raccontare degli aneddoti lubrici, quel mummione, delle avventure del 1820, chi sa che birbonate.... e che finezze! Qualche parola m'arriva; ma il senso mi scappa, e mi ci danno. * * * Passano alle volte delle squadre di collegiali coi berretti rigati d'oro, in due file, accompagnati dall'assistente; i primi, piccoli, d'otto o dieci anni, gli ultimi sulla quindicina, beati di essere all'aperto, e di aspirare quell'aria a sorsate come un vino generoso; passano allargando e allungando le file, voltandosi da tutte le parti, parlando tutti insieme, con una gradazione ascendente di forza vocale, dalle note femminee della prima ginnasiale ai vocioni velati del liceo, disputando a tre a tre, a quattro a quattro, e spandendo per la strada delle regole di grammatica latina, degli enunciati di teoremi, delle risate, dei nomi storici, dei trilli, dei calcoli di ventesimi, confusamente, con quella mimica sbracciata e angolosa degli scolari, che somiglia un po' alla gesticolazione delle marionette. Ah! quanto è lontano quel tempo.... che è tanto vicino!... Ci ritrovo delle teste ricciute di antichi miei compagni di scuola in quelle file, ci riconosco delle voci di venticinque anni fa, dei gesti che mi ricordano mille cose. Ma non c'è mica da fidarsi a star sul terrazzo mentre passano, perchè si può dare il caso, come una sera, che i primi discutano del miglior modo d'acchiappare le mosche, e quei di mezzo tacciano, e gli ultimi ragionino ad alta voce, e _senz'alcun sospetto,_ di colui che pende, non visto, sul loro capo; e, certo, può accadere di sentirsi dire delle cose gradevoli, ma si corre anche il rischio.... * * * Altre volte, dopo una mezz'ora di silenzio, sento un bisbiglio di voci armoniose, e vedo a traverso ai rami degli alberi una confusione variopinta di penne, di fiori, d'ombrellini, di veli; tre o quattro famiglie affollate; delle ragazze di dieci anni, delle signorine di venti, delle signore di trenta, la scala vivente del paradiso, che vien su. E fanno un bel quadro, per alcuni minuti, tutti quei visi rosei sul fondo verde delle viti e delle acacie, e le calzine bianche fra l'erba; e un po' più in qua, i cappellini vermigli e rosati che spiccano sull'azzurro delle montagne; e anche più vicino gli occhi celesti che scintillano sotto le ciglia nere. E a proposito, com'è il sangue di Pinerolo? Non saprei che dire. Tra il sangue di Torino e quello di Pinerolo non c'è che un'ora di strada ferrata. Arrotondate un po' più le spalle e colorite un po' più le guancie.... Intanto le signore son lì sotto; la fatica della salita fa ondulare i seni, l'aria dei monti agita i capelli sulle tempie, e le braccia che si alzano a ravviarli mostrano i contorni graziosi e la pelle bianca.... Ma è la visione d'un momento. Il mormorìo armonioso s'allontana, i veli e le ombrelline si rinascondon fra gli alberi, e non resta più che un po' di profumo nell'aria e qualche orma di piedino sulla via. * * * Poi passano delle coppie d'amici, a molta distanza l'una dall'altra, lentamente, parlando forte, in modo ch'io sento le parole prima di vedere i visi, e raccolgo dei brani di discorsi curiosi, tagliati poi d'un colpo, o continuati con un abbassamento improvviso di voce, quando la coppia arriva in vista dell'osservatorio. — .... Capisce! — dice una voce rimbombante che s'avvicina, — mi _siringa_ trecento quaranta lire di ricchezza mobile! E io li schiaffo lì per lì tanto di ricorso, dimostrando come e qualmente.... — Scompariscono: non sento più nulla. Dopo cinque minuti, una voce lenta e placida che espone una biografia: — .... in seconde nozze la signorina Gloriocci, figlia di primo letto del commendator Gloriocci, ch'era capo divisione agl'interni nel 1860; _dimodochè_ egli venne ad essere cognato della contessa Vespretti, precisamente l'anno dopo che s'era separata dal marito per il famoso scandalo col capitano.... — Passano, succede un lungo silenzio, e poi una voce stridula e concitata: — .... a parlar di calunnie e d'intrighi, birbone che non è altro! Con che diritto? Con quali prove? Come ha tanta faccia di accusare gli altri dopo quella birbonata del settantasette? Come non capisce che un giorno o l'altro.... — Poi daccapo una voce grassa e pacata: — .... in un involto di carta, oppure dentro a un pezzo di tela, e lo mette in pentola: ma senz'acqua, badi! e deve cuocere in quattro o cinque ore, a sola bragia, per effetto dei vapori che si svolgono, e che restan lì chiusi: lei mangierà il miglior lesso che sia mai stato assaggiato al mondo dacchè si parla di mangiare e di bere.... * * * E tutti si fermano un minuto al muricciolo ad ammirare il tramonto. Quando tutta la pianura è già nell'ombra turchina della sera, scendono ancora per la valle del Chisone, per la valle di Luserna e per la valle del Po, come per tre immense finestre, dei fasci di luce calda, che rischiarano tre lunghissime striscie di campagna, indorando case, boschi e torrenti. I monti bassi son già quasi neri; i monti alti d'un azzurro cupo; le montagne altissime ancora chiare, d'un azzurrino limpido, unito e dolce come l'acqua della grotta di Capri; e tutte ornate a ponente di tante mantelline di seta rosea tempestate di gemme e di stelle d'oro. Poi tutte queste mantelline s'accorciano, si stringono, si riducono a una collana, non son più che un diamante, svaniscono. Ultimo resta ancora il Monviso sotto la larga carezza del sole. E il sole lo accarezza, — lo tocca, — lo lambe, — lo abbandona. E allora tutta l'enorme catena bruna si intaglia violentemente nel cielo, e lo squarcia e lo morde coi suoi mille archi acuti e con le sue mille piramidi, disegnando nel fuoco una delle più belle e più formidabili immagini di grandezza che sian mai balenate alla mente umana. * * * A quell'ora i contadini tornan dal lavoro e i ragazzi e le vaccaie dai pascoli. Da tutte le parti mi arrivan dei canti all'orecchio; quei canti dei contadini piemontesi, così strani e tristi, cantati a voce altissima, e strascicati con un lungo sforzo, come per farsi sentire a grandissime distanze, e rotti da certi trilli gutturali, fiorettati di certi vezzi, direi quasi, violenti, che fan soffermare per la viottola il cittadino che passa, offeso nell'orecchio, e pure curioso di risentirli. Alcune voci mi suonano vicine, delle voci femminili, piene e poderose, che mi fanno immaginare delle grandi ragazze con la bocca squarciata e col seno ansante; altre più vicine, di cui distinguo le parole, una voce tremula, una canzone patetica, che comincia _l'America è grande l'Italia è piccolina,_ e dice d'un mazzetto di fiori che sarà portato a traverso all'Oceano; altre, lontanissime, delle voci lunghe e dolenti, simili alle cantilene dei marinai e alle grida degli spazzacamini, le quali s'avvicinano, si allontanano, muoiono, e poi tornano a suonar più lontano; e pare che tutte quelle voci si chiamino e si rispondano di qua e di là dal Lemina, e dalla pianura alle colline; grida d'amore tradito, sospiri di miserie senza speranze, addii a soldati lontani, e implorazioni di soccorso: cento voci, la grande voce diffusa e stanca della campagna che si lamenta delle fatiche mal compensate, dei balzelli, della leva, delle guerre, e invoca il sonno consolatore. * * * Tutt'a un tratto, un vento impetuoso che vien dall'Alpi disperde tutte quelle voci. E allora, davanti a me, comincia la grande sommossa della folla verde, agitata da mille idee e da mille passioni contrarie. È un rimescolìo di tempesta: delle dispute appassionate di tigli che s'insultano; delle denegazioni rabbiose di gelsi offesi che gridano; no — no — mai, mai in eterno; — degli atti disperati e convulsi di acacie atterrite; degl'impeti di furore di pioppi che si curvano per far violenza ad alberelle sottili, le quali si arrovesciano e si divincolano; e delle piccole mischie feroci d'alberelli che s'odiano, e più in là un tentennìo lento di grandi alberi saggi che disapprovano tutto quel sottosopra. A poco a poco, tutto si queta. Poi, da capo, come al soppraggiungere improvviso d'una mala notizia, un nuovo scoppio d'ira e di dolore, uno scatenamento di proteste e d'imprecazioni, una disperazione, un dimenìo, un non volersi dar pace, un tumulto di moltitudine minacciante, la quale pure, a grado a grado, si rabbonisce, abbassa le braccia e la voce, si lascia quasi persuadere, s'acqueta a certe condizioni, facendo ancora dei segni di dubbio, con un mormorìo leggero di malcontento, per non parer troppo facile a contentarsi. Quand'ecco, giunge un telegramma che smentisce tutto.... e allora scoppia formidabilmente, per non più placarsi nè interrompersi, la rivoluzione sociale. * * * Allora, solo sul terrazzo, nell'oscurità che sale, flagellato dal vento, come sul cassero d'un naviglio, mi godo tutto quel fragore d'uragano, pieno di grida, di sibili, di gemiti, di parole dolorose, che mi suonano all'orecchio come susurrate da spettri invisibili che mi passino accanto di volo. Il fragore viene a ondate: sono urrà di Eugenio di Savoia che si slancia all'assalto di Santa Brigida, urli dei prigionieri del Saint-Mars flagellati, pianti dei fanciulli astigiani sepolti nella torre degli Acaja, rantoli di cavorresi sgozzati sulla rocca; e poi, dopo un breve mormorio sordo e come compresso, ecco, la marchesa di Spigno scoppia in singhiozzi, i Valdesi cantano i salmi della vittoria sulle vette d'Angrogna, i cannoni della Varaita tuonano, gli emigranti mandano l'ultimo addio alla patria, trentamila grida di gioia salutano il vincitore di San Quintino; tutto il passato si ridesta e mi parla; tutti quei benedetti dolori, tutte quelle sante gioie, tutta quella grande storia di sangue, di fuoco e di pianto, alla quale io debbo la mia soddisfazione di quel momento: la soddisfazione d'un italiano libero, che contempla i confini della sua patria libera, sul finire d'una giornata operosa, nella quale scrivendo, ricevendo saluti d'amici lontani, e scorrendo giornali e libri d'ogni provincia, è vissuto un poco in tutte col pensiero e col cuore, e ha come sentito sulla fronte il grande alito caldo della Madre comune. * * * Intanto, s'è fatto notte; le finestre delle officine e delle caserme, giù nel piano, son tutte accese, e qua e là, per i campi e sulle colline, brillano pochi lumi, come occhi infiammati, che battan le palpebre, sul punto di chiudersi al sonno. Allora, in quella oscurità fitta, in cui le falde dei monti scompaiono, par che tutta la campagna vastissima salga, e sia già falda delle Alpi; e le Alpi nere appaiono immense sul cielo grigio, come le onde d'un mare prodigioso che si sia levato per sommergere il mondo, e rimanga immobile lassù, minacciando. Quelli sono i momenti in cui mi sento più incatenato ad ammirarle, poichè non c'è più nulla sulla terra che distolga da loro gli occhi o il pensiero. E le guardo, le adoro, le chiamo madri di soldati di ferro e sorgenti eterne di poesia e di salute, terribili, bellissime e buone, nostra alterezza, nostro amore, e nostra forza. E starei chi sa quanto a parlar con loro, se a un certo momento non mi sentissi quattro piccole mani sulle spalle e due voci leggiere negli orecchi, che mi domandano: — Ebbene, che cosa fai qui? A che cosa pensi? — A che cosa penso! Come ve lo posso dire? Penso a queste montagne che han visto tante cose, a questo angolo d'Italia dove si è tanto sofferto e combattuto, e ch'io vorrei far conoscere e amare da tutti, e che un giorno potreste esser chiamati a difendere, anche voi due, miei cari figliuoli. Voi non capite ancora queste cose; ma io scriverò un libro nel quale ci sarà tutto, perchè lo leggiate poi fra molti anni, in faccia alle Alpi; e lo intitolerò _Alle porte d'Italia_. — E provo un grande piacere allora a udir gridare quelle quattro parole da quelle due voci infantili, con un accento in cui si sente quasi un primo fremito inconsapevole del più grande degli affetti; e m'immagino tutta la loro generazione che le ripeta insieme a una voce, in un giorno di pericolo, dei milioni di voci confuse in un grido amoroso e tremendo, il quale passi sopra la patria come il soffio precursore della vittoria. FINE. INDICE. Pinerolo sotto Luigi XIV Pag. 1 I Principi d'Acaja 19 Il Forte di Santa Brigida 49 Il Forte di Fenestrelle 72 Emanuele Filiberto a Pinerolo 103 La Ginevra Italiana 153 Le Termopili Valdesi 198 La Marchesa di Spigno 251 La Rocca di Cavour 288 I Difensori delle Alpi 326 La Scuola di cavalleria 370 Dal Bastione Malicy 384 DEL MEDESIMO AUTORE: _Edizioni in-16._ _La vita militare_. 11ª impressione della nuova edizione del 1880 riveduta e completamente rifusa dall'autore con l'aggiunta di due bozzetti 4 — _Marocco_. 11ª edizione 5 — _Costantinopoli_. 14ª edizione. Due volumi 6 50 _Olanda_. 11ª edizione riveduta dall'autore 4 — _Novelle_. 7ª impressione della nuova edizione del 1878 ampliata dall'autore, con 7 disegni di V. Bignami 4 — _Ricordi di Parigi_. 6ª edizione 3 50 _Ricordi di Londra_. 9ª edizione illustrata da 22 inc. 1 50 _Poesie_. Edizione diamante. 3ª edizione 4 — _Ritratti Letterari_. 2ª edizione 4 — _Gli Amici_. 8ª edizione. Due volumi 7 — _Cuore_. Libro per i ragazzi. 69ª edizione 2 — _In-8 illustrate._ _Marocco_. Con 171 disegni di Stefano Ussi e Cesare Biseo 15 — _Costantinopoli_. Con 202 disegni di Cesare Biseo 20 — _La Vita Militare_. Con disegni di V. Bignami, E. Matania, D. Paolocci e E. Ximenes 15 — _Olanda_. Con 41 disegni e la carta del Zuiderzee 10 — Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (mormorio/mormorìo e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. End of Project Gutenberg's Alle porte d'Italia, by Edmondo De Amicis *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 49105 ***